"LA FINE DELLA STORIA E L'ULTIMO UOMO"
di F.Fukuyama, traduzione italiana di D.Ceni,Milano, BUR 1996, (prima edizione italiana, 1992)



[dalla tesi di laurea di Valerio Martone, laureato in Filosofia della Storia, Università degli Studi di Pisa]


Sintesi complessiva dell'opera
Francis Fukuyama inizia la sua opera ponendo il problema della fine della storia e ipotizzando che tale fine coincida con il sistema liberal-democratico occidentale (parte prima). Data tale premessa, egli passa poi al tentativo di dimostrare l'esistenza di una storia direzionale e finalizzata motivandola, innanzitutto, con lo sviluppo inarrestabile della tecnica (parte seconda). Poiché però la sola componente della tecnica non è sufficiente a tale dimostrazione, visto che essa è applicabile più al liberalismo economico che alla democrazia, l'Autore individua un secondo elemento necessario alla sua tesi, e cioè la lotta per il riconoscimento, di hegeliana memoria, intesa come scontro di due autocoscienze al fine del reciproco riconoscimento (parte terza).
Se il mondo attuale è caratterizzato da una tendenziale uniformità direzionale verso il modello liberal-democratico, in esso permangono però anche particolarismi non riconducibili perfettamente a tale modello; proprio su di essi, ma anche sulle variazioni e possibili esiti, pur nel contesto di una salda tenuta e affermazione della liberaldemocrazia, l'Autore si interroga nella parte quarta. Infine Fukuyama affronta la questione delle critiche provenienti sia da sinistra, ossia da K. Marx e dal marxismo, che da destra, in particolare da F. Nietzsche, verso la visione che fa coincidere la fine della storia con il raggiungimento del modello liberal-democratico.

Riassunto della Parte Quinta:
L'ultimo uomo


Questa parte è preceduta significativamente da un brano di Kojève in cui si richiama il concetto che ha Marx del "regno della necessità" (quello in cui gli uomini combattono contro la natura), al di là del quale c'è il regno della libertà in cui gli uomini, riconoscendosi reciprocamente senza riserve, non si combattono più e lavorano il meno possibile.
A questo punto l'Autore dice che chiedersi se la storia ci porti alla democrazia liberale vuol dire, però, anche interrogarsi sulla bontà o meno di essa e dei principi di libertà ed eguaglianza su cui si fonda. Se i successi della democrazia liberale dovrebbero indurci ad aderire incondizionatamente ad essa, è anche vero però che parteggiare incondizionatamente per essa non le renderebbe un buon servigio.
Non è un mistero che le democrazie liberali sono afflitte da molti problemi (disoccupazione, droga, inquinamento, criminalità…) ma occorre andare oltre ciò e domandarci se ci siano al loro interno condizioni di vita davvero soddisfacenti. Se non ci sono contraddizioni, infatti, allora si può dire con Hegel e Kojève che la storia è finita, altrimenti la storia continua.
E' inutile, però, affrontare tale discorso sulla base di una analisi empirica ma è invece necessario affrontare l'esame della liberaldemocrazia sulla base di un modello trans-storico. Secondo Kojève l'umanità è ormai arrivata alla fine della sua storia perché il desiderio di riconoscimento, fondamentale nell'uomo, non ha più ragione di esistere e perché lo stato omogeneo e universale incarna un reciproco riconoscimento che soddisfa in pieno tale desiderio. Dice Fukuyama: "Il problema della fine della storia si riconduce perciò al problema del futuro del thymòs: se la democrazia liberale potrà soddisfare adeguatamente il desiderio di riconoscimento, come dice Kojève, o se invece esso rimane radicalmente insoddisfatto e quindi capace di manifestarsi in forme del tutto diverse."
Fukuyama osserva come i critici del liberalismo, sia di Sinistra che di Destra, mettendo in dubbio che la società liberale possa soddisfare simultaneamente il desiderio ed il thymòs, denotino la presenza di un forte uno scollamento fra i due elementi. La Sinistra afferma infatti che nelle società capitalistiche il riconoscimento è di fatto impossibile per l'ineguaglianza economica, mentre la Destra afferma che, essendo gli esseri umani intrinsecamente disuguali, non possono essere trattati come eguali, cosa che succede nelle liberaldemocrazie, perché ciò implicherebbe non trattarli come uomini.
Le critiche della Sinistra, che hanno avuto il sopravvento nel secolo XIX sono, a parere dell'Autore, meno importanti di quelle della Destra: a questo proposito egli mette in luce che le ineguaglianze sociali sono di due specie, quelle derivanti dalle convenzioni umane, e quelle attribuibili alla natura e alle necessità naturali.

Le differenze naturali sono esemplificate dalla distribuzione delle doti naturali all'interno di una popolazione, altre ineguaglianze sono costituite dalla divisione del lavoro tipica di un sistema capitalistico e conseguenza di esso. In linea di principio, però, secondo l'Autore tutte le società veramente liberali portano all'eliminazione di tutte le fonti convenzionali di ineguaglianza: un secolo di pensiero marxista ha abituato a considerare il capitalismo come fonte di ineguaglianze ma, in verità, il capitalismo è una forza dinamica che attacca in continuazione i rapporti sociali puramente convenzionali, sostituendo i privilegi ereditari con nuove stratificazioni basate sulla capacità e sull'istruzione.

Da tutti questi processi livellatori è emersa quella che si suole chiamare la "società della classe media", anche se in realtà essa continua a configurarsi come una piramide e non come rigonfia al centro. Le società di questo tipo rimarranno in egualitarie, ma le fonti di ineguaglianza saranno sempre più attribuibili all'ineguaglianza delle doti naturali, alla divisione economicamente necessaria del lavoro e alla cultura.
Dice Fukuyama: "L'osservazione di Kojève che l'America del dopoguerra aveva in pratica raggiunto la ‹‹società senza classi›› di Marx possiamo oggi interpretarla in questi termini: l'ineguaglianza sociale non era stata eliminata del tutto, ma le barriere che rimanevano ancora erano sotto un certo aspetto ‹‹necessarie e inestirpabili››, in quanto dovute più alla natura delle cose che alla volontà dell'uomo. Entro questi limiti si potrebbe affermare benissimo che una società siffatta, avendo abolito a tutti gli effetti i bisogni naturali e permettendo alla gente di acquistare ciò che le necessita in cambio di una quantità di lavoro minima rispetto a qualsiasi standard storico, ha raggiunto il ‹‹regno della libertà›› di Marx."
Tuttavia molte delle democrazie esistenti non arrivano nemmeno a questo livello, alquanto ridotto di eguaglianza e, sicuramente, fra le ineguaglianze più dure da sradicare sono quelle che derivano dalla cultura. Inoltre, per quanto capace di creare enormi quantità di ricchezza, il capitalismo non riuscirà mai a soddisfare il desiderio umano di eguale riconoscimento, basti dire che quello che fa star male un povero non è tanto il fatto che manchi di cose ma il fatto che non goda di considerazione. Ciò significa che fra i principi gemelli della libertà e dell'eguaglianza, sui quali sono basate le società liberali, esisterà sempre una tensione. Il progetto marxista ha cercato di promuovere una forma estrema di eguaglianza sociale a spese della libertà, eliminando le ineguaglianze naturali attraverso la ricompensa non del talento ma del bisogno, e attraverso il tentativo di abolire la divisione del lavoro ma, alla fine, le società comuniste hanno dovuto accettare un livello di ineguaglianza abbastanza alto, costituito da una nuova classe di funzionari e burocrati di partito.

Con il crollo mondiale del comunismo i critici di sinistra sono in gravi difficoltà perché non riescono ad escogitare nessuna soluzione radicale per superare le forme più intrattabili di ineguaglianza, tanto che oggi sono pochi i critici delle società liberali che invochino il completo abbandono di tali principi in politica e in economia, mentre la discussione verte piuttosto sul punto esatto in cui dovrebbe avvenire il giusto avvicendamento fra libertà e eguaglianza.
Va anche notato che al vecchio problema economico della classe sono subentrati altre questioni, basti pensare a quanto è accaduto nel nostro modo di trattare gli handicappati per cui, prioritariamente, si è cercato di difendere proprio il loro thymòs più che alleviare la loro menomazione fisica (che pure è stata alleviata).
D'altra parte, come dice l'Autore "La passione per l'eguale riconoscimento - isotimia- non diminuisce necessariamente col raggiungimento di un'eguaglianza e di un'abbondanza materiale de facto maggiori, ma può anche venirne stimolata."
Proprio per tale motivo le future sfide della Sinistra al liberalismo potrebbero essere ben diverse da quelle ben note del nostro secolo. Osserva l'Autore "La minaccia del comunismo alla libertà è stata così diretta ed evidente, ed oggi la sua dottrina è talmente screditata, da sembrare difficile non pensare che ormai nel mondo sviluppato non ci sia più nessuna speranza per un'ideologia del genere. La cosa più probabile è perciò che invece di sferrare un attacco frontale ai principi e alle istituzioni democratiche, esso indossi i panni del liberalismo, pur continuando a rimanere intrinsecamente quello che è sempre stato."

A parere di Fukuyama, pensando al dibattito che esiste sui confini del regno umano e sulla estendibilità oltre esso, oltre cioè alla creatura uomo, di diritti "La concezione liberale di un'umanità eguale e universale con una dignità specificamente umana verrà così attaccata dall'alto e dal basso: da coloro che affermano che certe identità di gruppo sono più importanti delle qualità dell'essere umani, e da coloro che credono che l'essere umani non costituisca un elemento che si distingue dal regno non-umano."

Richiamando Hegel, l'Autore dice che, secondo il filosofo tedesco, lo stato universale ed omogeneo riconcilia appieno la contraddizione esistente nel rapporto signoria-servitù, infatti l'abolizione della contraddizione ha fatto sussistere qualcosa del padrone (la libertà) e qualcosa dello schiavo (il lavoro). E qui osserva l'Autore: "Affermando che il riconoscimento non poteva essere universale a causa dell'esistenza delle classi economiche, Marx ha rappresentato un grande polo della critica all'hegelismo. Ma l'altro, e più profondo, polo di questa critica porta il nome di Nietzsche…Per Nietzsche c'era poca differenza tra Hegel e Marx, perché il loro obiettivo era lo stesso, una società che incarnasse il riconoscimento universale. Egli infatti si chiedeva: vale la pena che si proceda in primo luogo alla universalizzazione del riconoscimento? La qualità del riconoscimento non è forse più importante della sua universalità? E l'obiettivo dell'universalizzazione del riconoscimento non porterà inevitabilmente a banalizzarlo ed a svalorizzarlo? In sostanza l'ultimo uomo di Nietzsche era lo schiavo vittorioso….Lo stato democratico liberale non costituiva una sintesi della moralità del padrone e di quella dello schiavo, come aveva detto Hegel. Per Nietzsche esso rappresentava una vittoria incondizionata dello schiavo."
Secondo Fukuyama è comunque utile porsi ulteriori problemi. Si domanda dunque innanzitutto se il riconoscimento dei diritti liberali costituisca di per sé la realizzazione di quel grande desiderio che portò il padrone aristocratico a rischiare la vita e quindi, nel caso che molti fossero soddisfatti di questa specie modesta di riconoscimento, se esso sia capace di soddisfare anche i pochi infinitamente più ambiziosi.
Secondo l'Autore, fra gli altri problemi insiti alla tematica del riconoscimento universale, c'è quello di chi stima, ed aggiunge "Non è infatti vero che la soddisfazione che uno ritrae dal riconoscimento dipende in gran parte dalla qualità della persona che lo esprime ?"
Quanto alla superiorità, grandezza e nobiltà umana, possibili secondo Nietzsche solo nelle società aristocratiche, derivano dalla insoddisfazione dell'io con se stesso, anche con la sofferenza che tutto ciò comporta. Proprio richiamando tali aspetti, Fukuyama osserva come la lotta per essere diversi si manifesti in tutti gli aspetti della vita, perfino in avvenimenti come quelli della Rivoluzione bolscevica, che pure aveva cercato di creare uomini eguali. Lenin, Trotzkij, Stalin non erano individui che volevano essere eguali agli altri: non a caso tutti i movimenti di sinistra hanno avuto a che fare poi con il culto della personalità.
La società attuale è, invece, quella dell'ultimo uomo in cui prevalgono gli schiavi che hanno messo al primo posto la conservazione della vita, l'uomo moderno è l'ultimo uomo, un uomo fiaccato dall'esperienza della storia.
"Alla fine della storia l'ultimo uomo ha abbastanza buon senso da non rischiare la vita per una causa, perché egli sa che la storia è piena di battaglie inutili che gli uomini hanno combattuto per sapere se dovevano essere cristiani o musulmani, protestanti o cattolici, tedeschi o francesi…Gli uomini che hanno avuto un'istruzione moderna sono ben lieti di starsene beati e tranquilli a casa, congratulandosi con se stessi per la loro larghezza di vedute e la loro mancanza di fanatismo. Lo Zarathustra di Nietzsche dice di loro:‹‹Perché così voi parlate: "Noi siamo del tutto veri, e senza credenze o superstizioni".Così voi gonfiate i vostri petti- ma ahimè, essi sono vuoti››."

Le preoccupazioni espresse da Nietzsche nei confronti dell'ultimo uomo sono state anche di altri pensatori moderni che hanno approfondito l'argomento. Fra essi l'Autore cita Tocqueville il quale "si rese conto perciò del carattere fortemente privato che la vita aveva nell'America democratica costituiva un problema cruciale, tale da condurre all'atrofia di quei legami morali che nelle comunità predemocratiche tenevano unita la gente."
Nietzsche, insomma, è stato preceduto proprio da Tocqueville il quale ha messo in rilievo che l'abolizione del rapporto formale fra schiavi e padroni in America non faceva certo di questi ultimi i padroni di se stessi. La società aristocratica produceva cose belle ma inutili, al contrario di quella democratica; tuttavia, la vera perdita non riguardava tanto le cose ma piuttosto la sfera morale e teoretica che hanno un terreno privilegiato proprio nell'ethos antiutilitaristico. Sempre Tocqueville cita a tale proposito la personalità di Pascal, antiutilitaristica per eccellenza, essendo passata da una carriera utile e promettente in campo matematico alla sola meditazione religiosa.
Mentre però Nietzsche guarda con paura al modo di vivere americano, Tocqueville ne accetta la vittoria inevitabile, constatazione condivisa da Kojève il quale vede come alla fine della storia, l'uomo, pieno di sicurezze materiali, rinunci alle lotte sanguinose; a quel punto la sua vita però finirà per assomigliare a quella di un animale. Il passaggio all'animalità così intesa, e che conclude la fine della storia, non preoccupa tuttavia Kojève il quale passò la seconda parte della sua vita a lavorare in una Commissione europea senza più occuparsi di filosofia.
Dice Fukuyama: "Quella dell'ultimo uomo è una vita caratterizzata dalla sicurezza fisica e dall'abbondanza materiale, esattamente ciò che ai politici occidentali piace promettere ai propri elettori…E noi dobbiamo avere paura o no di arrivare un giorno ad essere felici e soddisfatti, ma come animali del genere homo sapiens e non più come esseri umani? O il pericolo è che si arrivi ad essere felici per un verso ma si continui ad essere insoddisfatti di noi stessi per un altro, e perciò pronti a ritrascinare il mondo nella storia, con tutte le sue guerre, le sue ingiustizie e le sue rivoluzioni?"
Se è difficile seguire Nietzsche per chi crede nella democrazia liberale, è però vero che possono essere accettate molte acute osservazioni psicologiche del filosofo: ad esempio il fatto che il desiderio della giustizia e della pena sia legato fin troppo spesso al risentimento del debole contro il forte, le conseguenze debilitanti della compassione e eguaglianza sullo spirito, il fatto che certi individui non siano soddisfatti dalla felicità intesa in senso anglosassone, per cui deriva da ciò che la lotta e il rischio si rivelano componenti essenziali dell'animo umano.
Sempre secondo Nietzsche noi diventeremo ultimi uomini nella misura in cui sarà espunta dalla vita ogni megalotimia ma, accadendo ciò, gli esseri umani si ribelleranno ad un'idea del genere, vorranno essere piuttosto cittadini che borghesi, preferiranno insomma rischiare la propria vita. D'altra parte la stessa democrazia liberale potrebbe alla lunga essere sovvertita internamente da un eccesso di megalotimia. Ma ciò potrebbe accadere anche per un eccesso di isotipia: a parere di Fukuyama però, alla lunga, è più pericolosa la megalotimia, perché la isotimia sfrenata si troverà comunque a fare i conti con la natura stessa che cospirerà per mantenere un certo grado di megalotimia.

D'altra parte, dice l' Autore: "La megalotimia è sempre stata e continua ad essere un fenomeno moralmente ambiguo in quanto da essa ci vengono simultaneamente e necessariamente sia le cose belle che quelle cattive della vita. Se la democrazia liberale dovesse essere sovvertita dalla megalotimia, questo accadrà perché essa ha bisogno di quest'ultima e non potrà mai sopravvivere basandosi solo sul riconoscimento universale e paritario."
A proposito delle possibilità timotiche individuabili in una società liberale, Fukuyama cita ad esempio l'attività imprenditoriale (si pensi all'imprenditorialità di un Henry Ford); la stessa politica democratica fornisce anche uno sbocco per le nature ambiziose, e questo soprattutto nel campo della politica estera. In essa i politici possono conseguire un grado di riconoscimento che non si trova praticamente in alcun'altra sfera di attività: basti pensare ad un Winston Churchill durante la II guerra mondiale ma anche, in tempi recenti, al presidente Bush, incoerente e frenato nella politica interna e molto più deciso nella guerra del Golfo, che gli è valsa il riconoscimento su scala planetaria.

D'altra parte il fatto che un mondo storico coesista accanto ad un mondo post storico, significa che il primo continuerà ad attrarre alcuni uomini, presentandosi come regno della lotta, guerra, povertà, ingiustizia.
Invece, per la maggior parte dell'Europa post storica, la Coppa del mondo ha sostituito la competizione militare perché "Dove infatti non sono possibili forme di lotta come la guerra, e dove la ricchezza rende inutile la lotta economica, gli individui timotici cercano altri tipi di attività dure che possano offrire loro il riconoscimento."
Tuttavia le manifestazioni di megalotimia sopravvissute nella democrazia moderna sono in una certa tensione con gli ideali prevalenti in esse. Se Tocqueville ed Hegel hanno messo in evidenza l'importanza della vita associativa dello stato, va detto che nei grandi stati-nazione moderni la cittadinanza si limita, per la gran massa della gente, alla partecipazione alle elezioni, mentre il sistema rimane distante ed impersonale.
Non a caso osserva Fukuyama che "In una grande democrazia moderna l'associazionismo privato fornisce al semplice cittadino un soddisfacimento molto più immediato. Il riconoscimento da parte dello stato è necessariamente impersonale, mentre la vita della comunità implica un genere di riconoscimento molto più individuale, offerto da gente che ha gli stessi interessi e condivide spesso anche valori, eticità e simili."
Va detto infine che proprio la vita comunitaria, quella che dovrebbe impedire la trasformazione dei cittadini in ultimi uomini, è costantemente minacciata, ad esempio dal fatto che gli uomini abbiano diritti perfetti ma non doveri corrispondenti (cosa ben visibile nel diritto liberale), ma la minaccia viene anche dal principio democratico dell'eguaglianza per cui le piccole comunità e il loro status morale, necessariamente diverso da quello della grande comunità, sono tollerate, equiparate, mentre è chiaro che gli obblighi derivanti da esse siano egoistici rispetto agli obblighi assoluti delle grandi comunità. A proposito delle piccole comunità merita una riflessione la famiglia. Se veramente la famiglia si basasse sui principi liberali (quelli di una società per azioni e non quelli del dovere e amore reciproco) non funzionerebbe.
Ma tale ragionamento è utile anche a livello macro. Dice infatti Fukuyama: "A livello delle associazioni più grandi, come lo stesso paese, i principi liberali possono essere rovinosi per le più alte forme di patriottismo, che sono necessarie alla sopravvivenza stessa della comunità…Al contrario delle società liberali, le comunità che condividono la ‹‹lingua del bene e del male›› hanno più probabilità di rimanere unite in quanto questa è una colla più forte di quella delle comunità basate solo sull'egoismo dei loro membri."
Ed ancora " In altre parole le democrazie liberali non sono autosufficienti: la vita comunitaria dalla quale esse dipendono deve venire da una fonte diversa del liberalismo."

A parere di Fukuyama "Il declino della vita comunitaria fa pensare che in futuro si rischi di diventare ultimi uomini al sicuro e assorbiti dai nostri interessi personali e dal perseguimento delle nostre comodità, non più capaci di uno sforzo timotico per ideali più alti. Ma c'è anche il pericolo opposto, cioè che si torni ad essere primi uomini impegnati in inutili e sanguinose lotte per il prestigio, questa volta però con armi moderne. In realtà i due problemi sono legati l'uno all'altro, perché l'assenza di sbocchi normali e costruttivi alla megalotimia può condurre unicamente ad una sua ulteriore rinascita in una forma estrema e patologica." Secondo l'Autore sarà soprattutto difficile che nelle democrazie liberali possano venir fuori tutte le virtù e ambizioni che suscita una guerra, visto che in esse ci saranno guerre solo metaforiche: a tale proposito c'è però da domandarsi per quanto tempo la megalotimia si accontenterà di guerre solo metaforiche e di vittorie simboliche. Secondo Hegel, a differenza di quanto riteneva Kojève, gli uomini non potevano sentirsi orgogliosi di sé in pace: la prova definitiva che un uomo è un cittadino rimaneva quella della vita offerta per il proprio paese, cosa che ha valso ad Hegel l'accusa di essere militarista. In realtà, Fukuyama, commentando Hegel, osserva: "La paura di quel ‹‹signore e padrone›› dell'uomo che era la morte costituiva una forza capace, come nessun'altra, di tirar fuori gli uomini da se stessi e di ricordar loro che non erano uomini isolati ma membri di comunità costruite su comuni ideali." D'altra parte sempre Fukuyama è convinto che, se il mondo fosse improntato solo sul modello delle democrazie liberali, allora ci sarebbe il rischio che gli uomini prendessero le armi anche contro una giusta causa, perché una vita senza lotta non è immaginabile. E ravvisa proprio tale spinta dietro al '68 francese quando gli studenti, figli delle classi medie, coccolatissimi, scesero in piazza proprio perché mancavano nella loro vita la lotta e il sacrifico. "Alla base della loro protesta c'era il problema dell'indifferenza: quello che essi rifiutavano era vivere in una società in cui gli ideali erano in un certo qual modo diventati impossibili." E sempre con tali motivazioni l'Autore ritiene che siano spiegabili episodi ben più gravi avvenuti in passato: ad esempio la prima guerra mondiale, quando in Germania molti videro la guerra stessa fondamentalmente come una rivolta contro il materialismo del mondo commerciale creato dalla Francia e dalla Gran Bretagna.

A parere di Fukuyama il pensiero moderno, caratterizzato da tolleranza e relativismo, non riesce ad erigere barriere rispetto ad una futura possibile guerra condotta contro la democrazia liberale proprio da coloro che essa ha allevato nel suo seno. E aggiunge "L'esempio più calzante di questo ce lo offre lo stesso Nietzsche quando afferma che la consapevolezza che niente è vero costituisce sia una minaccia che un'opportunità. Una minaccia perché… mina la possibilità di vivere ‹‹all'interno di un orizzonte››, ed un'opportunità perché permette all'uomo di liberarsi dalle precedenti pastoie morali. Per Nietzsche la forma ultima della creatività non era l'arte ma la creazione di ciò che è più alto, di valori nuovi…Egli cercò deliberatamente di minare la credenza nell'eguaglianza umana, affermando che si trattava semplicemente di un pregiudizio instillatoci dal cristianesimo."
Invece "Il progetto liberale moderno ha cercato di spostare la base delle società umane dal thymòs al terreno più sicuro del desiderio. La democrazia liberale ‹‹ha risolto›› il problema della megalotimia costringendola e sublimandola attraverso tutta una serie di congegni istituzionali- il principio della sovranità popolare, il riconoscimento di determinati diritti, l'impero della legge, la separazione dei poteri, e così via…Anche Hegel comprese che la transizione fondamentale che si era verificata nella vita moderna era l'addomesticamento del padrone e la sua trasformazione in uomo economico. Ma egli si rese conto che questo non voleva dire tanto l'eliminazione del thymòs quanto la sua trasformazione in una forma nuova e, lui credeva, più alta. La megalotimia avrebbe ceduto il passo all'isotimia dei molti…Quelli che il vecchio mondo predemocratico non riusciva a soddisfare erano la grande maggioranza del genere umano: quelli che rimanevano insoddisfatti nel mondo moderno del riconoscimento universale erano molti meno."
Invece secondo l'Autore "Il lavoro di Nietzsche, il lavoro di tutta una vita, può essere considerato in un certo senso come il tentativo di riportare l'ago della bilancia tutto dalla parte della megalotimia…Così il thymòs, invece si essere, come diceva Platone, una delle tre parti dell'uomo, diventa per Nietzsche tutto l'uomo."
A questo punto Fukuyama, pur osservando come noi viviamo attualmente nel periodo aureo dell'umanità, dice che si potrebbe arrivare alla conclusione che nessun regime o sistema socio-economico possa soddisfare tutti. L'insoddisfazione non nasce tanto dal fatto che non tutti i popoli godono ancora della liberaldemocrazia ma nasce, tanto più, dove tale modello ha trionfato. Una democrazia, per essere stabile, deve insomma poggiare, per certi aspetti, su forme di riconoscimento premoderne e non universali, ha necessità di una cultura democratica a volte irrazionale e di una società civile spontanea.
D'altra parte, sempre secondo l'Autore, l'alternativa proposta da Nietzsche ci costringe a rompere completamente con la parte concupiscente dell'anima. Basti pensare alle tremende conseguenze che il XX secolo ha fatto toccare con mano rispetto alla megalotimia e alle guerre ad essa collegate e su cui, riflettendo, osserva "Ben lontana dal rafforzare virtù o creatività, la guerra contemporanea ha minato la fiducia popolare nel significato di parole come coraggio od eroismo…"
Esiste però un baluardo che possiamo mettere in atto contro il revival della storia e il ritorno del primo uomo: esso è costituito dalla scienza moderna, un meccanismo mosso dal desiderio senza limiti e guidato dalla ragione, come ampiamente è stato dimostrato nella seconda parte del libro: infatti una rinascita della megalotimia non potrebbe significare altro che un tentativo di rompere la logica dello sviluppo tecnologico. Quanto all'America attuale, secondo Fukuyama, molti giovani brillanti che studiano legge e riempiono accuratamente i loro curricoli temendo di non poter mantenere il loro livello e stile di vita- e questo potrebbe essere visto come eccesso di megalotimia- in realtà rischiano molto più di diventare l'ultimo uomo più che far rivivere le passioni del primo uomo.

In finale Fukuyama ritorna a Platone: se per il filosofo greco il thymòs non era in sé né buono né cattivo, dovendo essere governato dalla ragione e se realizzare uno stato giusto significava soddisfare tutte e tre le parti dell'animo, allora, mettendo la liberaldemocrazia a confronto con i modelli che conosciamo, essa sembra corrispondere meglio a tale scopo Infatti "come ci insegna Hegel, il liberalismo moderno non si basa tanto sull'eliminazione del desiderio di riconoscimento quanto sulla sua trasformazione in una forma più razionale." e aggiunge "Se è vero che il processo storico poggia sui due pilastri gemelli del desiderio razionale e del riconoscimento razionale, e che la moderna democrazia liberale è il sistema politico che meglio soddisfa i due equilibrandoli in qualche modo, questo vorrebbe dire che la principale minaccia alla democrazia sarebbe la nostra confusione a proposito di ciò che effettivamente è in gioco…Questo apre la strada, da una parte ad una domanda iperintensificata del riconoscimenti di eguali diritti, e dall'altra alla ripresa della megalotimia."
A questo punto -dice l'Autore- gli avvenimenti potrebbero continuare a svolgersi come nei decenni passati, consolidando da una parte l'idea di una storia universale e direzionale che sbocca nella democrazia liberale e sbloccando contemporaneamente anche l'impasse relativistica del pensiero moderno e, in questo caso, si può raffigurare l'umanità non come un migliaio di germogli che spuntano da piante in fiore ma piuttosto come un lungo convoglio di carri lungo una strada. Alcuni si dirigeranno decisi verso la città, altri nel deserto per il bivacco, altri si incolleranno sull'ultimo passo in montagna, altri ancora, attaccati dagli indiani, andranno a fuoco e saranno abbandonati per strada. Però "La grande maggioranza dei carri continuerà comunque il suo lento cammino verso la città e finiranno quasi tutti per arrivarci…Le diverse situazioni in cui vengono a trovarsi i carri non rispecchiano differenze permanenti e necessarie fra le persone che li occupano, ma sono dovute unicamente alle loro diverse posizioni lungo la strada."

E, al termine del libro, Fukuyama così conclude: "Alexandre Kojève credeva che alla fine sarebbe stata la storia stessa a rivendicare la propria razionalità. Nella città, cioè, entrerebbe un numero di carri abbastanza alto da costringere chiunque ragioni ad ammettere che c'erano solo una strada e una destinazione. Se siamo già arrivati a questo punto, non possiamo dirlo con certezza, e questo perché, nonostante che la rivoluzione liberale si sia propagata in tutto il mondo, le prove che abbiamo sulla direzione dei carri, non possono essere ritenute conclusive. Ed infine, anche ammesso che la maggioranza dei carri finisca per entrare nella stessa città, potrebbe anche darsi che i loro occupanti, dopo aver dato un'occhiata in giro, non la trovassero di loro gradimento e decidessero di affrontare un altro lungo viaggio."