Le politiche ambientali e il protocollo di Kyoto: sintesi aggiornata
A cura di Giulia Barbarito e Flavia Mascagni, classe III D a.s. 2003-2004 54

I cambiamenti climatici in atto nel nostro pianeta sono uno dei temi più sentiti dall’opinione pubblica mondiale. Già nel 1979 si tenne a Ginevra, in Svizzera, la prima Conferenza mondiale sul clima e nel 1988 l’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm) e il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) costituirono il gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc), col compito di valutare lo stato delle conoscenze scientifiche, tecniche e socio-economiche sulle cause e le conseguenze del cambiamento climatico globale indotto dalle attività umane. Sulla base del primo rapporto dell’Ipcc e delle conclusioni di diverse conferenze mondiali sul clima organizzate in tutto il mondo, fu riconosciuta come reale la minaccia dei cambiamenti climatici e furono avviati formalmente i negoziati per la definizione di una convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfcc). La Convenzione fu adottata nel maggio 1992 ed entrò in vigore nel 1994. L’obiettivo indicato è quello di stabilizzare le emissioni di gas ad effetto serra ad un livello tale da impedire interferenze antropogeniche dannose per il sistema climatico. Compito dell’Unfcc è la programmazione, essenzialmente politica, di interventi a livello mondiale sui mutamenti del clima e di organizzare - fino ad ora con cadenza annuale - la “Conferenza delle parti sui cambiamenti climatici”(Cop). Nonostante l’adozione della convenzione, ci si rese conto che le indicazioni in essa contenute non sarebbero state sufficienti a far fronte al problema dei cambiamenti climatici e iniziò a diffondersi l’idea che fosse necessario definire impegni quantitativi di riduzione/limitazione delle emissioni di gas ad effetto serra. Tali impegni si sarebbero dovuti adottare durante la prima “Conferenza delle Parti della convenzione sul clima (Cop 1), che si sarebbe tenuta a Berlino nel 1995. I negoziati per definire questi impegni quantitativi furono più difficili del previsto e un Protocollo fu sottoscritto solo al termine della Cop 3, svoltasi a Kyoto, in Giappone.

IL PROTOCOLLO DI KYOTO
Nel dicembre del 1997 a Kyoto si è tenuta la prima Convenzione sul Cambiamento Climatico dove è stato concordato il testo del protocollo per la riduzione delle emissioni dei cosiddetti "gas serra". L’obbiettivo è assicurare che le emissioni globali siano ridotte entro il 2008-2012 di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990. Sono state individuate 38 nazioni appartenenti ai paesi industrializzati (Gruppo 1), che sono responsabili di più 50% delle emissioni, e altre 142 nazioni in via di sviluppo (Gruppo 2), che nel loro insieme coprono la restante parte. Nel Protocollo vengono indicati per i paesi appartenenti al primo gruppo, gli impegni di riduzione delle emissioni di gas serra. Il protocollo prevede tre meccanismi per rendere possibile la propria attuazione: Il "Meccanismo di attuazione congiunta" consente di acquisire delle unità di riduzione di emissioni in seguito all’attuazione di un progetto. Per esempio, un’impresa potrebbe ridurre le emissioni nelle sue industrie attraverso un proprio progetto oppure acquistare queste riduzioni finanziando un progetto analogo in un altro paese del Gruppo Il "Meccanismo di sviluppo pulito" è concepito per ridurre i costi che le nazioni del Gruppo 1 dovranno sostenere per rispettare il protocollo, prevede la realizzazione di progetti e accordi con i Paesi in via di sviluppo. Lo "Scambio dei diritti di emissione", introdotto su insistenza degli Usa, permette la creazione di un commercio internazionale di diritti di emissione tra le nazioni del Gruppo 1, lo scopo è quello di ricorrere ai meccanismi di mercato per raggiungere il risultato al costo più basso disponibile. L’energia che rende possibile lo sviluppo è una delle principali cause di inquinamento: attualmente circa 2 miliardi di persone fanno affidamento sulla combustine della legna, contribuendo all’inquinamento ambientale. I moderni servizi energetici dominati dalla combustione di carburanti fossili, potrebbero allargare notevolmente il numero delle opportunità e delle scelte disponibili per queste persone. Tuttavia la produzione di questa energia si traduce in inquinamento atmosferico e emissioni di gas serra. Le principali preoccupazioni relative alle attuali politiche energetiche si concentrano, infatti, sui loro impatti ambientali. Il protocollo entrerà in vigore quando sarà ratificato da almeno 55 nazioni, responsabili nell’insieme del 55% delle emissioni inquinanti;per ora è stato ratificato da solo 30 nazioni che rappresentano, complessivamente, una percentuale irrisoria delle emissioni di gas serra. Le grandi potenze si rifiutano ancora di sottoscrivere il protocollo; uno degli ultimi rifiuti è da parte della Russia, senza cui ratifica il trattato non potrà diventare operativo.

I PAESI E LE RATIFICHE AMBIENTALI.
E’opportuno ricordare che per l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, esso deve essere ratificato da almeno 55 Paesi, che devono includere un numero di Paesi che rappresentano almeno il 55% delle emissioni di CO2 dell’anno 1990. Il primo dei due parametri è stato da tempo superato, contando che al 26 settembre 2002 già 94 Paesi hanno ratificato il Protocollo di Kyoto, mentre alla stessa data solamente rappresentanti per il 37,1% delle emissioni di CO2 nell’anno 1990 lo hanno ratificato, con l’Italia e gli altri Paesi dell’Unione Europea inclusi. Lo scenario a questo punto è il seguente: 10 Paesi devono ancora ratificare il Protocollo di Kyoto e di questi solo alcuni sono fondamentali per le percentuali di emissione di CO2 che portano con loro da sommare al totale finora raggiunto. Analizzando in dettaglio si evince chiaramente che tutto ruota attorno alla Russia, che con il suo 17,4% di emissioni porterebbe il totale attuale al 54,5% e che con un’ulteriore ratifica significativa si supererebbe la fatidica soglia del 55%. Diversi osservatori hanno fatto notare come il Protocollo di Kyoto e la tematica dei cambiamenti climatici siano stati i protagonisti del summit di Johannesburg pur non essendo esplicitamente inclusi nell’agenda dei lavori. Durante il summit, nelle lunghissime fasi di stallo delle negoziazioni, fra gli argomenti che hanno tenuto alto il livello di interesse e hanno dato nuova linfa alla discussione stessa ci sono stati proprio gli annunci di ratifica del Protocollo di Kyoto da parte di alcuni Paesi cruciali nello scacchiere mondiale, in particolare vanno ricordate le ratifiche da parte di Cina, India e Brasile. Queste tre ratifiche sono state dei segnali significativi dal punto di vista politico,dando un riconoscimento importante al processo di implementazione della Convenzione sui cambiamenti climatici, ma all’atto squisitamente pratico hanno influito parzialmente sui parametri di valutazione per l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto. Quelli che invece hanno fatto più scalpore, sono stati i discorsi del ministro degli esteri russo e del primo ministro canadese, che hanno rispettivamente indicato la disponibilità della Russia a ratificare il Protocollo di Kyoto in tempi “ragionevoli”, ma le pressioni dell’opinione pubblica e delle organizzazioni ambientaliste sul governo di Ottawa hanno creato degli sviluppi interessanti. Infine la Polonia (3,0%), che viene vista come in attesa di ottenere il massimo vantaggio diplomatico dalla sua ratifica, ben sapendo che il suo avanzato processo di adesione all’Unione Europea non le consentirà di esimersi da questo impegno.

POLITICHE AMBIENTALI.
Negli ultimi anni gli stati firmatari del protocollo si sono riuniti per diverse volte al fine di discutere sui preoccupanti cambiamenti climatici. La Sesta Conferenza delle parti della Convenzione del Cambiamento Climatico che, dopo le riunioni degli Organismi sussidiari, ha visto riuniti i rappresentanti dei governi dei circa 160 Paesi firmatari del Protocollo di Kyoto ha preso il via all’Aia giorno 20 novembre 2000. In discussione sono stati i "Metodi e gli strumenti di valutazione degli impatti del cambiamento climatico e delle opzioni di adattamento". La Convenzione voleva infatti che le Parti elaborassero piani e azioni specifiche per far fronte alla necessità di adattamento ai cambiamenti climatici. Altro fronte aperto è stato quello di un approccio integrato alle Materie regolate dai due protocolli, di Kyoto e di Montreal, specie per quel che concerne le applicazioni e l'impatto delle sostanze più usate in sostituzione dei gas lesivi per l'ozono: idrofluorocarburi e perfluorocarburi. Due settimane di negoziati non sono bastati: la Conferenza sul clima dell'Aia si è chiusa senza un accordo dettagliato sulla riduzione dell'emissione di gas nocivi. I delegati di 184 Paesi non sono riusciti ad arrivare a una posizione comune e si sono dovuti accontentare di sottoscrivere un documento politico che sancisce principi generali. E' fallito dunque l'obiettivo di dare concreta attuazione al protocollo di Kyoto del 1997. Si tratta comunque di un passo verso il contenimento dell'effetto-serra, ha dichiarato il portavoce del summit Michael Williams. La conferenza è andata a rotoli per le divergenze insanabili tra l'Unione Europea e Stati Uniti. Washington pretendeva "meccanismi flessibili" nei parametri di emissione, chiedeva libero commercio di "crediti di emissioni" per dare la possibilità ai Paesi industrializzati di comperare bonus da quegli Stati che già soddisfano i parametri di Kyoto e dunque inquinano meno. In cambio, si offrivano iniziative per controbilanciare le emissioni, come l'allargamento dei polmoni verdi. L'UE però ha posto il veto e ha respinto anche la proposta di mediazione presentata giovedì alla conferenza sul clima dell'Aia dal ministro olandese dell'ambiente Jan Pronk. L'ultimo giorno di questa conferenza sul clima che ha visto riuniti all'Aia 180 Paesi e migliaia di delegati, sono state queste le risultanze su un piatto vuoto. Messo da parte il testo negoziale elaborato dal presidente della conferenza, Jan Pronk, che ha accolto in larga parte le posizioni dei Paesi in via di sviluppo e degli Stati Uniti, ora l'Unione Europea tenta una reazione. In una riunione a livello ministeriale comunitario è stata presentata una lista di emendamenti:
1. il primo punto che si è cercato di cambiare è stato quello relativo all'inclusione della gestione forestale e dei terreni agricoli nel capitolo dei cosiddetti " sink " (i " pozzi " che assorbono naturalmente il carbonio). Gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone e l'Australia volevano mano libera, la bozza Pronk ha limitato l'inclusione al 3% delle emissioni annue di ciascun paese (il che avrebbe consentito agli Stati Uniti di ridurre in tal modo il taglio di 57 milioni di tonnellate di carbonio), l'emendamento UE vuole abbassare il "tetto" allo 0.5%.
2. Il secondo punto sul quale l'UE ha chiesto una modifica è stato quello del meccanismo di sviluppo pulito (CDM) del quale non si vuole che facciano parte le foreste, ma solo investimenti per la promozione di tecnologie pulite e dal quale si chiede che sia tassativamente escluso il nucleare.
3. Al terzo Punto, il sistema di "compliance" (ovvero sia il meccanismo che garantisce l'osservanza degli impegni presi) che si vorrebbe vincolante.
4. Se un paese non rispettasse gli impegni nel primo periodo previsto dalla Convenzione (da qui al 2.010) dovrebbe recuperare nel secondo periodo pagando però una penale: secondo Pronk del 50%, secondo l'Ue dal 50 al 400 %. L'Ue chiede poi che possa partecipare ai meccanismi flessibili - come il commercio delle emissioni - solo chi ha ratificato il protocollo e accettato il sistema di controllo e che sia indicata una percentuale minima di riduzioni da effettuare nel mercato domestico. Purtroppo, per il presidente della conferenza dell'Aia, l'olandese Jan Pronk, l'Unione europea è restata troppo rigida sulle sue posizioni, si è messa a negoziare troppo tardi. Gli Stati Uniti si sono mossi prima, molti europei non si sono resi conto che, con George W. Bush presidente degli Stati Uniti, sarà ancora più difficile trattare con Washington. Bush, infatti, è ritenuto particolarmente sensibile alle esigenze delle compagnie petrolifere. Durissimo attacco del rappresentante britannico contro la delegata francese, che alla riunione rappresentava l'Europa. E' stata lei, a parere di John Prescott, la principale causa del fallimento della conferenza. Prescott, vice primo ministro britannico, in un'intervista alla BBC, ha accusato il ministro dell'Ambiente francese, Dominique Voynet, di non aver fatto il suo dovere. "Si è tirata indietro all'ultimo momento; non ha potuto spiegare il perché. Ha detto che era esausta e non riusciva a capire tutti quei dettagli. Allora ha rifiutato di accettarli, ha raccontato Prescott concludendo che "questo è il motivo del fallimento". Prescott ha anche accusato tutti i ministri europei di non avere abbastanza coraggio e li ha esortati a cambiare atteggiamento "pensando con la propria testa". Per Prescott in sostanza la colpa del fallimento ricade tutta sull'Ue e non sugli americani, come sostengono gli europei. Dopo il fallimento del summit dell'Aia gli esperti del clima rilanciano gli allarmi: senza misure e impegni la crescita dei gas serra sarà del 2O% tra 10 anni con un rafforzarsi di uragani, tifoni, alluvioni da una parte e siccità e desertificazione dall'altra. "A questo scenario poi - dice Vincenzo Ferrara, climatologo dell'Enea – bisogna aggiungere le emissioni dei Paesi in via di sviluppo, per cui non sono previste riduzioni di gas serra: il bilancio delle emissioni potrebbe arrivare a un più 30% sempre nel 2010". Non prendere decisioni significa quindi arrivare ad aumenti della temperatura nei prossimi 100 anni fino a 6 gradi, un incremento senza precedenti negli ultimi 10.000 anni, e a una crescita del mare fino a 60 centimetri, un livello che significa la scomparsa di gran parte di atolli, piccole isole, terre lagunari e la creazione di centinaia di migliaia di profughi ambientali che emigreranno in cerca di terra su cui vivere. Il Mediterraneo in generale e l'Italia in particolare sono regioni che, secondo gli esperti di clima dell'Onu e dell'Ipcc,a causa dell'uso del territorio costiero e delle caratteristiche delle coste presentanoun'alta vulnerabilità per perdita di ecosistemi e della biodiversità marino-costiera (altre zone ad alto rischio sono anche i Caraibi, le coste del Mar Baltico e quelle dell'America centro-settentrionale). Gli scenari italiani in mancanza di impegni di riduzione (mentre le emissioni stanno aumentando in media annua di circa l'1 %) sono stati elaborati dall'Enea e da un consorzio UE di Istituti di ricerca: da una parte c'è la variazione del clima, presa in considerazione dagli esperti europei; dall'altra la mappa delle terre basse italiane a rischio inondazione e le previsioni particolari su Venezia (sommersa sempre più spesso dall'acqua alta). Secondo gli esperti europei tra 80 anni nel Nord Italia le piogge aumenteranno del 30-50 %, del 10-20 % al Centro e si ritireranno invece dal Sud, dove è prevista una diminuzione delle precipitazioni del 10-20 % con conseguente rischio siccità e desertificazione. L'Enea ha invece aggiornato la mappa dell'Italia destinata a sparire sommersa dal mare. Non solo Venezia e la costa dell'Alto Adriatico, tra Rimini e Monfalcone, rischia di andare sott'acqua a causa dei cambiamenti climatici che fanno crescere il livello del mare, ma anche altre 18 località italiane, mete turistiche, come le coste intorno a Trapani o Catania, la costa laziale a nord di Sperlonga e a nord di Terracina, la costa est di Piombino tra S. Vincenzo e Follonica, la costa e il golfo di Oristano in Sardegna, quella della piana di Sibari e addirittura la costa di Orbetello. Inoltre a rischio inondazione anche le spiagge intorno alle foci del Magra, dell'Arno, del Tevere, dell'Ombrone, del Volturno e del Sele.

Bibliografia:
Dossier i cambiamenti climatici di Giuseppe Vatinno
www.minambiente.it
www.isfe2000.com