SEMPRE PIU' INCREDIBILE IL PROCESSO A MOUSSAOUI
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(Tratto da www.effedieffe.com)
Sempre più incredibile il processo a Moussaoui.
Di Maurizio Blondet.
STATI
UNITI - Zacharias Moussaoui, marocchino di
cittadinanza francese, è sotto processo in USA.
Il regime americano e i media servili lo chiamano «il dirottatore
sopravvissuto dell’11 settembre», nonché «membro di Al Qaeda».
Zacharias Moussaoui
Rischia, per questo, la pena di morte.
Anche se per l’11 settembre 2001, Moussaoui ha un alibi di ferro.
Non era sugli aerei dirottati perché si trovava in galera - in USA - dal 17
agosto.
L’avevano arrestato in Minnesota, mentre frequentava una scuola di volo, ed
aveva un atteggiamento sospetto.
In ogni caso non ha partecipato agli attentati, non ne è colpevole.
Ma le autorità (cosiddette) americane lo accusano lo stesso.
Di aver taciuto, di non aver impedito quello che sapeva stesse per avvenire.
E lo vogliono far condannare a morte. [Una sentenza simbolica, così forse
vedendo morire Massaoui la gente si scorderà che bin Laden è ancora a piede
libero e non faranno troppo caso all'inettitudine volontaria del governo
USA nel catturare quello che spacciano per il VERO colpevole.]
Cosa non del tutto facile, nemmeno negli Stati Uniti di Rumsfeld e di Bush.
Il processo si metteva male, come abbiamo già raccontato, anche per altri
motivi: s’era scoperto che uno dei legali dell’accusa, l’avvocatessa della
Federal Aviation Administration (cioè del governo) Carla Martin aveva
«imbeccato» alcuni testimoni mandando loro per e-mail le deposizioni rese da
altri testi, perché accordassero la loro testimonianza con quelle. [Vedi
qui.]
Persino la giudice, Leonie Brinkema, a
quel punto ha perso la pazienza: ha interrotto il dibattimento e ha minacciato
di annullare l’intera causa.
Un disastro.
Ma ci ha pensato lo stesso imputato a salvare il processo e il regime americano.
Moussaoui, il 27 marzo, ha ricusato i suoi difensori d’ufficio e si è
spontaneamente dichiarato colpevole:
Sì, lui conosceva Mohamed Atta.
Sì, sapeva in anticipo cosa stava per succedere l’11 settembre.
Sì, sapeva che avrebbero attaccato le Twin Towers e il Pentagono…
Insomma ha messo da solo la testa nel cappio.
La cosa non è tanto strana: da quando è iniziato il processo, Moussaoui si è
auto-accusato, poi ha ritrattato, ha inveito contro i difensori, ha urlato le
lodi di Al Qaeda e del jihad, ha fatto scenate.
Sia pazzo o voglia sembrarlo, questa è la sua strategia.
Ma tuttavia qualcosa di strano c’era, nella sua deposizione del 27 marzo.
Al punto che persino Pete Williams della MSNBC - un network maggiore - nel dare
la notizia della giornata, ha detto in diretta, testualmente: «i suoi soliti
scoppi d’ira [di Moussaoui] non ci sono stati… oggi era molto docile.
Pensiamo che indossasse una di quelle stun belts [letteralmente: cintura
intorpidente], e forse era molto preoccupato di non fare nulla che potesse
indurre i poliziotti a premere il pulsante...».
Dalla sede della MSNBC il conduttore, Abrams, lo
interrompe stupefatto: «una stun belt?! Vuoi dire che gli hanno messo
qualcosa attorno alla vita? Che possono premere un bottone e…».
William si blocca, esita.
Poi conferma tutto: ha avuto quell’impressione, lui e gli altri giornalisti
(1).
Confessiamo che non si capisce bene cosa possa essere una «stun belt»;
se non sia per caso un oggetto di tortura che dà scariche elettriche; e se
l’imputato ne sia stato cinto per tenerlo calmo o per indurlo a dire quel che si
voleva.
Nemmeno sapremmo dire che validità abbia la confessione resa in aula da un
imputato che teme che i poliziotti «premano il bottone».
L’ineffabile giudicessa Brinkema ha ritenuto opportuno non approfondire.
Ma si capisce benissimo una cosa: l’effetto della confessione «spontanea» è
stato guastato da quel TG della MSNBC in prima serata.
Perciò, il governo USA ha fatto ricorse alla prova regina, al colpo di scena
supremo: il super-testimone.
Il supertestimone in questione si chiama, o chiamerebbe, Khaled Sheik
Mohammed.
E’ ( sarebbe) stato catturato in Pakistan nel marzo del 2003, e da allora è
sotto custodia americana. Dove, non si sa.
Khaled Sheik Mohammed
Il
corrispondente de La Stampa Maurizio Molinari -il
giornalista preferito di Giuliano Ferrara per questi temi: di sicura fede
neocon- favoleggia che Khaled sia detenuto in luogo segretissimo, forse su una
nave militare in continua navigazione (2).
Fatto sta che per Molinari come per il regime USA Khaled Sheik Mohammed è «il
regista dell’11 settembre», «la mente di Al Qaeda»: quello che
«convinse Osama a colpire gli USA al cuore».
Anzi, Molinari usa il discorso diretto: «così convinsi Osama a colpire gli
USA… fummo sorpresi dagli effetti [dell’attacco] e dalla reazione
americana».
Come se Molinari l’avesse sentito, il supertestimone, con le sue orecchie.
Invece no.
Nessuno ha sentito questo Khaled.
Nemmeno i giurati al processo contro Moussaoui, nemmeno la giudice Brinkema.
Nessuno.
Tutta la testimonianza della «mente di Al Qaeda» sta in una quarantina di fogli,
che il governo degli Stati Uniti ha presentato al processo, sostenendo che si
tratta di dichiarazioni rese dal detenuto sotto interrogatorio.
Insomma, il supertestimone non è stato portato in aula.
Non è stato sottoposto a domande, né a quello che - ormai impropriamente - si
chiama «confronto all’americana», dove l’accusato può interrogare direttamente
il suo accusatore.
Tutto sta
in una quarantine di cartelle.
La deposizione di un detenuto che il regime dice «la mente di Al Qaeda», ma che
non è nemmeno detto che esista.
Fatto sta che nel testo, il forse inesistente Khaled si accusa di tutto:
dell'attentato a Bali nel 2002, dell'uccisione del giornalista Daniel Pearl del
Wall Street Journal, del precedente attentato alla nave da guerra americana
Cole. E naturalmente anche dell'11 settembre.
Il tutto, ricalcando alla perfezione la versione ufficiale della Casa Bianca:
sono stati Mohammed Atta e i suoi terroristi, coi taglierini, dopo aver preso
lezioni di scuola di volo…Sì, l'ordine è partito da Osama bin Laden.
E sì: anche Moussaoui era della partita. Avrebbe dovuto lanciarsi nel corso di
una seconda ondata di attentati.
In questo secondo gruppo c'era anche Richard Reid, quel tizio - un inglese
convertito all'Islam – che qualche giorno dopo l'11 settembre fu immobilizzato
dalle hostesses mentre cerca a di farsi saltare una scarpa piena di esplosivo,
usando un fiammifero, a bordo di un aereo su cui era salito.
Di Reid non s'era mai capito a cosa servisse: ora lo sappiamo.
Un testimone prezioso per il governo americano, questo Khaled. Si capisce bene
perché non lo presenti mai in aula, a farlo vedere in faccia, e si limiti a
fornire qualche pagina dei suoi interrogatori ottenuti in navigazione su una
nave segreta.
La Casa Bianca (quella che ha ripetutamente mentito su questa orribile faccenda)
ci assicura che Khaled esiste. E Molinari lo conferma.
Deve bastarci.
Alla giudice Brinkema è bastato.
Il
presunto interrogatorio del presunto Khaled Sheik Mohammed
è agli atti. Il processo è salvo.
La giudice Brinkema del resto ha capito che non deve fare troppe domande.
Nemmeno a Zacharias Moussaoui, l'imputato, che ha lì presente in aula.
Eppure Moussaoui avrebbe una cosa importante da spiegare: come mai certe sue
e-mail, spedite quando si trovava a Norman nell'Oklahoma, sono partite dal
computer portatile di Nick Berg.
Nick Berg
Nick Berg, ricordate?
Quel ragazzotto un po' ebreo che abbiamo visto presuntivamente decapitato dal
presunto Al Zarkawi (era incappucciato, e portava al dito una cristianissima
vera d'oro) nel video «raccapricciante» emanato alquanto misteriosamente nel
maggio 2004.
Nick Berg, proprio lui. Che gironzolava per l'Irak appena «liberato» non si sa
bene a far cosa (ma ispezionava installazioni radio), costantemente tenuto
d'occhio dall'Fbi, persino detenuto qualche giorno ad Abu Ghraib…e «decapitato»
senza una goccia di sangue con addosso la tuta arancione di Abu Ghraib, su una
delle sedie di plastica bianca molto usate, ad Abu Ghraib, dai torturatori
americani dilettanti che, poi, si fotografavano accanto alle loro vittime.
Proprio lui.
Ma cosa
c'entra Nick, la vittima del terrorismo islamico,
l'ebreo gironzolone, con Moussaoui? C'entra.
Fu suo padre, Michael Berg, a dire alla CNN che in passato l'Fbi aveva
interrogato Nick in quanto certi messaggi mandati da quel Moussaoui risultavano
partiti dalla casella di posta elettronica di suo figlio, anzi dal suo
computer. E con la sua password (3).
Papà Berg disse anche che tutto era stato chiarito.
Nick frequentava a quel tempo – 2001 – l'università dell'Oklahoma a Norman.
Anche Moussaoui viveva a Norman.
Un giorno, sull'autobus, uno sconosciuto aveva chiesto a Nick di poter usare un
attimo il suo computer per spedire una mail.
Tutto chiaro: a Norman nel 2001 si potevano mandare messaggi elettronici dagli
autobus, in ambiente wi-fi. E gli abitanti del luogo concedono l'uso del proprio
laptop a sconosciuti. A cui confidano la loro password privata.
E' bello che esistano ancora posti così, nel mondo.
Ecco come i terroristi comunicano fra loro: coi computer di gente che incontrano
sul bus. Per questo sono così imprendibili.
Tutto semplice e chiaro: come dirottare quattro aerei armati solo di taglierini.
Perché volerci complicare le cose con assurde teorie cospirative?
Anche se poi papà Berg ha cambiato versione: intervistato dal New Journal del
Delaware, ha detto che «qualcuno usò il suo computer [di Nick] per
mandare un messaggio a Moussaoui». Ma era Moussaoui a spedire, o Moussaoui
a ricevere?
Ecco per esempio una bella domanda da fare al processo. Magari con l'aiuto della
stun belt in dotazione al tribunale.
Maurizio
Blondet.
Note e fonti:
1) Il sito Total Information Awareness ha postato lo spezzone del video
della stupefacente asserzione del giornalista («MSNBC video: Moussaoui wore
stun belt for new testimony», 28 marzo 2006).
2) Maurizio Molinari, «Così
convinsi Osama a colpire gli Usa al cuore», La Stampa, 2 aprile 2006.
3) Il video dell'intervista al papà di
Berg è (o almeno è stato) al seguente indirizzo della CNN
http://www.cnn.com/2004/US/Northeast/05/13/berg.encounter. La versione
riveduta dallo stesso papà si trova al sito:
http://www.delawareonline.com/apps/pbcs.dll/article?AID=/20051211/LIFE/512110363/1005
Per approfondimenti vedi anche: "Colpo di scena nel processo a Massaoui", e "Processo a Massaoui: la sentenza".