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I MONOLITI DI LECH

 

Il caffè aveva il solito gusto indefinibile, artificiale. Tutto, sulla navicella, era artificiale: la gravità, la luce, il cibo, persino l'amico del cuore (Jenny, un computer, ovviamente, assistente - psicologo - confessore).
Vedeva la nave madre il tempo necessario per i rifornimenti, imbarcati attraverso un lungo tubo dispiegato nello spazio. Dopo due anni di perlustrazione nel sistema Vega, desiderava tanto una mosca da scacciare, un raffreddore da curare, un imprevisto, una scarica di adrenalina, qualsiasi cosa che non fosse creato o governato da Jenny. Il refettorio era un angusto sgabuzzino appena fuori dalla cabina di pilotaggio con un tavolo, una sedia, una piccola dispensa con cibi in gran parte sintetici, a parte la verdura prodotta nella serra e il latte prodotto dalle 2 caprette che dividevano con lui la solitudine siderale. Almeno loro erano in due.
"Tra cinque minuti Lech sarà a distanza di rilevamento" suggerì la voce sensuale e persuasiva di Jenny.
Con gesti meccanici raggiunse il sedile di pilotaggio e si allacciò la cintura. "Vegetazione apparentemente intensa e molto regolare, atmosfera di tipo terrestre, non si notano variazioni orografiche apprezzabili ...". Jenny iniziò a sciorinare la solita litania, seppure con voce accattivante e sensuale.
La nave era in orbita ravvicinata; procedette a velocità sostenuta verso est; Vega aveva abbandonato l'orizzonte. Superò una catena di montagne, dopo di che il terreno assunse nuovamente il suo aspetto rigoglioso e monotono.
Scorse qualcosa: un dettaglio pressoché impercettibile ma al suo occhio allenato non erano sfuggite alcune piccole macchie scure dislocate con una certa regolarità nella foresta. Decise di effettuare una ricognizione a bassa quota. Effettuò un ampio giro per tornare a percorrere la strada già fatta, e portò la nave ad una altezza di appena mille piedi.
Ora era in grado di definire meglio quanto lo aveva colpito: parevano altissimi parallelepipedi riflettenti, apparentemente metallici. Particolare curioso, una fitta vegetazione ne coronava la sommità, quasi un pezzo della foresta circostante. Tornò a compiere un ampio giro e si abbassò ulteriormente: trecento piedi.
In due anni era la prima volta che trovava tracce di intelligenza. L'emozione lo colse. Sapeva che gli spettava anche un premio, forse una vacanza di qualche giorno sulla nave madre.
Jenny ripeteva con voce annoiata e sensuale "Attento, pericolo indefinibile!".
Qualunque cosa fossero, non potevano essere fenomeni naturali. Con un colpo sul mouse tacitò sgarbatamente Jenny e concentrò l'attenzione su uno di essi. Compì un giro ravvicinato e poi ... accadde qualcosa.

La bianca luce di Vega si oscurò. Poche centinaia di metri davanti alla nave si era materializzata una altissima parete metallica. Il radar segnalò a suo modo il pericolo incombente attivando la sirena.. Sam era assordato e pallido: istintivamente tirò a sè la cloche nel tentativo estremo di evitare l'ostacolo e si irrigidì in attesa dell'impatto. La navicella rimbalzò con le ruote sulla parete liscia e andò in stallo; il pilota automatico assunse il controllo dai comandi e, dopo una caduta che al povero Sam, parve eterna, ridiede portanza alle ali. Il suolo era terribilmente vicino e la navicella urtò i rami più alti della folta vegetazione sottostante. Gli urti attivarono il congegno di espulsione automatica e SAM venne sparato fuori.
Perse finalmente i sensi.

Si risvegliò. Cercò di far luce nella sua mente intorpidita. Il buio totale non lo aiutava. Gli parve di essere appeso nel vuoto Si dimenò alla ricerca di un appoggio per i piedi: il ramo che reggeva il paracadute a cui Sam era appeso si ruppe. Cadde al suolo senza capire nulla, con una vaga sensazione di "già vissuto", di letto troppo stretto, di impatto con la moquette morbida della sua cameretta, nella totale oscurità della notte. Gli venne da piangere per il dolore e lo spavento e inconsciamente gridò "mamma".
Cercò di far luce nella nebbia dei suoi pensieri; una fitta lancinante al fianco sinistro lo bloccò e nello stesso tempo lo richiamò alla realtà. Passò la mano sul terreno morbido e la portò al naso: muschio. Una fredda brezza lo aiutò ad attivare la sua mente e ricordò: il monolito, l'impennata, la lunga caduta e poi il nulla. SAM era stato addestrato per le emergenze. Eseguì meccanicamente movimenti ripetuti migliaia di volte, mentre nella mente ripeteva i concetti di sopravvivenza memorizzati durante i pesanti addestramenti subiti al Centro Spaziale. Si liberò del paracadute, si alzò con circospezione e prestò orecchio nell'immobilità più assoluta, cercando di captare il minimo rumore o fruscio che potesse rivelargli una presenza, una forma di vita. Gli occhi si erano adattati all'oscurità e vaghe forme immobili cominciarono a prendere forma: alberi, arbusti e ... null'altro. In lontananza gli parve di udire il frinire di una cicala. Un colpo di vento fece stormire le alte fronde sulla sua testa, poi si aprì uno spiraglio ed egli vide una stella.
Tutto faceva pensare ad una tranquilla notte in un bosco delle sue colline, come ne aveva passate tante nella sua infanzia ad inseguire lucciole e a fantasticare su impossibili avventure. Si rilassò; la fitta al fianco si era fatta meno forte, ed egli giudicò che la caduta non aveva fatto sari danni al suo organismo.
Rifletté sulla sua condizione di naufrago. Nella sua mente scorrevano nitide le nozioni apprese al corso di "Sopravvivenza in ambiente ostile", nell'ultimo anno trascorso al C.A.E. (Centro Addestramento Esploratori) dove si era laureato. Aveva sperato di non dover utilizzare mai.
La notte su Lech doveva durare pressappoco come sulla Terra, vista la somiglianza tra i due pianeti. L'aria, respirabile, era più rarefatta di quella terrestre, e questa forse era stata la causa del tardivo funzionamento dei congegni automatici di emergenza di cui era dotata la navicella. Doveva apprestarsi in qualche modo a passare una notte piena di incognite. Ebbe un momento di sconforto. Fantasmi dal più profondo della sua mente presero corpo a poco a poco; forse occhi di orribili mostri lo stavano osservando, forse qualche rettile velenoso stava per piombare sulle sue spalle indifese. Fece qualche esercizio di rilassamento e riprese il controllo dei suoi nervi: si disse che in fondo non era ancora successo nulla e lui non sapeva da quante ore si trovava in quella situazione.
Si sentì spossato. La tuta forniva una valida barriera al freddo della notte ed era anche sufficientemente robusta da proteggerlo da punture di insetti e da morsi di piccoli serpenti. Si calò sugli occhi la protezione del casco, cercò a tentoni un solido tronco, si sedette, vi si appoggiò guardingo e infine si addormentò.

Aprì gli occhi di scatto. Gli pareva di non aver dormito molto ma era già chiaro. Mise a fuoco la vista e si bloccò terrorizzato: un'ombra si muoveva proprio di fronte a lui, a pochi centimetri dal suo casco, Controllò i suoi nervi e rimase immobile; il casco era unidirezionale e dall'esterno non si poteva vedere il suo viso. Rimanendo immobile osservò attentamente l'essere che gli stava davanti e, con sua sorpresa, realizzò che si trattava di un bambino che probabilmente cercava di carpire il segreto racchiuso in quella tuta argentea. Dietro di lui una ragazza, sui diciotto anni, secondo i canoni terrestri. La ragazza gli posò una mano sulla spalla, nell'evidente tentativo di allontanarlo. Il bambino resistette e allungò una mano verso quella inerte di Sam. Li per lì non seppe che fare; si sentiva nervosissimo e a stento represse l'istinto di afferrare quella mano all'apparenza inoffensiva e di chiedere aiuto. Concentrò la sua attenzione sulla ragazza, improvvisamente illuminata da un raggio di luce filtrato tra le alte fronde appena mosse dal vento. Lineamenti vagamente orientali che contrastavano con i capelli lunghi e biondissimi, raccolti in due trecce che le conferivano un aspetto vagamente infantile. sulla terra si sarebbe potuto definire una bella ragazzina ...con qualcosa di più. Il bambino fece un gesto per alzare la protezione del casco e Sam, colto di sorpresa ebbe un sussulto. La ragazza emise un urlo ed afferrò il bambino per un braccio, trascinandolo di peso fin dietro al grosso tronco di quella che avrebbe potuto essere definita una quercia. L'incanto era rotto ed Sam, dopo avere valutato rapidamente che dai due ragazzi non poteva derivargli alcun pericolo, decisi di tentare di stabilire un contatto. Si assicurò che lo stessero osservando, dopo di che, con movimenti lenti e studiati, si sfilò il casco. Rimase immobile in quella posizione e dopo poco il capo del bimbo spuntò completamente da dietro l'albero. Sam sorrise, subito ricambiato, ma continuò a rimanere immobile. Gli parve che i due parlassero, dopo di che anche il capo della ragazzina spuntò da dietro la quercia.
Una voce non molto lontana fece sussultare Sam e i ragazzi. Un tono perentorio, come un ordine, una musicalità simile all'inglese. I due si guardarono, poi la ragazza si voltò e trascinò il bambino nel folto della vegetazione.
Sam decise di non esporsi ulteriormente poiché, mentre si sentiva in grado di tenere a bada due ragazzi, non era altrettanto sicuro di poterlo fare con uno o più adulti, magari armati. Il paracadute era ancora sulla sua testa, semi nascosto dalle fronde. Per avere una speranza di salvezza, doveva tentare di rintracciare la navicella, o quanto restava di essa. Forse la radio funzionava ancora e comunque aveva una scorta di cibo e di armi che potevano permettergli di sopravvivere a lungo in un ambiente ostile. Si era rintanò in un cespuglio per studiare una strategia.
Una improvvisa sensazione di stanchezza lo distolse dai suoi pensieri; le sue membra erano diventate pesanti, si sentì irresistibilmente attratto verso il suolo. Temette uno svenimento ma resistette.
Poi, altrettanto improvvisamente, tutto tornò normale. Le fronde stormivano più intensamente ed una specie di vento proveniente dall'alto fece cadere qualche ramo rinsecchito. Il paracadute cadde e si afflosciò al suolo poco lontano.
Dopo un paio di minuti provò la sensazione opposta a quella che aveva provato prima: membra leggere, sensazione di capogiro e di fastidio allo stomaco, come quello che si prova quando un aereo inizia ad atterrare. Tutto finì improvvisamente, come era cominciato.
Frastornato, si accorse di essersi aggrappato agli arbusti circostanti in un modo talmente disperato che ora le mani gli dolevano. Attese a lungo che succedesse qualcos'altro. Vega era ormai alta sull'orizzonte e la temperatura si era alzata sensibilmente. Decise di esplorare i dintorni in cerca di una radura, dei resti della navicella, di qualunque cosa potesse modificare la situazione senza speranza in cui si trovava in quel momento. Seguì un specie di sentiero appena tracciato tra gli alberi, pronto a buttarsi lungo disteso nell'erba alta ed incolta al minimo rumore sospetto. L'angoscia fece più volte capolino, ma il suo carattere forte ebbe il sopravvento.
Dopo che ebbe percorso un centinaio di metri, scostando con la mano un gruppo di liane che gli sbarravano il passo, dovette arrestarsi di botto: di fronte a lui, come uno schermo, era comparso il cielo azzurro. Si sporse oltre le liane ma si ritrasse immediatamente: di fronte a lui il terreno finiva e si apriva una voragine.
Si aggrappò all'albero più vicino per superare lo smarrimento e il senso di vertigine che aveva provato in seguito alla scoperta. Quando si fu ripreso, la curiosità ebbe il sopravvento e Sam, dopo essersi assicurato della solidità della liana, si aggrappò ad essa e si affacciò sul baratro: qualche centinaio di metri sotto di lui si estendeva maestosa e selvaggio la vegetazione che già conosceva, interrotta qua e là, non seppe dire a che distanza, dai colossali monoliti riflettenti coperti di vegetazione che erano stati la principale causa dei suoi guai.
Capì che si trovava sulla sommità di uno di essi.

Sconsolato, guardò ancora il cielo, frugando con gli occhi l'infinito alla ricerca dalla Terra; poi li abbassò e cominciò ad esplorare sistematicamente il manto verde che si estendeva lontano sotto di lui.
Non fu in grado di giudicare quanto tempo passò in quella posizione, ma alla fine la vide: la densa e compatta vegetazione, qualche chilometro verso sud, era interrotta. Un solco di forma allungata tradiva un evento traumatico, forse un meteorite, forse la sua navicella.
Passò il tempo successivo a meditare su quali potevano essere le possibilità di soluzione al suo problema; innanzitutto doveva trovare il modo di scendere dal monolito e di raggiungere la sua navicella, o quanto restava di essa. L'unico dato concreto che possedeva era il buco nella vegetazione sottostante e quindi decise che quello sarebbe stato il suo obiettivo. Non ci volle molto tempo per trovare la soluzione al problema della discesa: aveva ancora il paracadute.
Tornò sul luogo dove era caduto la notte precedente; forse il vento non lo aveva portato via. Il paracadute giaceva afflosciato sull'erba. Lo riavvolse con cura, sistemandolo nell'involucro che portava ancora sulla sua schiena. L'idea che il lancio potesse presentare dei pericoli non lo sfiorò affatto, e del resto non poteva permettersi di avere paura.
In breve fu pronto. Raggiunse il bordo più vicino in linea d'aria al suo obiettivo e, senza pensarci troppo, si lanciò.

Il paracadute si aprì docilmente dopo alcuni secondi di caduta libera. Manovrando abilmente con i tiranti, Sam indirizzò la discesa verso la radura dove sperava di trovare al nave. Doveva avvicinarsi il più possibile per ridurre al minimo il percorso da effettuare a piedi nella foresta. Improvvisamente ricordò che il pianeta era abitato e si sentì nudo ed atterrito al pensiero che in quel momento poteva essere osservato da occhi ostili, e magari puntato da più di un mirino. Si diede dello stupido per non averci pensato prima di buttarsi e attese con angoscia che un proiettili gli trapassasse le carni, ponendo così fine alla sua avventura. Il suolo si avvicinò gradualmente e quando SAM fu prossimo alle cime degli alberi si sentì salvo. Evitò con un calcio la punta di quello che sulla terra sarebbe stato un pino e poi fu sopraffatto dallo sferzare dei rami pungenti sempre più duri, man mano che scendeva.
Com'era prevedibile, il paracadute si fermò di colpo, impigliato in un ramo, ed egli dovette spendere molte delle sue forze per arrampicarsi sui tiranti fino al ramo più vicino. Liberatosi dell'imbracatura iniziò la discesa ed in breve fu a terra. Ebbe un lieve capogiro e fu costretto a sdraiarsi per non cadere; fu a quel punto che ricordò di essere a digiuno da quasi due giorni. Rimase in quella posizione per riprendere le forze e quasi si assopì. Dopo pochi minuti fu destato da un rumore di passi affrettati. Rimase immobile nell'erba incolta, cercando di intuirne la provenienza. Forse lo avevano visto scendere e lo stavano venendo a prendere.
I passi aumentarono di intensità ed egli tese i muscoli preparandosi a scattare. Alzò lentamente la testa e vide due ragazzi con una borsa in mano che procedevano a passo spedito seguendo una traiettoria che egli giudicò non pericolosa per lui. Uno dei due giovani estrasse di tasca un oggetto e lo osservò preoccupato. Disse qualcosa al compagno dopo di che i due si misero a correre. Sam stette in quella posizione per un tempo sufficiente a sentirsi al sicuro, dopo di che si alzò; osservò il muschio sulla base degli alberi e si mosse verso sud.
La foresta fu percorsa da una folata di vento che durò un paio di minuti. Sam non diede molta importanza alla cosa e procedette spedito, per quanto gli consentivano le forze, spinto dalla speranza, fermandosi solo per brevi istanti per riprendere fiato. La navicella, grazie alle scorte di cui era dotata, gli avrebbe se non altro permesso di risolvere il problema del cibo.
Stimò di avere percorso circa quattro miglia, per cui decise di fare il punto sulla sua posizione. Scelse un albero sufficientemente grande e con molti rami, per essere sicuro di poter arrivare in alto facilmente, e si arrampicò. Emerse quanto gli bastò per vedere che il suo obiettivo si trovava a poche centinaia di metri da lui, non lontano da un colossale monolito che lui non ricordava di avere mai visto in quella zona. Discese e si avviò guardingo nella nuova direzione.

Si affacciò sulla radura e gli si allargò il cuore: in fondo a una scia di alberi divelti, incastrata tra due querce, le ali spezzate, la navicella giaceva inclinata su un fianco. Evidentemente la vegetazione aveva attutito l'impatto quel tanto che era bastato per impedirle di disintegrarsi, anche se l'aveva resa palesemente inutilizzabile. Iniziò a correre verso di essa, ma si fermò di botto. Un gruppo di uomini con uno strano oggetto appuntito, probabilmente un trapano, uscì da dietro la navicella; la stavano osservando, come se cercassero il punto più adatto per bucarla. Poco lontano si stagliava verso il cielo l'imponente monolito. Ora lo poteva osservare con più attenzione: le pareti non erano omogenee, ma erano composte da lamine di meteriale scuro e riflettente, probabilmente vetro. Alla base si vedevano chiaramente tre aperture da cui entravano ed uscivano uomini e donne variamente vestite, con borse zaini ed altri accessori che ricordavano l'attrezzatura dei boy scout. SAM capì che i monoliti non erano altro che immensi grattaceli. Dopo aver platealmente assaporato l'aria aperta, consultavano l'oggetto che SAM concluse essere probabilmente un orologio e si immergevano nella foresta.
SAM decise di aspettare la notte. Vega stava tramontando e il cielo fornì uno spettacolo che non aveva nulla da invidiare ai più bei tramonti dei mari tropicali della Terra.
Gli "indigeni" rinunciarono evidentemente ad attaccare l'oggetto sconosciuto e continuarono ad osservarlo con curiosità e timore. Ad essi si erano aggiunti altri uomini, vestiti in modo uguale, forse una divisa, probabilmente forze dell'ordine. La luce si attenuò rapidamente e ben presto fu difficile persino distinguere i contorni degli alberi più vicini. Dalle aperture del monolito usciva una luce gialla che conferiva alla nave un aspetto vagamente sinistro.
Lentamente la radura si svuotò. Sam memorizzò alcuni riferimenti e cominciò ad avanzare al buio, badando di non far rumore. Improvvisamente le aperture del monolito si chiusero e l'oscurità più completa avvolse le cose.
Il cielo stellato gli permise di proseguire, sebbene con non poche difficoltà, e di raggiungere i riferimenti che aveva memorizzato, ma più di una volta ebbe il dubbio di muoversi nella direzione sbagliata.
Il contatto con il freddo metallo della navicella gli provocò una intensa emozione. A tentoni ritrovò i gradini nella fusoliera. Un vento improvviso, senza alcun preavviso, lo investì e per poco non lo fece cadere dai gradini; era un soffio continuo, come quello provocato da una stantuffo che si ritrae. Questa volta il vento fu accompagnato da strani cigolii e fruscii come quelli provocati dai fili coperti di grasso di un ascensore. Il fenomeno come le altre volte, durò un paio di minuti e poi, come era comparso, altrettanto improvvisamente finì.
SAM si riprese e salì fino al portellone di accesso. Estrasse il comando a distanza e lo azionò. Il portello si aprì docilmente, e subito si richiuse alle sue spalle.
Azionò le luci, dopo aver prudentemente azionato la chiusura degli oblò per evitare di rivelare la sua presenza. La carlinga, dopo averlo espulso, si era richiusa come previsto e l'interno pareva intatto. Aprì la cambusa e consumò avidamente due razioni di cibo, si sentì sazio. Rivolse poi la sua attenzione alla radio; la accese e subito la voce dell'addetto alle comunicazioni della nave madre, che evidentemente lo stava chiamando da lungo tempo, gli provocò una reazione violenta: scaricò in un attimo tutta la sua tensione con una sonora risata e poi si mise a piangere come un bambino. Quando si fu ripreso si avvicinò al microfono e disse: "Ciao Fred, mi ha cercato qualcuno?".
Un quarto d'ora dopo potenti fari illuminarono la radura; SAM e la navicella furono issati a bordo di una chiatta a decollo verticale, una di quelle usate per i trasporti pesanti. Salendo vide che la zona illuminata dai riflettori non presentava più traccia del monolito.

Pensò a lungo ad una spiegazione logica e coerente per ciò che aveva visto. Ottenne l'autorizzazione ad effettuare una nuova esplorazione del pianeta e la sua ipotesi fu confermata. Tutto fu chiaro quando vide ad intervalli di tempo regolari i monoliti immergersi nella terra fino a scomparire, mentre altri ne spuntavano a distanza per vivere anch'essi la loro breve vita fuori dal grembo de pianeta. Calcolò che il ciclo completo durava settantadue ore locali dopo di che si ripeteva. Capì che si era imbattuto in una civiltà che aveva risolto in modo originale il problema del contatto con la natura per i grandi agglomerati urbani. Gli abitanti del pianeta vivevano evidentemente all'interno di grattacieli sotterranei in cui svolgevano le loro attività. Ogni tre giorni il palazzo emergeva per alcune ore, permettendo agli abitanti di immergersi nella natura vergine, formata dalle sommità affiancate dei palazzi sommersi, ricoperte di vegetazione.
Si spiegò anche il motivo per cui gli abitanti del pianeta guardavano continuamente l'ora: evidentemente temevano di rimanere chiusi fuori dal grattacielo e di dover affrontare per settantadue ore la foresta, fino alla successiva emersione del loro palazzo .
Fu premiato con settantadue ore di licenza sulla nave madre, poi ripartì.

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