Capitolo
3
Scappiamo,
scappiamo! Mi pigli il diavolo, se
questo non è il Levitian descritto dal nobile
Profeta Mosè nella vita di Giobbe il paziente
RABELAIS, Gargantua e Pantagruel
I
Anch’io
ebbi paura che quel varo andasse storto. Il silenzio della folla
era come un sudario e provai un diluvio di sensazioni là sotto…
sì, proprio sotto il Rex. Tante sensazioni da diventare matto.
Mi
chiamo Mario Magonio, operaio specializzato, e al momento del varo
ho avuto due minuti, solo due minuti (e chi mi dice che fossero
due minuti?), per rivedere il mio passato. Li abbiamo calcolati più
tardi, insieme con i miei compagni. Due minuti…Bah! Proprio come
se stessi per morire. Dicono che tutta la vita ti scorre davanti e
non hai il tempo di fermarne le sequenze. E in quei due minuti,
provai anche il tremendo splendore del pericolo.
Forse il tempo non era calcolabile o si era in qualche modo
dileguato. Capita, ma non so nulla in proposito, né potevo saper
nulla, quella mattina del primo Agosto 1931.
E tutto avvenne quando il Rex doveva passare su di me e sui miei
undici compagni. E per un po’, per un’eternità, rimase come
esitante, bloccato. Montagna d’acciaio, gloria del mio e del
nostro lavoro di operai. Eravamo coricati sotto la sua chiglia,
lungo lo scivolo, tutta l’enorme e buia pancia del Rex era a un
metro dalle nostre teste, immobile sopra di noi che avevamo il
volto unto di grasso su cui scintillavano le gocce di sudore. E da
quella pancia veniva un odore di ferro e salmastro.
Le
nostre lucenti gocce di sudore… Erano gli smeraldi degli operai,
diceva il Bertuletta che era piccolino e in realtà si chiamava
Bertula. Chi ricordo ancora dei miei compagni? C’era ü Prain
perché veniva da Pra, c’era ü Picchettin, c’era ü Corason e
io ero Marietto o ü negrin, perché avevo i capelli molto neri.
Non ho dimenticato tutti gli altri, ho dimenticato solo i loro
nomi, è faticoso metterli sui volti, ma forse mi riverranno in
mente a mano a mano. Tutti i compagni di quel giorno mi affollano
il cuore, il mio vecchissimo cuore.
Io, Marietto, io il Negrin, io Mario Magonio ho partecipato alla
costruzione del Rex e avevo solo vent’anni. Ero entrato nell’
Ansaldo quando avevano appena messo la prima lamiera. E ora il Rex
stava per passarmi sopra… Ehi, ve lo giuro: più di 13.000
tonnellate! Per me il Rex era come Dio o perlomeno in quegli
istanti lo confondevo con Dio.
II
Sono
venuto al mondo il 16 Dicembre 1909. I miei genitori non sono
neanche dei ricordi, come dire che non li ho conosciuti. Mio padre
Giovanni Magonio, è morto mentre andava all’attacco con il
moschetto 91 e la baionetta in canna assieme a tanta povera gente
in grigioverde. E’ stato fulminato a Pangrande sul Piave. E’
morto per la Patria che si deve scrivere, come mi hanno insegnato,
con la P maiuscola, sennò diventa come la p di puttana. Prima
di morire in guerra il mio papà lavava i piatti, e poi, diventato
un bravo cuoco, si era imbarcato e se ne era andato in giro per il
mondo. Povero papà, non ha avuto neanche il tempo di darci il suo
affetto!
Ci
ha lasciati soli, mia mamma Gemma, mia sorella Italia e io. Non
ricordo nulla della mamma; chi l’aveva conosciuta diceva che era
bellissima, che assomigliava alla regina Elena. Per me doveva
essere più bella della regina perché non doveva portare quei
grandi cappelli che le avrebbero nascosto le chiome d’oro.
Ha avuto una vita movimentata, la mia mamma, e non mi è stata mai
accanto. E’ stata la nonna, la madre della mia mamma, che era
slava, ad allevarmi. E poi, orfano di guerra, sono passato da un
istituto all’altro.
Rammento che la mia nonna era una cartomante e che faceva parlare
i morti, e che io, piccolo come ero, l’aiutavo nel suo lavoro
muovendo un lume a petrolio che faceva riflettere strane ombre
sulla parete. Vivevamo nel centro di Genova, a Vico Untoria, e io
ogni sera morivo di paura.
Ho avuto ancora più paura quando sono arrivate le guardie regie.
Sono scappato saltando dalla finestra, mi sono fatto male, ma sono
riuscito a dileguarmi, con il cuore che batteva come un martello,
nel buio di Genova. Non ho più visto la mia nonna. Io non credo
che turlupinasse i clienti che si rivolgevano a lei per avere dai
loro cari defunti i numeri del Lotto… Le guardie regie invece
erano sicure che fosse una furbacchiona.
Mi
trovarono in una strada vicina, e vedendo che zoppicavo a causa
della caduta uno di loro mi prese in braccio. La guardia regia
puzzava di sigaro toscano, aveva dei gran baffoni, e io mi sentii
rassicurato come se mi avesse preso in braccio il mio povero papà.
Alla fine furono gentili, con me, le guardie regie; mi dettero i
maritozzi, in caserma. Dissero: “Mangia, poveo figgieu,
è roba buona”.
Sono finito in un istituto per bambini abbandonati di Sant'Olcese.
Le suore erano perfide come streghe: mi chiudevano nella carbonaia
per terrorizzarmi. L’incubo di Sant’Olcese si è concluso
quando avevo sette anni e sono andato a scuola all’Albergo dei
Fanciulli Umberto I. Stavolta ho trovato delle suore buone,le
suore salesiane di Don Bosco, anche se i primi tempi avevo paura
di guardarle in faccia temendo che potessero trasformarsi nelle
streghe di Sant’Olcese. All’Albergo dei Fanciulli ho imparato
ad amare la Madonna, ho trovato in lei una madre, anche se mi
chiedevo sempre dove fosse la mia vera mamma, la mamma di carne,
l’essere che mi aveva dato la vita.
Un orfano non conosce frontiere di affetto: è sempre alla ricerca
di un sorriso, di una carezza, di un gesto di benevolenza, di
labbra che sfiorino la sua fronte. Ma solo sua madre può dare un
profumo alle carezze, ai baci, alla tenerezza.
Poveo
figgieu, povero bambino, ecco come sono stato per anni e anni.
E il poveo figgieu diventa fascista proprio perché è un poveo
figgieu.
III
Tra
qualche istante il Rex passa sopra di me. Be’, se tutti parlano
di lui sui giornali e sulla radio lo deve in minima parte al mio
lavoro, lo deve alle mie mani callose, forti e sanguinanti, che si
sono mischiate a una moltitudine dì altre mani callose, forti e
sanguinanti, che hanno tenuto lamiere, hanno usato torni, martelli
e mazze, hanno afferrato corde per tirare su cataste di tavole e
putrelle, hanno piantato febbrilmente chiodi e fissato viti, hanno
usato la fiamma ossidrica, si sono aggrappate a qualche sporgenza
delle sue alte vette d’acciaio quando i piedi scivolavano. E
alla fine, modestamente, pur restando povere mani di operai hanno
edificato questo miracolo che se ne andrà per i mari di tutto il
mondo.
Perché
non deve essere un miracolo, il Rex? Io sento che avrà una grande
storia. Chissà, forse ho ricevuto qualche scintilla delle doti
misteriose della mia nonna slava. Avrà
una grande storia, il Rex… se non mi schiaccerà, se non ci
schiaccerà tutti, il Bertuletta, ü Prain, ü Picchettin, ü
Coroson e ü Negrin che sono io. Ci han detto che è impossibile.
Crediamoci, con il cuore in gola.
IV
Ero
un ragazzino che aveva sempre vissuto in collegio, che aveva
appreso il mestiere di operaio specializzato all’ Istituto
Artigianelli di Don Montebruno che ha la sua tomba al cimitero di
Staglieno, davanti alla quale m’inginocchio e prego. Ero fiero
di appartenere allo stabilimento dell’Ansaldo, chi lavorava per
l’Ansaldo lavorava per la Patria. S’entrava solo se si era
fascisti, anche se io ne avevo il diritto perché ero un orfano di
guerra. Gli scafi, le lamiere, le eliche accanto alle quali un
uomo era ben povera cosa, le gru che sollevavano tonnellate di
acciaio, il frastuono di un cantiere che cancellava le voci umane.
I
primi tempi ero spaurito. Mi impressionava la forza degli operai.
Mi sembravano giganti anche se capitava che fossero magri come
chiodi. Io ero abituato a vedere dei bambini, dei giovinetti, dei
fuscelli.
Ogni tanto mi apparivano cupi, come se rifiutassero il peso del
loro destino. Erano stati forgiati con lo stesso metallo del Rex e
di altre possenti navi. Anch’io portavo fieramente il volto nero
di grasso da cui spiccavano gli occhi brillanti come scintille di
fonderia. C’erano operai che avevano sempre vissuto sulla
spiaggia, lungo i moli verdi di alghe. Io, che a scuola avevo
studiato la mitologia dei Greci, dicevo che assomigliavano al dio
Vulcano.
M’intimorivano
i maestri d’ascia, quelli che lavoravano il legname e gli davano
una forma perché ogni lamiera era sagomata su seste di legno poi
ci mettevano sopra la lastra.
Erano pezzi d’uomo che non sapevano né leggere, né scrivere,
eppure conoscevano il disegno, sviluppavano la poppa, la prua
della nave come tanti Michelangelo, proprio nati per quel lavoro
perché i padri gliel’avevano insegnato e prima i padri dei
padri…
Stavo
lì a guardarli in silenzio, esseri meravigliosi venuti
dall’inferno o dalle stelle, poiché anche le stelle sono fatte
di fuoco. A quei tempi le lamiere delle navi venivano tenute
insieme con i chiodi; venivano forate e accostate l’una
all’altra in modo che i fori combaciassero: in questi fori io
davo colpi con grossi martelli sui chiodi incandescenti. Le gocce
del sudore degli operai cadevano sulle capocchie dei chiodi e
sfrigolavano. Il sudore era davvero un elemento integrante del
Rex.
V
Guardando
la prua mi trovavo a destra. Poco fa sentivo le voci di quel
sabato d’agosto, sentivo gli applausi, le cannonate, ma tutto mi
sembrava un suono unico o meglio una sola ventata di suoni.
Dio che caldo sotto il Rex
Dio che paura.
Non
avevo il coraggio di guardare la spina. La spina era un fermo che
univa l’invasatura allo scalo. E la spina, dovevo toglierla
nello stesso istante dei miei compagni. Tutti insieme. Perché se
guardavo la spina, non guardavo indietro dove doveva abbassarsi il
segnale azionato a mano che avrebbe dato il via.
E tutti noi come se fossimo un solo uomo, dovevamo staccare la
spina che tratteneva la nave. E se non si muoveva c’erano i
martinetti che avrebbero spinto il Rex verso la battigia. E se i
martinetti non ci riuscivano che Gesù riscendesse a dare una
spinta…
Perché bastava che uno di noi avesse un attimo di ritardo, un
secondo, forse meno, e tutto il peso dello scafo sarebbe piombato
sulla sua spina facendola scoppiare e forse uccidendolo. Un varo
sembra una festa, tutta la gente è vestita bene e sta a guardare,
c’è la madrina che nel nostro caso era la regina Elena, ci sono
gli inni, ci sono le belle ragazze e le belle signore, e poi tanti
militari sull’attenti, tante trombe, le piume dei bersaglieri.
Insomma una bella festa, si diceva sempre. Ma la morte, in un
varo, se ne sta in agguato e io ero sicuro, con tutta la mia
giovane incoscienza, che quel primo agosto era accucciata accanto
a noi, assieme a noi, magari lungo lo scivolo, ci aspettava e poi
se le fosse andata male, si sarebbe spostata altrove dove
c’erano altri operai. Le sue prede preferite erano gli operai.
I
capi del cantiere dicono: non succede mai niente a un varo, è
tutto spettacolo. Storie. Per me la morte era in agguato, come
sempre e come è sua abitudine.
In nome di Dio ti battezzo… Il prete disse così e la sua voce
rimbombò nell’altoparlante.
Poi sentii il colpo della bottiglia di spumante contro la prora,
lo giuro, anche se si ruppe dall’altra parte, a sinistra per chi
guarda il mare. U Prain ha detto più tardi che ho raccontato
storie… E u Corason, che stava a sentire, se ne è fatto di
risate. Giuro che ho sentito lo scoppio della bottiglia di
spumante. E poi…
Che silenzio! Forse perché a un certo punto Dio doveva aver messo
un dito sulle labbra per imporre alla folla di stare zitta. Un
silenzio che scese all’improvviso . Io, almeno, non sentii più
nulla ed ebbi la sensazione che il sudore che calava lungo le mie
guance facesse uno sfrigolio. Dovevano essere roventi di febbre o
di chissà che cosa.
Ma
era il silenzio della folla che mi raggelava. In realtà passavo
dal caldo al freddo, dal freddo al caldo, senza interruzione,
bruciavo come tra le fiamme dell’Inferno e poi gelavo come fossi
sepolto dalla neve, io che la neve dovevo averla vista da bambino
piccolo piccolo. Immaginavo che i miei compagni provassero le
stesse cose, ü Prain, Bertuletta, ü Picchettin… che, come me,
stringevano i denti e avevano la testa storta verso quel segnale.
Eravamo sei a sinistra e sei a destra. In tutto dodici spine da
togliere. Io ero alla terza castagna, noi la chiamavamo così, ma
i tecnici preferivano la parola “scontro”. Era la castagna che
impediva alla nave di scivolare. Prain era alla prima, Bertuletta
alla seconda, gli altri non ricordo…
E poi c’erano le catene che servivano a frenare la nave quando
toccava l’acqua. Erano serpenti di catene da trecento tonnellate
collegati allo scafo e quando la nave scivolava verso il mare si
portava dietro le catene con il rumore del tuono.
Ma
che diavolo aspettavano con quel segnale… gli occhi mi si erano
riempiti di sudore, avevo la vista annebbiata e c’era sempre
quel silenzio che non finiva mai. Pesava come un macigno, pesava
quanto il Rex sulle nostre teste e che mi pareva fremesse…ma
doveva essere il sudore negli occhi che faceva ondeggiare un po’
tutto.
Negrin… Negrin… sentii ad un tratto.
Qualcuno mi chiamava.
Ma chi? Non potevo voltarmi. Dovevo stare con gli occhi puntati
verso quel fottuto segnale…
Non mi vergogno di dire che sul mio cuore passavano scariche
elettriche. Chiamatela paura se volete.
E in uno squarcio brevissimo, sempre per una divina connessione
che mi faceva vivere il passato e il presente, pensai alle
fotografie della Principessa Jolanda rovesciata vicino alla
riva, pensai al transatlantico Roma bloccato sullo scalo…
Tutti dovevano pensare le stesse cose. Le foto le avevo viste in
un album e tutto mi venne davanti agli occhi. Quanto durò
quest’altro lampo di divina connessione? Un secondo? Dieci
secondi? Dai che calcoli a fare Negrin!
E
venne finalmente il maledetto segnale, zac, la paletta rossa
azionata a mano si abbassò.
Tolsi il mio gancio, la mia spina. Sapevo che la nave restava
completamente libera. Libera anche di schiacciarci. Non sarebbe
mai accaduto, certo, ma il fatto di essere sovrastato da una massa
scura lunga 260 metri, faceva rizzare i capelli sulla testa.
Il Rex oscurava la luce del giorno.
VI
Il
segnale si era abbassato, le spine le avevamo tolte… Allora?
Alzai lo sguardo come se avessi Dio che mi pesava addosso…
Allora Madonna santissima? Ti muovi o no?
Quanto durò l’esitazione del Rex non l’ho mai saputo.
Poi mi raggiunse l’urlo della gente e anche il Rex urlò…
Un solo urlo. Ma dovette annullare ogni altro rumore Sestri, a
Genova e in buona parte della costa.
Avevo
chiuso gli occhi , sempre per qualche attimo… I sostegni caddero
con uno schiocco e poi ecco lo sferragliare di catene. Se dico
ch’era spaventoso è poco. Cascata, tuono, tromba d’aria… La
nave si mosse sulla mia testa spinta dai martinetti idraulici.
Quelle 13.000 tonnellate scivolarono a un metro dai miei capelli
molli di sudore. Mi parve che il Rex tirasse un infinito respiro
di liberazione. Il Rex era nato.
Il sego bollente uscì ribollendo dagli scivoli. Una fumata calda
ci avvolse e ci soffocò. Cominciai a tossire. Tutti tossivano e
sputavano.
Più tardi mi chiesero: “Hai sentito le sirene delle navi?”
“No”
“Hai sentito almeno le cannonate?”
“No”
“Ma allora, cos’hai sentito là sotto?”
“La voce del Rex”
“E com’è la voce del Rex, Negrin?”
“Come un tuono”
Ci
rimettemmo di scatto in piedi, tutti storditi, e facemmo il saluto
fascista al Rex che finiva la sua corsa sugli scivoli. Aveva
percorso forse trecento metri, sempre avvolto da una gran nube di
fumo a causa dell’attrito.
La nave fece l’inchino alla madrina. Si chiama così, la strana
magia che capita talvolta in un varo: lo scafo procede sugli
scivoli, arriva all’avanscalo sommerso e, al termine, perde un
po’ di galleggiabilità in prua e fa una specie di riverenza.
Non perdevamo di vista il Rex. Lo scafo si allontanò dalla costa
per essere raggiunto dai rimorchiatori che dovevano portarlo alla
banchina di allestimento.
Vederlo in mare, nel suo luogo naturale, mi portò una vampata di
orgoglio. Da gelido che era, il mio cuore, s’era riempito di
calore, come se pompasse fuoco. Urlai a Prain, Picchettin e a
Corason.
“E adesso come vi sentite?”
E loro, sempre immobili come me nel saluto fascista, risposero:
“Nostro figlio ha lasciato la culla”.
Una montagna di acciaio, ma era nostro figlio, il Rex.
Parole
che, anni dopo, mi dettero da pensare perché l’invasatura in
fin dei conti è una culla.
Prain era più bagnato di me perché si trovava alla prima
castagna, quasi sulla battigia e quando la nave aveva toccato
l’acqua si erano formate grandi onde che salivano verso di noi.
Solo quando il Rex fu in mare mi resi conto che intorno a me e
sulla nave gli uomini urlavano, si rotolavano per terra, facevano
le capriole, si davano delle botte sulle spalle piangendo,
urlavano il nome dell’ingegnere costruttore.
Era la nave più imponente che avesse costruito l’Ansaldo ed era
anche opera mia, lo ripeto e lo ripeterò sempre. Il mio maestro
era un vento e m’aveva detto: Negrin ascolta: degli uomini così
piccoli hanno fatto una nave così grande!
Sì,
eravamo fieri d’essere operai, fieri d’esserlo anche nel
dolore e nella fatica. Perché non insisterci su queste cose?
Eravamo onorati di lavorare all’Ansaldo. Quando suonava la
sirena per annunciare che qualcuno era caduto dalle impalcature ed
era morto, noi pensavamo che era inevitabile che il lavoro fosse
fatto anche di sangue. Eravamo noi a fare una colletta per la
famiglia. Ma la sirena ai tempi del Rex e di altri bastimenti
suonava spesso. Morire era una cosa troppo normale.
…
continua…..
Epilogo
Ho
incontrato Mario Magonio nel luglio del 2002. Era un pomeriggio di
sole a Nervi. Il signor Magonio mi aveva raccontato la sua storia
come protagonista del varo del Rex e la sua storia di orfano,
operaio specializzato e prigioniero dei tedeschi. E c’era stato,
subito dopo, un lungo silenzio che lui stesso interruppe dicendo:
“Vuole sapere cosa penso dell’affondamento del Rex?”
Il figlio si interpose: “Dai, papà, diglielo”
“E’ stata una vendetta degli inglesi e… dei tedeschi” gridò
il vecchio.
“Cosa vuol dire signor Magonio?”
“Io non credo a tutte le spiegazioni strategiche… il Rex era
una nave moribonda, non minacciava nessuno, era stata depredata
selvaggiamente dai tedeschi. Era lì, alla fonda. Che senso aveva
accanirsi contro un relitto? Sparagli con i razzi? Non poteva
difendersi, e nessuno ha voluto difenderlo. Perché la contraerea
non ha reagito come avrebbe potuto? Gli inglesi hanno voluto
vendicarsi perché il Rex aveva conquistato il Nastro Azzurro. Non
hanno mai accettato il fatto che una nave italiana avesse potuto
meritare il trofeo. E i tedeschi lo hanno depredato e non lo hanno
difeso con i loro cannoni per vendicarsi di aver perso il Nastro
Azzurro nell’agosto del 1933 e per far perdere ogni traccia dei
loro furti sulla nave. L’affondamento del Rex è stata una
vigliaccata. Specialmente per uno come me, che si sentiva uno dei
suoi padri… O chissà, forse eravamo noi, tutti figli suoi…”
L’
Autore
Ulderico
Munzi è stato inviato speciale della Nazione e del Resto
del Carlino, collaboratore dell’Espresso, inviato e
poi corrispondente da Parigi del Corriere della Sera,
quotidiano per il quale ancora lavora. E’ autore di Matusa
(1968), Scandali politici (1978), Il viaggio della
speranza (1985), per Frassinelli ha pubblicato Un’altra
Parigi (1985 con David Downie) e per Sperling & Kupfer, Il
caso Diana Spencer (1998), Donne di Salò (1999) e L’uomo
che poteva salvare il duce (2001, con Marco Antonini). Vive a
Parigi.
I
TEMPI DEL REX
dalle memorie di
MARIO MAGONIO
Avevo
appena compiuto vent'anni quando entrai a far parte della grande
famiglia dei lavoratori dei Cantieri Navali Ansaldo di Genova. Per
questo, con tanto rimpianto, avevo dovuto abbandonare la mia
famiglia di ragazzi orfani, come lo ero io, del Collegio
Artigianelli dei Fratelli delle Scuole Cristiane dove mi aiutarono
a diventare un uomo insegnandomi un mestiere e ad amare la vita e
i miei nuovi compagni di lavoro.
Eravamo in piena epoca fascista ed una legge garantiva un posto di
lavoro agli orfani di guerra in un stabilimento governativo e
quindi grazie a questa sfortunata qualifica potei entrare nei
Cantieri Ansaldo dove rimasi come operaio aggiustatore qualificato
per ben 39 anni fino alla pensione. Il posto garantiva una paga
modesta ma sicura con la quale, con qualche economia, si poteva
aspirare a formarsi una famiglia ed affittare un modesto alloggio
nel centro storico di Genova.
Il primo giorno di lavoro mi trovai sperduto. Ero assordato
da un terribile rumore di martelli che battevano le lamiere,
fischi delle locomotive, scarichi di vapore ed un laborioso
andirivieni di operai attorno a quell’immenso scalo con due
enormi vasi e taccate di legno che si preparavano ad ospitare la
prima lamiera di quel transatlantico che si sarebbe chiamato Rex.
I miei compagni di lavoro non erano i ragazzini che avevo
frequentato nella officina del collegio, ma uomini adulti
muscolosi e bruciati dal sole e dal salino del mare dove vivevano
la loro vita, con un vocione possente che strascicava le consonati
della parlata genovese. Mi sembravano dei giganti e sperduto ed
intimidito mi sembrava di essere stato catapultato in un nuovo
mondo. Mi chiamavano “balletta” e mi sorridevano spiegandomi
pazientemente le mie mansioni e qualcuno talvolta mi faceva una
carezza di incoraggiamento.
Il 27 Aprile 1930 con una breve cerimonia, presente il
Direttore del Cantiere ed alcune autorità del regime venne
impostata la prima lamiera del Rex. Una grossa gru con il gancio
imbandierato con il tricolore depose la prima lamiera di chiglia
con il paramezzale centrale. Era l’inizio di una costruzione che
significava gloria per il regime, onore per la tecnica italiana ma
soprattutto tre anni di lavoro sicuro per noi operai che ben
sapevamo che uno scalo vuoto poteva significare il licenziamento.
I lavoratori che più ammiravo erano i maestri d’ascia.
Erano operai che provenivano in massima parte da Prà, Voltri ed
Arenzano che avevano imparato il mestiere sulle spiagge aiutando i
pescatori a tirare le reti e i vecchi maestri a costruire sulla
battigia i loro pescherecci e piccoli gozzi. Il mio lavoro come
meccanico consisteva nel collaborare con loro nella preparazione
dello scalo installando le controleve in ferro che fissavano la
sella della nave ai vasi e alla sistemazione dei martinetti di
spinta predisposti per dare inerzia alla nave al momento del varo.
La mia squadra sistemava anche i pistoni che sotto il mare
avrebbero alzato e allineato l’avanscalo allo scalo per
permettere una sicura discesa in mare della nave.
Anche se eravamo nell’era delle navi in ferro i Maestri
d’ascia non avevano perso il loro prestigio. Avevano il delicato
compito di creare le sagome slanciate della poppa e della prua
della nave per sagomare su di esse le spesse lamiera tramite le
calandre di officina e dovevano assicurare con incastellature di
taccate i vari pezzi che man mano andavano ad assemblarsi allo
scheletro della nave. Le lamiere in ferro del fasciame, le
costole, i bagli dei ponti erano
tutti assemblati tra loro mediante la chiodatura a caldo con
chiodi arroventati sul fuoco e ribattuti a mano con grossi
martelli.
Una squadra di riveur (ribattitori) era formata da quattro
operai. Un ragazzino che con una forgia girava una manovella per
alimentare con aria un letto di carboni ardenti dove i chiodi
venivano scaldati fino a diventare bianchi, il passachiodi che con
una lunga pinza sceglieva il chiodo giunto al giusto colore e con
destrezza lo infilava nel foro di alloggio. Il terzo operaio con
una mazza di ferro senza manico teneva fermo il chiodo mentre il
ribattitore con un grosso martello lo schiacciava e sagomava prima
che perdesse la forza di tenuta dovuta al raffreddamento.
Era un lavoro spossante e continuo che non permetteva soste
mentre migliaia di chiodi univano le lamiere dando forma
all’imponente scafo. Dopo i maestri d’ascia erano gli operai
che ammiravo di più soprattutto il tienichiodi che era sempre il
più massiccio e muscoloso della squadra per lo sforzo che doveva
fare in opposizione ai veloci e potenti colpi di martello.
Allora ero ancora troppo giovane per capire il prezzo che
si doveva pagare per costruire quei maestosi transatlantici.
Sudore e sangue per i numerosi morti per incidenti sul lavoro.
Bastava una disattenzione, un eccesso di fiducia, un momento di
stanchezza e la morte, sempre in agguato ti ghermiva distruggendo
una vita, una famiglia, una amicizia. Solo ora che sono vecchio
capisco l’importanza delle lotte sindacali per combattere le
“morti bianche” e le leggi sulla sicurezza sul lavoro
conquistate con grande fatica e imponenti manifestazioni.
Il 30 Luglio 1931 era la data fissata per il varo dello
scafo del Rex. Il varo è l’operazione più delicata e
impegnativa di tutta la costruzione di una nave. Tre giorni prima
della data fissata si inizia una preordinata operazione di
demolizione delle taccate e dei puntelli della nave a intervalli
preordinati di quattro ore per giungere esattamente all’ultima
demolizione a poche ore dal varo. Contemporaneamente lo scalo
abbondantemente cosparso di panetti di sevo si ritrova a sostenere
l’intero peso della nave che con l’ultima demolizione viene a
poggiare definitivamente sui vasi trattenuta da 12 enormi
controleve di acciaio dette castagne, ultimo freno alla discesa in
mare. Man mano che le demolizioni procedono le squadre si ritirano
lasciando in ultimo i 12 addetti alle spine delle castagne
sdraiati un metro sotto la chiglia della nave pronti a far
scattare le castagne, eventualmente con un colpo di mazza,
nell’istante che la bottiglia di champagne colpisce la prua.
Dopo di ciò si devono stendere lasciando scorrere sopra di loro
la massa della nave tra un rovinio di taccate ed il frastuoni
delle catene che con il loro peso di centinai di tonnellate
frenano la corsa della nave. Momenti terribili ma magici mentre il
cuore pulsa per la paura e l’emozione.
Quel giorno io ero uno dei 12 addetti alle castagne e ne ero molto
fiero. A causa del maltempo la sequenza di demolizione delle
taccate era stata interrotta (come oggi interrompono il count-down
nel lanci dei missili) e riprese solo 24 ore dopo per arrivare al
momento varo alle ore 8.00 del 1 Agosto 1931. Io mi trovavo al mio
posto con la mano sulla spina di sicurezza della castagna e la
mazza pronta per intervenire in caso di bloccaggio del
dispositivo. Un silenzio irreale circondava la nave mentre il
sacerdote benediva lo scafo ed esclamava rivolto alla madrina, la
regina Elena: “In nome di Dio taglia!” Il secco colpo della
accetta di argento della madrina tagliò il nastro che frenava la
bottiglia che con un elegante volo colpì la prua della nave, i
segnalatori ci indicarono di togliere, tutti contemporaneamente,
le spine di sicurezza, le castagne scattarono con una schianto
assordante e mentre gli spettatori applaudivano tra il suono delle
sirene, la banda che suonava la Marcia Reale e i colpi di cannone
delle navi al largo. Maestoso ed imponente quasi senza fretta lo
scafo prese a scivolare in mare. Sentivo il sevo bollente
sfrigolare sopra la mia testa, il cigolare della sella, il
frastuoni delle catene mentre la chiglia scorreva sulla mia testa
ed infine vidi la luce e potei alzarmi spuntando tra i vasi
bollenti per salutare la nave che sul ciglio dell’avanscalo
faceva un elegante inchino alle autorità e alle maestranze e poi,
ricuperata la galleggiabilità, si fermava trionfante nello
specchio del porto.
Un
senso di felicità mi invase, mentre salutavo, ringraziando Dio
per averci protetto. Bastava un errore ed una fatalità per vedere
un disastro come era successo ai Cantieri di Riva Trigoso durante
il varo della nave Principessa Jolanda quando nel momento in cui
la nave scendeva in mare una parte dell’avanscalo sommerso
cedette e la nave si rovesciò sulla battigia. Non ci furono
fortunatamente morti ma la nave dovette essere demolita e
ricostruita.
Per noi tutto funzionò a meraviglia. La nave fu trainata in porto
al Molo Giano dove iniziò l’allestimento. Il mio reparto sistemò
in quel molo una officina di riparazione degli attrezzi e così
potei seguire tutte le operazioni di allestimento fino alla prima
uscita in mare per le prove di macchina che avvenne il 4 settembre
1932. Potei vedere i grandi motori marini dell’Ansaldo
Meccanico, i giroscopi, le quattro enormi eliche di bronzo, i
meravigliosi e lussuosi saloni e le opere d’arte che gli
adornavano. Era una vera città galleggiante, con alberghi di
lusso, sale da ballo, ristoranti, bars e piscine.
La
vidi partire il 10 Agosto 1933 quando si tentò di stabilire il
record di velocità nella traversata atlantica. Era tutta
impavesata, i piroscafi in porto la salutarono con le loro sirene
mentre i rimorchiatori oscuravano il cielo con imponenti getti
d’acqua. Anch’io le augurai buon viaggio, salutando con la
mano. Non ero più un ragazzino, ero diventato un uomo dal viso
abbronzato e dalle spalle forti, ero cresciuto con lei e come lei
ero orgoglioso di far parte di quel gruppo di uomini, invidiati
nel mondo, che avevano costruito quel colossale transatlantico
meraviglia della tecnica cantieristica Italiana: Il Rex.
Un
mese dopo ero sulla rotonda di Via Corsica, un meraviglioso
belvedere sul porto e sul mare di Genova, e vidi entrare maestoso
in porto il Rex di ritorno dal trionfale viaggio in cui con una
media di 29,56 nodi vinse il Nastro Azzurro. Le navi
all’ormeggio suonarono le sirene, i Garaventini schierati sul
ponte salutavano militarmente mentre la banda suonava la Marcia
Reale, dai terrazzi e dai balconi tutta Genova salutava con le
bandiere il rientro del Rex e noi Ansaldini guardavamo orgogliosi
la nave che avevamo costruito e che consideravamo una parte di
noi.
Nel
corso della seconda guerra mondiale il Rex venne messo in disarmo
nella Baia di Capodistria dove venne colpito ed affondato da un
attacco di aereo-siluranti
Inglesi, una beffa perché era una nave in disarmo, non aveva
cannoni puntati contro di loro e non costituiva una minaccia… se
non perché ricordava al mondo la grandezza e la tenacia dei
tecnici Italiani.
Mario
Magonio - Aggiustatore
Meccanico - Classe 1909
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