CAPITOLO I
Quel ramo del lago di Como. – Il romanzo si apre
con la celebre descrizione di quel ramo del lago di Como, che volge a
mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti, e che viene quasi ad
un tratto a restringersi e a prendere corso e figura di fiume, tra un
promontorio a destra ed un’ampia costiera dall’altra parte. Tra il
promontorio e la costiera è un ponte, che sembra rendere ancora più
sensibile quella trasformazione, e segnare il punto in cui il lago cessa e
l’Adda ricomincia. La costiera, formata dal deposito di tre grossi
torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di San
Martino, l’altro il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli che lo fanno
assomigliare a una sega.
Lecco. – Lecco, il borgo principale che dà il
nome a quel territorio, giace poco discosto dal ponte, sulla riva del
lago. Ai tempi in cui accaddero i fatti narrati nel romanzo, quel borgo
era anche una fortezza, che aveva l’onore di alloggiare un comandante e
il vantaggio non invidiabile di possedere una guarnigione di soldati
spagnoli. Dietro Lecco, dall’una all’altra di quelle terre, dalle
alture alla riva, corrono strade e stradette più o meno ripide o piane.
La passeggiata di don Abbondio. - Per una di queste
stradicciole, tornava bel bello dalla sua passeggiata verso casa, sulla
sera del giorno 7 novembre 1628, don Abbondio, curato di uno di quei
paesi. Diceva tranquillamente il suo ufficio e, talvolta, tra un salmo e l’altro,
chiudeva il breviario, e proseguiva il suo cammino buttando con un piede
verso il muro i ciottoli che facevano inciampo al sentiero, o girando
oziosamente gli occhi intorno. Giunse ad una svolta, dove era solito
alzare gli occhi dal libro e guardarsi dinanzi, e così fece anche quel
giorno. Dopo la voltata la strada correva diritta per circa sessanta
passi, poi si biforcava: una viottola saliva alla curia, l’altra, il cui
muro non arrivava ai fianchi del passeggero, scendeva alla valle fino al
torrente. I muri interni delle due viottole, invece di riunirsi ad angolo,
terminavano in un tabernacolo, sul quale erano dipinte certe figure lunghe
e serpeggianti, che, nell’intenzione dell’artista, volevano dir
fiamme, e cert’altre figure indescrivibili che volevano dire anime del
purgatorio.
L’incontro coi bravi. - Don Abbondio, voltata la
stradetta, e guardando come era solito, verso il tabernacolo, vide fermi
due uomini: uno a cavalcioni sul muricciolo basso, l’altro in piedi,
appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. Essi, per l’abito
e per il portamento, mostravano a prima vista di essere due bravi,
cioè uomini che, al servizio di qualche ricco e potente signore,
commettevano ribalderie di ogni genere. I governatori spagnoli avevano
promulgato molte grida (o editti) contro questi furfanti, ma esse
non erano servite ad altro che ad attestare l’impotenza del governo d’allora.
La minacciosa intimazione. – Era evidente che i
due bravi erano ad attendere qualcuno; ma ciò che più dispiacque a don
Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l’aspettato era
proprio lui. Egli, tenendo sempre il breviario aperto dinanzi, come se
leggesse, spingeva lo sguardo in su, per spiare le loro mosse, e,
vedendoseli venire proprio incontro, fu assalito da mille pensieri. Si
chiese se tra i bravi e lui ci fosse qualche uscita di strada, a destra o
a sinistra, ma si sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse
peccato contro qualche potente, ma anche in quel turbamento la coscienza
lo rassicurava. Intanto i bravi si avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l’indice
e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo, e,
girando le due dita intorno al collo, volse la faccia all’indietro, allo
scopo di guardare con la coda dell’occhio se qualcuno arrivasse; ma non
vide nessuno. Non potendo perciò schivare il pericolo, affrettò il
passo, perché i momenti di quell’incertezza gli erano così penosi, che
non desiderava altro che abbreviarli. Recitò un versetto a voce più
alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, e,
quando si trovò di fronte ai due galantuomini, si fermò sui due piedi.
I due bravi, con un tono minaccioso, diffidarono don
Abbondio, in nome del loro padrone don Rodrigo, dal celebrare il
matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, che avrebbe dovuto aver
luogo all’indomani, e, nello stesso tempo, gli ingiunsero di non fare
parola di ciò a nessuno, altrimenti… E sottolinearono la loro
intimazione un ehm! Molto significativo. Don Abbondio, con voce
tremante, non seppe balbettare che dei tronchi monosillabi, dichiarandosi
umilmente disposto all’obbedienza; e quelli si allontanarono cantando
una canzonaccia. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta,
come incantato; poi prese la stradetta che conduceva a casa sua, mettendo
innanzi a stento una gamba dopo l’altra.
Ritratto di don Abbondio. – Don Abbondio, avverte
a questo punto il Manzoni, non era nato con un cuor di leone. Trovatosi a
vivere in un’epoca, nella quale la forza legale non proteggeva affatto
il debole, aveva dovuto accorgersi di essere nella condizione di un vaso
di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro.
Aveva perciò volentieri obbedito ai parenti che lo volevano prete,
preoccupandosi non tanto degli obblighi e dei nobili fini del ministero,
quanto piuttosto di poter vivere con qualche agio e di mettersi in una
classe riverita e forte. Si era poi fatto un sistema particolare di vita,
che consisteva principalmente nello scansare tutti i contrasti, e nel
cedere in quel che non poteva scansare. Se si trovava assolutamente
costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte,
sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro ch’egli
non gli era volontariamente nemico, come se gli dicesse: ma perché non
avete saputo esser voi il più forte? Era poi un rigido censore degli
uomini che non si regolavano come lui, quando però la censura potesse
esercitarsi senza alcun pericolo. Il battuto era almeno un imprudente, l’ammazzato
era sempre stato un uomo torbido. Aveva infine una sua sentenza
prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie:
che a un galantuomo, il quale badi a sé, e stia nei suoi panni, non
accadono mai brutti incontri. In tal modo, destreggiandosi alla meglio, il
pover’uomo era riuscito a passare i sessant’anni, senza gravi
burrasche.
Il soliloquio di don Abbondio. – Si pensi ora che
impressione dovesse fare sull’animo di don Abbondio l’incontro coi
bravi, che veniva a sconcertargli in un momento un sistema di quieto
vivere, che gli era costato tanti anni di studio e di pazienza. Mentre si
avviava col capo basso verso casa, tumultuavano in lui opposti e
disordinati pensieri. Pensava quale pretesto avrebbe potuto prendere con
Renzo, «un agnello se nessuno lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli…».
Inveiva contro quei ragazzacci, che, per non saper che fare, s’innamorano
e vogliono maritarsi, e non si curano dei travagli in cui mettono un
povero galantuomo… Non aveva avuto a che fare con don Rodrigo, altro che
toccare il petto col mento e la terra colla punta del suo cappello, quelle
poche volte che l’aveva incontrato per la strada; ma in quel momento gli
dava in cuor suo tutti quei titoli che non aveva mai udito applicargli da
altri, senza interrompere in fretta con un «ohibò».
Perpetua. – Giunto alla porta, che era in fondo
al paese, mise in fretta nella toppa la chiave, che già teneva in mano;
aprì, entrò, richiuse diligentemente; e, ansioso di trovarsi in una
compagnia fidata, chiamò subito la serva Perpetua, avviandosi verso il
salotto, dove questa stava apparecchiando la tavola per la cena. Perpetua
era una serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare
secondo l’occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le
fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerare le proprie, che
divenivano di giorno in giorno più frequenti, da quando aveva passato l’età
sinodale dei quarant’anni. Essa era rimasta zitella, per aver rifiutato
tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver
mai trovato un cane che la volesse, come dicevano le sue amiche. Vedendo
entrare il padrone con un viso così stravolto, comprese subito che doveva
essergli accaduto qualche cosa di straordinario.
La confessione di don Abbondio. - Don Abbondio,
lasciadosi cadere tutto ansante sul seggiolone, tentò dapprima di eludere
le domande della donna, protestando che non gli era accaduto nulla,
orinandole di dargli soltanto un bicchiere del suo vino, che vuotò in
fretta come una medicina. Ma infine, sia perché Perpetua minacciava di
domandar qua e là cosa fosse accaduto al suo padrone, sia perché don
Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo segreto quanta ne
aveva Perpetua di conoscerlo, il povero curato, dopo aver fatto più volte
giurare la serva che non fiaterebbe, le raccontò, con molte sospensioni e
con molti ohimè, il suo miserabile caso.
I pareri di Perpetua. – La donna, dopo una
violenta reazione di sdegno, consigliò don Abbondio di informare di tutto
l’arcivescovo, che era un sant’uomo e un uomo di polso; ma il povero
curato non volle neppur sentirne parlare, perché, quando gli fosse
toccata una schioppettata nella schiena, l’arcivescovo non gliela
avrebbe certo potuta togliere. Poi, preso il lume, si avviò brontolando
verso la sua camera; ma, giunto sulla soglia, si voltò indietro verso
Perpetua, mise il dito sulla bocca, raccomandò ancora caldamente il
silenzio «per amor del cielo!» e scomparve.
CAPITOLO II
La notte di don Abbondio. – Si racconta che il
principe di Condè dormì profondamente la notte prima della battaglia di
Rocroi; ma don Abbondio, che sapeva soltanto che l’indomani sarebbe
stato giorno di battaglia, e non aveva meditato alcun piano, passò gran
parte della notte in consulte angosciose. Dopo essersi molto rivoltato nel
letto, gli parve alfine che il partito migliore fosse quello di guadagnar
tempo, menando Renzo per le lunghe, tanto più che mancavano solo pochi
giorni al tempo proibito per le nozze, e, se avesse potuto tenere a bada
quel ragazzone, avrebbe poi avuto due mesi di respiro, e in due mesi
possono nascere molte cose. Presa questa decisione, potè finalmente
chiuder occhio: ma che sonno! che sogni! Bravi, don Rodrigo, Renzo,
viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate.
Il colloquio tra Renzo e don Abbondio. - Il mattino
seguente Lorenzo, o, come dicevan tutti, Renzo, appena gli parve ora da
non esser giudicato indiscreto, si presentò a don Abbondio con la lieta
furia di un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare la donna
che ama. Era in gran gala, con penne di vario colore al cappello, con un
bel pugnale nel taschino dei calzoni, con una cert’aria di festa e nello
stesso tempo di braveria, comune allora anche agli uomini più quieti.
Don Abbondio l’accolse in modo incerto e misterioso.
Renzo pensò che il curato avesse qualche pensiero per la testa, e gli
chiese subito a quale ora gli faceva comodo che si trovassero in chiesa;
ma don Abbondio prima finse di non ricordarsi che quello era il giorno
fissato, poi protestò di non sentirsi bene, accennò a imbrogli, a
ostacoli, a formalità non ancora compiute, numerando in latino, sulla
punta delle dita, gli impedimenti dirimenti; infine chiese quindici
giorni, una settimana almeno di tempo. Renzo dapprima si stupì, poi s’infuriò
(«che vuol ch’io faccia del suo latino-rum!»), ma poi, pur
dichiarando che passata la settimana non si sarebbe più appagato di
chiacchiere, finì col cedere.
Renzo fa parlare Perpetua. - Uscito dalla casa di
don Abbondio, Renzo tornò con la mente su quel colloquio, e sempre più
lo trovava strano. Stette in forse un momento di tornare indietro, ma,
vedendo Perpetua dinanzi a lui, che entrava in un orticello, si fermò ad
attaccare discorso, col proposito di avere qualche maggiore spiegazione.
Perpetua, pur giurando di non saper niente, lasciò capire con mezze
parole che in tutta quella faccenda il suo padrone non aveva nessuna
colpa, ma che si trattava di prepotenti e di birboni, di uomini senza
timor di Dio… Renzo, nascondendo a stento l’agitazione che gli
cresceva nel cuore, tentò ancora di strapparle il nome di colui che si
opponeva al suo matrimonio; ma Perpetua, ripentendo che essa non sapeva
nulla, entrò in fretta nell’orto, chiudendo l’uscio.
Nuovo colloquio tra Renzo e don Abbondio. - Allora
Renzo, confermato nei suoi sospetti, fu in un momento all’uscio di don
Abbondio; si diresse difilato al salotto dove l’aveva lasciato, e con
gli occhi stralunati gli chiese il nome del prepotente, che non voleva che
egli sposasse Lucia. Don Abbondio, sorpreso e sbiancato come un cencio che
esca dal bucato, spiccò un salto dal seggiolone per lanciarsi all’uscio;
ma Renzo, che doveva aspettarsi quella mossa, vi balzò prima di lui,
girò la chiave e se la mise in tasca. Poi, forse senza avvedersene, mise
la mano sul manico del coltello, che gli usciva dal taschino, ed assunse
un aspetto così minaccioso, che don Abbondio, come avesse in bocca la
tenaglia del cavadenti, fu costretto a rivelargli il nome di don Rodrigo.
«Ah cane!» urlò Renzo. Il povero curato gli dipinse
allora con colori terribili il brutto incontro, e lo rimproverò della
bella prodezza di avergli voluto cavare di bocca ciò che egli nascondeva
per prudenza e per suo bene.
«Posso aver fallato», rispose Renzo, mentre apriva la
porta. Don Abbondio, afferrandogli il braccio con la mano tremante, tentò
di fargli giurare che avrebbe mantenuto il silenzio, ma il giovane,
svincolandosi da lui, se ne partì con furia.
Don Abbondio rimprovera Perpetua. – Don Abbondio,
dopo aver richiamato invano il fuggitivo, si mise a chiamare Perpetua; ma
questa non rispondeva ed egli non sapeva più in che mondo si fosse.
Affannato e balordo, si rispose sul suo seggiolone, cominciando a sentirsi
qualche brivido nelle ossa, e chiamando di tempo in tempo, con voce
tremolante e stizzosa, Perpetua. Finalmente essa venne, con un gran cavolo
sotto il braccio e con la faccia tosta, come se nulla fosse accaduto. Tra
i due si svolse un colloquio assai agitato, a base di «voi sola potete
aver parlato» e «non ho parlato». Basti dire che don Abbondio ordinò a
Perpetua di metter la stanga all’uscio, di non aprire a nessuno, e, se
alcuno bussasse, rispondere dalla finestra che egli era andato a letto con
la febbre. E si mise a letto davvero.
Renzo a casa di Lucia. – Renzo intanto camminava
a passi infuriati verso la casa di Lucia, con la smania di vendicarsi di
don Rodrigo. Avrebbe voluto correre alla casa di lui, o, poiché ciò era
impossibile, prendere il suo schioppo, appiattarsi dietro una siepe, e,
dopo avergli sparato, correre verso il confine e mettersi in salvo. Ma il
ricordo di Lucia, scendendo ad un tratto fra quelle bieche fantasie,
faceva subentrare al loro posto i migliori pensieri, a cui la sua mente
era avvezza. Arrivò così alla casetta di Lucia, che era in fondo al
villaggio, e che aveva dinanzi un piccolo cortile, cinto da un morettino.
Appena entrato nel cortile, sentì un ronzìo che
veniva da una stanza di sopra. S’immaginò che fossero le amiche e le
comari, venute a far corteggio alla sposa, e non volle mostrarsi con
quella notizia sul volto. Una fanciulletta, Bettina, che si trovava nel
cortile, gli corse incontro, gridando: «lo sposo! Lo sposo!»; ed egli la
mandò ad avvertire in segreto Lucia che l’attendeva nella stanza
terrena.
Lucia in abito da sposa. – Lucia usciva in quel
momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche se la rubavano,
ed essa si andava schermendo con la modestia un po’ guerriera delle
contadine. I suoi neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, si
ravvolgevano dietro il capo in molteplici trecce, trapassati da lunghi
spilli d’argento, a guisa d’aureola, come ancora usano le contadine
nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati, alternati con
bottoni d’oro a filigrana; portava un bel busto di broccato a fiori, con
le maniche separate e allacciate da bei nastrini; una corta gonnella di
seta, a pieghe fitte e riunite, due calze vermiglie, due pianelle di seta
a ricami.
Colloquio tra Renzo e Lucia. – Lucia, avvertita
da Bettina, scese in fretta, e, vedendo la faccia e il portamento di
Renzo, gliene chiese la causa, con un presentimento di terrore. Il giovane
le raccontò brevemente la storia di quella mattina; e quando essa udì il
nome di don Rodrigo: «Ah! – esclamò, arrossendo e tremando, - fino a
questo segno!». Renzo le chiese ansioso che cosa sapeva, ma essa lo
pregò di non farla parlare prima di aver chiamata la madre e licenziato
le donne. Intanto la madre Agnese, messa in sospetto dallo sparire della
figlia, era discesa a vedere che cosa c’era di nuovo. Lucia la lasciò
con Renzo e andò ad avvertire le donne che per quel giorno non si faceva
nulla, perché il curato era ammalato. Le donne si sparsero a raccontare l’accaduto,
due o tre andarono fino all’uscio del curato, per verificare se era
ammalato davvero.
Perpetua rispose dalla finestra che aveva un febbrone,
e così si troncarono le congetture, che già cominciavano a brulicare nei
loro cervelli.
CAPITOLO III
Lucia racconta l’incontro con don Rodrigo. – Lucia
entrò nella stanza terrena mentre Renzo stava informando Agnese, e, con
voce rotta dal pianto, raccontò come pochi giorni prima, mentre tornava
dalla filanda ed era rimasta indietro dalle sue compagne, le era passato
innanzi don Rodrigo, in compagnia di un altro signore, e aveva cercato di
intrattenerla con chiacchiere non punto belle. Essa allora aveva
affrettato il passo, raggiungendo le compagne; ma aveva sentito quell’altro
signore ridere forte e don Rodrigo dire: «scommettiamo». Il giorno dopo
coloro s’erano trovati ancora sulla strada, ma essa era nel mezzo delle
compagne, con gli occhi bassi, e l’altro signore sghignazzava e don
Rodrigo diceva: «vedremo, vedremo». Per grazia del cielo, quel giorno
era l’ultimo della filanda. Essa aveva taciuto ogni cosa a sua madre,
per non contristare la buona donna, per non mettere a rischio di viaggiare
per molte bocche una storia che doveva esser gelosamente sepolta e che le
nozze avrebbero troncata. Aveva però raccontato tutto in confessione al
padre Cristoforo, ed egli le aveva consigliato di affrettare le nozze il
più possibile e, nel frattempo, di starsene rinchiusa e di pregare il
Signore. Fu allora che essa aveva pregato Renzo di concludere prima del
tempo stabilito…
Propositi di vendetta di Renzo. – Le parole di
Lucia furono troncate da un violento scoppio di pianto, mentre Renzo,
correndo innanzi e indietro per la stanza, e stringendo di tanto in tanto
il manico del suo coltello, gridava il suo proposito di volersi vendicare
di don Rodrigo («Questa è l’ultima che fa quell’assassino!»).
Lucia, tentando di calmare il giovane, propose di
andare a stabilirsi lontano, dove colui non sentisse più parlare di loro;
ma Renzo obbiettò che il curato non avrebbe dato loro la fede di stato
libero, mentre, una volta maritati, tutto sarebbe stato più facile.
Il consiglio di Agnese. – Dopo qualche momento
Agnese prese a dire che il diavolo non è poi tanto brutto quanto si
dipinge, e che il consiglio di un uomo che ha studiato avrebbe certo
potuto aiutarli a trarsi d’imbarazzo. Essa propose a Renzo di recarsi a
Lecco, da un certo dottore soprannominato Azzecca-garbugli (ma, per l’amor
del cielo, non lo chiamasse così, chè questo era un soprannome!), una
cima d’uomo, che aveva liberato molti da ben altri imbrogli. Renzo
abbracciò molto volentieri questo parere, e Agnese, levati dalla stia
quattro capponi, ai quali avrebbe dovuto tirare il collo per il banchetto
di domenica, li consegnò al giovane perché da quei signori non bisognava
mai andare con le mani vuote. Renzo uscì dalla parte dell’orto, per non
essere veduto dai ragazzi, che gli sarebbero corsi dietro gridando: «lo
sposo! Lo sposo!» e, mentre attraversava i campi, ripensando alla sua
disgrazia, andava agitando quelle povere bestie secondo i pensieri che gli
passavano a tumulto per la mente.
Renzo dal dottor Azzecca-garbugli. – Giunto al
borgo, Renzo si fece indicare l’abitazione del dottor Azzecca-garbugli.
Entrato in cucina, domandò alla serva se si poteva parlare al signor
dottore. Essa, adocchiate le bestie, mise subito loro le mani addosso,
benché Renzo si tirasse indietro, perché voleva che il dottore vedesse
che egli portava qualche cosa. Questi capitò appunto mentre la donna
diceva: «Date qui e andate innanzi», e con un «venite, figliolo», lo
fece entrare nello studio. Renzo, ritto davanti al tavolo gremito di
carte, con una mano nel cocuzzolo del cappello, che faceva girare con l’altra,
cominciò col chiedere se, a minacciare un curato perché non faccia un
matrimonio, ci sia penale. Il dottore, credendo che la minaccia l’avesse
fatta Renzo, disse che era un caso serio, contemplato in cento gride, e,
cacciate le mani in quel caos di carte che aveva sul tavolo, ne prese una,
la spiegò, e, tenendola sciorinata in aria, cominciò a leggere. Era una
grida del 15 ottobre 1627, emessa dal governatore di don Gonzalo Fernandez
de Cordova, che minacciava pene terribili contro tutti i prepotenti,
compresi quelli che avessero tentato di impedire un matrimonio.
Mentre il dottore leggeva, Renzo gli andava dietro
lentamente con l’occhio, cercando di mirar proprio quelle sacrosante
parole, che gli parevano dover essere il suo aiuto. Il dottore, vedendo il
nuovo cliente più attento che atterrito, si meravigliava, e, ritenendo
che egli fosse il colpevole, gli domandò perché si era fatto tagliare il
ciuffo. Per intendere questa uscita, bisogna sapere che a quel tempo i
bravi e i facinorosi d’ogni genere usavano portare un lungo ciuffo, che
si tiravano poi sul volto, come una visiera, quando affrontavano qualcuno
o stimavano necessario di travisarsi. Poiché Renzo, sorpreso, rispose che
da povero figliuolo non aveva mai portato ciuffo in vita sua, il dottore,
sempre convinto che egli fosse il colpevole, lo esortò a dire tutta la
verità, poiché all’avvocato bisogna raccontare le cose chiare, a lui
poi tocca imbrogliarle.
Quando Renzo ebbe capito in quale equivoco era caduto
il dottore, lo interruppe, dichiarando che la cosa era proprio tutta al
rovescio, e che egli non aveva minacciato nessuno, ma che la bricconeria l’avevano
fatta a lui e che egli era venuto per ottenere giustizia. Espose quindi il
suo caso, nominando quel prepotente di don Rodrigo…
Il dottore, sentendo pronunziare il nome di don
Rodrigo, aggrottò le ciglia, aggrinzì il naso rosso, e, storcendo la
bocca, dichiarò che non voleva sentire di quelle fandonie e che se ne
lavava le mani. Poi spinse Renzo verso l’uscio, chiamò la serva e le
ordinò di restituirgli i capponi. Renzo, più attonito e più stizzito
che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate e ritornare al paese per
raccontare alle donne il bel costrutto della sua spedizione.
Fra Galdino. – Le donne, durante l’assenza di
Renzo, dopo essersi tristemente levate il vestito delle feste, si erano
messe a consultare di nuovo sul partito da prendere. Agnese parlava dei
grandi effetti che si dovevano sperare dai consigli del dottore; ma Lucia
diceva che bisognava aiutarsi in tutte le maniere, e che sarebbe stata una
gran bella cosa far sapere a padre Cristoforo ciò che era accaduto.
Mentre studiavano il modo di mettere in opera questo
disegno, poiché esse in quel giorno non si sentivano il coraggio di
andare al convento, distante di là forse due miglia, capitò per buona
sorte fra Galdino, un laico cercatore cappuccino, che veniva alla cerca
delle noci. Egli, dopo essersi lamentato per la scarsità dell’annata,
prese a raccontare il gran miracolo delle noci, operato da padre Macario.
Un giorno il padre Macario, passando attraverso il campo di un
benefattore, lo vide intento ad abbattere un noce, che da tempo non
produceva più frutti. Il buon padre esortò il benefattore a lasciare
intatta la pianta, che in quell’anno medesimo avrebbe fatto più fiori
che foglie. Il benefattore accondiscese e promise metà della raccolta per
il convento. Infatti il noce fece in quell’anno noci a bizzeffe; ma il
benefattore, prima di bacchiarle, morì, e il figlio, che era di stampo
ben diverso, non solo non tenne fede alla promessa paterna, ma ebbe la
temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i cappuccini
sapessero far noci. Un giorno, però, quello scapestrato, che si vantava
coi suoi amici del suo bel gesto, volle mostrar loro quello sterminato
mucchio di noci; ma ebbe l’amara sorpresa di vedere, al posto delle
noci, un bel mucchio di foglie secche. Da allora il convento raccolse ogni
anno noci senza fine, e ne faceva tanto olio, che ogni povero veniva a
prenderne: perché i conventi dei cappuccini sono come il mare, che riceve
acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi.
Frattanto Lucia, che era passata nell’altra stanza
per prendere le noci, ritornò col grembiule così carico, che Angere le
fece un volto attonito e severo per la sua prodigalità. Quindi Lucia
pregò il frate di far sapere a padre Cristoforo che aveva gran premura di
parlargli.
Partito fra Galdino, Agnese biasimò la figlia per aver
fatto una così abbondante elemosina, ma Lucia si giustificò, rispondendo
che soltanto in quel modo il frate sarebbe tornato più presto al
convento; e Agnese che, coi suoi difettucci, era una gran buona donna e si
sarebbe buttata nel fuoco per quell’unica figlia, l’approvò.
Ritorno di Renzo. – Frattanto tornò Renzo, che,
gettati i capponi sul tavolo, raccontò il suo abboccamento col dottore.
Agnese, stupefatta, avrebbe voluto dimostrare che il suo parere era buono
e che Renzo non doveva aver saputo fare la cosa come andava fatta; ma
Lucia troncò la discussione, dicendo che sperava di aver trovato un aiuto
migliore.
Renzo accolse anche questa speranza, come accade a
quelli che sono nella sventura o nell’impiccio; ma esclamò che, se non
si fosse trovato un ripiego, avrebbe saputo farsi ragione da solo.
Le donne consigliarono la pace, la pazienza, la
prudenza; e, poiché incominciava ad imbrunire, si separarono tristemente,
augurandosi la buona notte.
Renzo, col cuore in tempesta, se ne tornò verso casa,
ripetendo tra sé: «A questo mondo c’è giustizia finalmente!». Tant’è
vero – commenta il Manzoni – che un uomo sopraffatto dal dolore non sa
più quel che si dica.
CAPITOLO IV
Il triste paesaggio d’autunno. – Il sole non
era ancor tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì
dal suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta di Lucia.
Pescarenico è un borgo di pescatori, che si trova sulla riva sinistra
dell’Adda, o meglio del Lago, poco discosto dal ponte. Il convento era
situato (e l’edificio ancora sussiste) al di fuori del borgo, lungo la
strada che da Lecco conduce a Bergamo.
Il cielo era tutto sereno, un venticello d’autunno
staccava dagli alberi le foglie appassite dei gelsi, nelle vigne
brillavano le foglie rosseggianti a varie tinte, ma ogni figura d’uomo
rattristava lo sguardo e il pensiero. Ogni tanto si incontravano mendichi
laceri e macilenti, che s’inchinavano al padre, per l’elemosina che
avevano ricevuta o che andavano a cercare al convento; i lavoratori sparsi
nei campi gettavano con risparmio la semente o lavoravano svogliatamente
la zolla; la fanciulla scarna, che portava al pascolo la vaccherella magra
e stecchita, le rubava qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che
anche gli uomini potevano vivere. Questi spettacoli accrescevano la
mestizia del frate, il quale camminava già col triste presentimento di
andare a sentire qualche sciagura.
Padre Cristoforo. – Il padre Cristoforo da ***
era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni. Il suo capo
raso, salvo la piccola corona di capelli che vi girava intorno, s’alzava
di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che
d’altero e d’inquieto, e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà;
la barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva
ancor più risaltare le forme rilevate del volto; due occhi incavati, per
lo più chinati a terra, sfolgoravano talvolta con vivacità repentina,
come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale
sanno per esperienza che non si può vincerla, ma che fanno di tempo in
tempo qualche sgambetto, che scontano subito con una buona tirata di
morso.
L’educazione di Lodovico. – Il padre Cristoforo
non era stato sempre Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico.
Era figliuolo di un mercante, che essendosi arricchito, aveva rinunziato
al traffico, si era dato a vivere da signore, e aveva cercato ogni modo
per far dimenticare che era stato mercante. Perciò aveva fatto educare il
figlio nobilmente, dandogli maestri di lettere e d’esercizi
cavallereschi.
Lodovico aveva contratto abitudini signorili, ma quando
volle mischiarsi coi nobili della sua città, vide che, a voler essere
della loro compagnia, gli conveniva star sempre al di sotto e ingozzarne
una ogni momento. Ciò non s’accordava né con la sua educazione, né
con la sua natura. S’allontanò da essi indispettito, ma, volendo pure
in qualche modo competere con essi, si era dato a fare sfoggio di
magnificenze, comprandosi così a contanti inimicizie, invidie e ridicolo.
Indole di Lodovico. – La sua indole, onesta
insieme e violenta, gli faceva sentire un orrore spontaneo e sincero per
le angherie, tanto più che le persone, che maggiormente ne commettevano,
erano appunto coloro coi quali aveva ruggine. Così venne a costituirsi a
poco a poco un protettore degli oppressi e un vendicatore dei tori. Ma non
è da domandare se il povero Lodovico avesse nemici, impegni e pensieri.
Oltre la guerra esterna, era tribolato continuamente da contrasti interni,
perché a spuntarla in un impegno doveva anche lui adoperare raggiri e
violenze, che la sua coscienza non poteva approvare. Doveva tenersi
intorno un gran numero di bravacci, così che doveva vivere coi birboni
per amore della giustizia. Tanto che più di una volta gli era saltata la
fantasia di farsi frate. Ma questa, che sarebbe forse stata una fantasia
per tutta la sua vita, divenne una risoluzione a causa d’un accidente,
il più serio che gli fosse ancora capitato.
Incontro con un prepotente. – Andava un giorno
per una strada della sua città, seguito da due bravi e da un tale
Cristoforo, maestro di casa, molto a lui affezionato, quando vide spuntar
da lontano un signore, seguito da quattro bravi, col quale non aveva mai
parlato, ma che gli era cordiale nemico, e al quale rendeva pur di cuore
il contraccambio. Tutti e due camminavano rasenti al muro, ma Lodovico lo
strisciava col lato destro, e ciò, secondo consuetudine, gli dava il
diritto di non staccarsi dal muro per dare il passo ad altri; l’altro
pretendeva all’opposto che quel diritto competesse a lui, come a nobile,
e che a Lodovico toccasse andare nel mezzo, e ciò in forza di un’altra
consuetudine.
Quando si trovarono a viso a viso, il signor tale,
squadrando Lodovico con cipiglio imperioso, pretese che gli cedesse la
diritta, ma Lodovico gli rispose con egual arroganza. Dalle parole
passarono ai fatti, e, sfoderate le spade, si avventarono l’uno contro l’altro,
mentre i servitori si slanciavano alla difesa dei loro padroni. Il
combattimento era disuguale, sia per il numero, sia perché Lodovico
mirava piuttosto a scansare i colpi e a disarmare il nemico che ad
ucciderlo, mentre questi voleva ad ogni costo la sua morte. Lodovico aveva
già ricevuto una pugnalata al braccio sinistro da un bravo, e una
sgraffiatura leggera in una guancia, e il nemico principale gli piombava
addosso per finirlo, quando Cristoforo, vedendo il suo padrone all’estremo
pericolo, andò col pugnale addosso al signore. Questi, rivolta tutta la
sua ira contro di lui, lo passò con la spada. A quella vista Lodovico,
come fuori di sé, cacciò la sua nel ventre del feritore, che cadde
moribondo, quasi insieme col povero Cristoforo. I bravi, visto ch’era
finita, si diedero alla fuga, e Lodovico si trovò solo, con quei due
funesti compagni ai piedi, in mezzo ad una gran folla. Il fatto era
accaduto vicino ad una chiesa di cappuccini, asilo allora impenetrabile
alla giustizia. Lodovico, ferito, fu qui portato dalla folla, che lo
raccomandava dicendo: «è un uomo dabbene che ha freddato un birbone
superbo; l’ha fatto per sua difesa: c’è stato tirato per i capelli».
Lodovico decide di farsi frate. – Lodovico, che
non aveva mai prima d’allora sparso sangue, benché l’omicidio fosse a
quei tempi cosa molto comune, vedendo l’uomo morto per lui e l’uomo
morto da lui, ricevette un’impressione nuova e invincibile.
Riflettendo ai casi suoi, sentì rinascere più che mai
vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte gli era passato
per la mente: gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla strada e
datogli un segno del suo volere, facendolo capitare in un convento in
quella congiuntura: e il partito fu preso.
La risoluzione di Lodovico veniva molto a proposito per
i suoi ospiti, che per cagione sua erano in un bell’intrigo, perché la
famiglia dell’ucciso, che era assai potente, voleva ad ogni costo nelle
unghie l’uccisore, vivo o morto. Ora questo, vestendo l’abito da
cappuccino, accomodava ogni cosa. Il fratello dell’ucciso impose come
condizione che Lodovico partisse subito da quella città; e il padre
guardiano, che aveva già deliberato che questo fosse fatto, disse che si
farebbe, lasciando che l’altro credesse, se gli piaceva, essere questo
un atto d’ubbidienza, e tutto fu concluso.
Così Lodovico a trent’anni si ravvolse nel sacco; e
dovendo, secondo l’uso, lasciare il suo nome e prenderne un altro ne
scelse uno che gli rammentasse in ogni momento ciò che doveva espiare, e
si chiamò fra Cristoforo.
Padre Cristoforo chiede perdono alla famiglia dell’ucciso.
– Appena compiuta la cerimonia della vestizione, il guardiano
intimò a fra Cristoforo che sarebbe andato lontano a fare il noviziato,
ed egli chiese per grazia, prima di partire, di poter chiedere perdono al
fratello dell’ucciso.
Il gentiluomo pensò che, quanto più quella
soddisfazione fosse solenne e clamorosa, tanto più accrescerebbe il suo
credito presso tutta la parentela e presso il pubblico; e invitò in
fretta tutti i parenti per ricevere una soddisfazione comune.
Il giorno dopo, a mezzogiorno, il palazzo brulicava di
gente. Fra Cristoforo vide quell’apparecchio, ne indovinò il motivo e
provò un leggero turbamento, ma pensò subito che come pubblico era stato
lo scandalo, pubblica doveva essere la riparazione. Giunto davanti al
fratello dell’ucciso, gli si pose in ginocchioni ai piedi, incrociò le
mani al petto e chiese umilmente perdono. Quando egli tacque, s’alzò
per tutta la sala un mormorio di pietà e di rispetto. Il gentiluomo, che
stava in atto di degnazione forzata e d’ira compressa, turbato da quelle
parole, lo costrinse ad alzarsi, e, trasportato da quella commozione
generale, gli gettò le braccia la collo, e gli diede e ne ricevette il
bacio di pace. Un «bravo! Bene!» scoppiò da tutte le parti della sala;
tutti si mossero e si strinsero intorno al frate.
Il pane del perdono. – Vennero poi servitori con
gran copia di rinfreschi, ma fra Cristoforo non volle che un semplice
pane, come segno di carità e di perdono. Chiese quindi licenza, si
liberò a fatica da tutti coloro che, trovandosi più vicini, gli
baciavano il lembo dell’abito, il cordone, il cappuccio; e si trovò
sulla strada, portato come in trionfo. Una folla di popolo lo accompagnò
fino alla porta della città, da dove uscì per cominciare il suo viaggio
ai piedi verso il luogo del suo noviziato.
In tal modo il fratello dell’ucciso e il parentado,
che s’erano aspettati d’assaporare in quel giorno la trista gioia dell’orgoglio,
si trovarono invece ripieni della gioia serena del perdono e della
benevolenza.
Padre Cristoforo camminava, con una consolazione che
non aveva mai più provata dopo quel giorno terribile. Fermatosi, all’ora
della refezione, presso un benefattore, mangiò con una specie di voluttà
pane del perdono; ma ne serbò un pezzo, come un ricordo perpetuo.
Vita claustrale di padre Cristoforo. – Da allora,
adempiendo sempre con gran voglia e con gran cura gli uffici, che gli
venivano ordinariamente assegnati, di predicare e di assistere i
moribondi, non lasciava ma sfuggire l’occasione di esercitarne altri
due, che s’era imposti da sé: accomodare differenze e proteggere
oppressi. Se una poverella sconosciuta, nel triste caso di Lucia, avesse
chiesto il suo aiuto, egli sarebbe corso immediatamente. Trattandosi poi
di Lucia, accorse con tanta più sollecitudine, in quanto conosceva l’innocenza
di lei e sentiva una indignazione santa per la turpe persecuzione della
quale era divenuta l’oggetto.
Ma mentre abbiamo raccontato i fatti di padre
Cristoforo, egli è arrivato e s’è affacciato all’uscio; e le donne,
lasciando il manico dell’aspo che facevan girare, si sono alzate dicendo
a una voce: «Oh padre Cristoforo! Sia benedetto!».
CAPITOLO V
Agnese narra a padre Cristoforo l’accaduto. - Padre
Cristoforo si fermò ritto sulla soglia, e, appena ebbe data un’occhiata
alle donne, dovette accorgersi che i suoi presentimenti non erano falsi.
Lucia scoppiò in pianto, Agnese cominciò a fare le scuse d’aver osato
disturbarlo, ma il frate, messosi a sedere sur un banchetto a tre piedi,
troncò i complimenti, chiedendo alle donne di raccontargli ogni cosa.
Mentre Agnese faceva alla meglio la sua dolorosa
relazione, il frate diventava di mille colori, e ora alzava gli occhi al
cielo, ora batteva i piedi. Terminata la storia, si coprì il volto con le
mani ed esclamò: «O Dio benedetto! Fino a quando…!». Ma, senza
compiere la frase, si rivolse di nuovo alle donne, dicendo: «Dio vi ha
visitate. Povera Lucia!».
Padre Cristoforo decide di recarsi da don Rodrigo. – Dopo
aver contrappesato il pro e il contro di questo o di quel partito, il
migliore gli parve d’affrontare don Rodrigo stesso, tentare di smuoverlo
dal suo infame proposito, con le preghiere, coi terrori dell’altra vita,
o anche di questa, se fosse possibile.
Sopraggiunse intanto Renzo, che, vedendo padre
Cristoforo, si lasciò sfuggire di aver compiuto dei tentativi infruttuosi
presso i suoi amici per averli alleati nella vendetta; ma il frate,
afferrato il braccio del giovane, lo esortò a lasciarsi guidare da lui e
a non provocare nessuno. Poi, dopo aver promesso che sarebbe ritornato la
sera, o al più tardi il mattino seguente, troncò tutti i ringraziamenti
e le benedizioni, e partì. S'avviò al convento, arrivò a tempo per
andare in coro a cantare sesta, desinò, e si mise subito in cammino verso
il covile della fiera, che voleva provarsi di ammansire.
Il palazzotto di don Rodrigo. – Il palazzotto di
don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza di una bicocca, sulla cima di
un poggio, più in su del paesello di Renzo e Lucia, discosto da questo
forse tre miglia, e quattro dal convento. Ai piedi del poggio, dalla parte
che guarda a mezzogiorno e verso il lago, giaceva un mucchietto di
casupole, abitate da contadini di don Rodrigo, ed era come la capitale del
suo piccolo regno.
Padre Cristoforo attraversò il villaggio, salì per
una viuzza a chiocciola, e pervenne su una piccola spianata, davanti al
palazzotto. La porta era chiusa, segno che il padrone stava desinando e
non voleva essere disturbato. Si sarebbe potuto credere che fosse una casa
abbandonata, se quattro creature, due vive e due morte, collocate di
fuori, non avessero dato indizio che era abitata. Due grandi avvoltoi, con
l’ali spalancate e coi teschi penzoloni, erano inchiodati sur un
battente del portone; e due bravi, ciascuno sur una delle panche poste a
destra e a sinistra, facevano la guardia, aspettando di essere chiamati a
godere gli avanzi della tavola. Il padre si fermò ritto, in atto di chi
si dispone ad aspettare; ma uno dei bravi lo invitò ad entrare, dando due
picchi col martello. Si udì dal di dentro gli urli e le strida di mastini
e di cagnolini; e, pochi momenti dopo, giunse un vecchio servitore, che,
guardando il padre con una cert’aria di meraviglia e di rispetto, lo
condusse fino all’uscio della sala del convito.
Padre Cristoforo nella sala del convito. – Padre
Cristoforo stava contrastando col servitore per ottenere di esser lasciato
in qualche canto della casa, finchè il pranzo fosse terminato, quando l’uscio
si aprì, e un certo conte Attilio, cugino di don Rodrigo, veduta una
testa rasa e una tonaca, gridò: «Ehi! Ehi! Non ci scappi, padre
riverito: avanti, avanti». Don Rodrigo, senza indovinare precisamente il
soggetto di quella visita, pure, per non so quale presentimento, ne
avrebbe fatto a meno; ma poiché quello spensierato di Attilio aveva fatto
quella gran chiamata, non conveniva a lui tirarsi indietro, e disse:
«Venga, padre, venga». Il padre s’avanzò, inchinandosi al padrone, e
rispondendo a due mani al saluto dei commensali.
I commensali. – Don Rodrigo sedeva a capo tavola.
Alla sua destra era il conte Attilio, venuto da Milano a villeggiare per
alcuni giorni; a sinistra, a un altro lato della tavola, stava il podestà
del paese, quello stesso a cui in teoria sarebbe toccato far giustizia a
Renzo e far stare a dovere don Rodrigo; a destra, in faccia al podestà,
in atto di un rispetto il più puro, il più sviscerato, sedeva il dottor
Azzecca-garbugli, in cappa nera e col naso più rubicondo del solito; in
faccia a don Rodrigo e al conte Attilio vi erano due invitati oscuri, che
non facevano altro che mangiare, chinare il capo, sorridere e approvare
ogni cosa dicesse un commensale e a cui un altro non contraddicesse.
Il convito. – Padre Cristoforo si scusò con don
Rodrigo di essere venuto in un’ora poco opportuna, e gli soggiunse all’orecchio,
con voce più sommessa, di volergli parlare da solo a solo, con suo
comodo, per un affare d’importanza. Don Rodrigo lo fece sedere, e,
benché il padre si schermisse, gli fece portare da bere, perché non
fosse mai vero che un cappuccino tornasse via da quella casa senza aver
gustato del suo vino, o un creditore insolente senza aver assaggiato la
legna dei suoi boschi.
Padre Cristoforo dovette in tal modo assistere alla
continuazione del pranzo, fra discussioni di cavalleria e di politica, che
poco potevano interessarlo.
Discussione su un problema di cavalleria. - Il
conte Attilio sosteneva, con sprezzante arroganza, che un messo, il quale
ardisca di porre in mano a un cavaliere una sfida, senza avergliene
chiesta licenza, è un temerario, violabile, violabilissimo, bastonabile,
bastonabilissimo. Il podestà, a sua volta, sosteneva, con dottrinaria
cocciutaggine, che ogni passeggero è di sua natura inviolabile, per
diritto delle genti, iure gentium, come dice anche il proverbio:
ambasciator non porta pena.
Don Rodrigo, che non avrebbe voluto che la questione
andasse troppo avanti, propose, non senza ironia, che fosse rimessa a
padre Cristoforo, il quale non era venuto al mondo col cappuccio in capo e
aveva anch’egli, conosciuto il mondo. Il padre, dopo essersi invano
schermito, enunciò il suo debole parere, che non vi dovrebbero essere né
sfide, né bastonate, suscitando in tal modo le meraviglie e le proteste
di tutti i commensali.
Discussione sulla guerra. – Ma don Rodrigo,
volendo troncare quella questione, portò il discorso sulla guerra di
successione per il ducato di Mantova, che, alla morte di Vincenzo Gonzaga,
era passata al duca di Nevers, suo parente più prossimo. Luigi XIII e il
cardinale di Richelieu sostenevano questo principe, naturalizzato
francese; mentre Filippo IV e il suo ministro conte d’Olivares,
comunemente chiamato il conte duca, lo contrastavano; e poiché quel
ducato era feudo dell’Impero, ambedue le parti si adoperavano presso l’imperatore
Ferdinando II perché si risolvesse per l’una o per l’altra di esse.
Anche qui il conte Attilio prese a contraddire il podestà, il quale,
allegando la sua amicizia col signor castellano (=capitano) spagnolo,
difendeva la tesi di Spagna e levava alle stelle il conte d’Olivares.
Don Rodrigo intervenne di nuovo con un’occhiata presso il cugino, per
fargli intendere che, per amor suo, cessasse di contraddire. Il conte
tacque, e il podestà, come un bastimento disimbrogliato da una secca,
continuò a vele gonfie il corso della sua eloquenza. E chissà quando
avrebbe preso terra, se don Rodrigo, che vedeva fremere il cugino, non
avesse fatto portare un certo fiasco, per fare un brindisi al conte duca.
Anche padre Cristoforo fu costretto ad associarsi al brindisi, mentre il
dottor Azzecca-garbugli pronunciò con enfasi un elogio dei vini e dei
pranzi dell’Illustrissimo signor don Rodrigo, dal cui palazzo la
carestia era bandita e confinata in perpetuo.
Accenno alla carestia. – La parola carestia, che il dottore aveva
buttato fuori a caso, rivolse in un punto tutte le menti su quel triste
soggetto. I convitati furono tutti d’accordo nell’urlare che carestia
non c’era e che era tutta speculazione degli incettatori e dei fornai.
Il disparere era solo sui rimedi da adottare: il podestà voleva dei buoni
processi; il conte Attilio, seguito dagli altri, gridava che bisognava
prendere coloro che, per voce pubblica, erano conosciuti come i più
ricchi e i più cani, e impiccarli.
Don Rodrigo intanto, che vedeva il padre Cristoforo sempre zitto e
fermo, senza segno d’impazienza o di fretta, avrebbe fatto volentieri a
meno di quel colloquio; ma congedare un cappuccino senza avergli dato
udienza, non era secondo la regola della sua politica. Poiché la
seccatura non si poteva evitare, si risolvette di affrontrla subito. S’alzò
da tavola, e con lui tutta la rubiconda brigata, senza interrompere il
chiasso. Chiesta poi licenza agli ospiti, si avvicinò in atto contegnoso
al frate, che si era subito alzato con gli altri e gli disse: «Eccomi ai
suoi comandi!»; e lo condusse in un’altra sala.
CAPITOLO VI
Il colloquio tra padre Cristoforo e don Rodrigo. – Don
Rodrigo, piantatosi in piedi nel mezzo della sala, chiese a padre
Cristoforo in che cosa potesse servirlo; ma il tono, con cui furono
proferite le parole, voleva dir chiaramente, bada a chi sei davanti, pesa
le parole e sbrigati.
Fu appunto questo tono, che diede coraggio al nostro
padre Cristoforo e gli fece venir sulle labbra più parole del necessario.
Temperò tuttavia le frasi, che gli si erano presentate alla mente, e
disse con guardinga umiltà che era venuto a proporre un atto di
giustizia, poiché certi uomini di mal affare avevano messo innanzi il
nome di don Rodrigo per far paura a un povero curato e soverchiare due
innocenti. Egli avrebbe potuto, con una parola, confondere coloro,
restituire al diritto la sua forza, e sollevare quelli a cui era stata
fatta una così crudele violenza….
Don Rodrigo lo interruppe con arroganza, ma padre
Cristoforo, appellandosi a quel Dio, al cui cospetto dobbiamo tutti
comparire, lo esortò a non ostinarsi a negare una giustizia così facile,
per non doversi un giorno pentire di non aver ascoltato la parola di un
ministro di Dio. Allora don Rodrigo ribattè con insolenza che aveva
capito che una fanciulla gli stava molto a cuore, e poiché il padre
credeva che egli potesse molto per lei, lo consigliò di metterla sotto la
sua protezione.
A questa proposta l’indignazione del frate,
trattenuta a stento fino allora, traboccò; e piantando in faccia a don
Rodrigo due occhi infiammati, gli rispose fieramente che quella innocente
era sotto la protezione di Dio, e che aveva compassione di quella casa,
sulla quale era sospesa la maledizione. «Verrà un giorno…».
Don Rodrigo, che era rimasto fin allora tra la rabbia e
la rabbia meraviglia, non trovando parole, quando sentì intonare quella
predizione s’aggiunse in lui alla rabbia un lontano e misterioso
spavento. Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando
la voce per troncare quella dell’infausto profeta, gridò: «Escimi di
tra i piedi, villano temerario, poltrone incappucciato». Così dicendo,
additò, con un gesto imperioso, un uscio in faccia a quello per cui erano
entrati; e il padre Cristoforo chinò il capo e se ne andò, lasciando don
Rodrigo a misurare, a passi infuriati, il campo di battaglia.
Il vecchio servitore. – Quando il frate ebbe
chiuso l’uscio dietro a sé, vide nell’altra stanza, in cui entrava,
un uomo ritirarsi pian piano, strisciando lungo il muro, come per non
essere veduto dalla stanza del colloquio; e riconobbe il vecchio
servitore, che era venuto a riceverlo alla porta di strada.
Costui era in quella casa forse da quarant’anni,
cioè prima che nascesse don Rodrigo, poiché vi era entrato al servizio
del padre, il quale era stato tutt’altra cosa. Morto lui, il nuovo
padrone, dando lo sfratto a tutta la famiglia, aveva trattenuta quel
servitore, sia perché già vecchia, sia perché, sebbene di massime e di
costume diversi, aveva un’alta opinione della dignità della casa e una
gran pratica del cerimoniale.
Il padre Cristoforo, passando, lo salutò; il vecchio
gli si accostò misteriosamente, mise un dito sulla bocca, e, fatto cenno
di seguirlo in un andito buio, gli disse che aveva sentito tutto, che
sapeva molte cose, e che si sarebbe recato l’indomani al convento per
riferirgli tutto ciò che avesse scoperto.
Uscito fuori, e voltate le spalle a quella casaccia,
padre Cristoforo respirò più liberamente, sebbene ancor tutto infuocato
in volto per quello che aveva sentito e per quello che aveva detto. Ma
quella così inaspettata esibizione del vecchio gli parve un filo che la
Provvidenza gli mettesse nelle mani in quella casa medesima, senza che
egli avesse sognato neppure di cercarlo. Allora, rimanendo ben poco del
giorno, affrettò il passo, per poter portare un avviso, qual si fosse, ai
suoi protetti, e arrivare al convento prima di notte, che era una delle
leggi più precise e più severamente mantenute dal codice cappuccinesco.
La proposta di Agnese. – Intanto nella casetta di
Lucia, dopo la partenza del frate, Agnese aveva maturato ed esposto un suo
progetto. Essa sapeva che, per fare un matrimonio, ci vuole bensì il
curato, ma non è necessario che voglia, basta che ci sia. Occorrono due
testimoni; si va dal curato, in modo da chiapparlo all’improvviso, che
non abbia tempo di scappare; l’uomo dice: signor curato, questo è mio
marito; se il curato sente, sei testimoni sentono, il matrimonio è bell’e
fatto.
Renzo accettò subito la proposta; ma Lucia, sentendo
che non bisognava parlarne a padre Cristoforo, perché «i religiosi
dicono che veramente è cosa che non istà bene», non ne fu molto
convinta.
Renzo in cerca di testimoni. - Renzo uscì in
fretta per procurarsi i due testimoni. Le tribolazioni aguzzano il
cervello, e il giovane, in questo caso, ne aveva immaginata una, da fare
onore ad un giureconsulto. Andò alla casetta di un certo Tonio, che era
lì poco distante, e lo trovò in cucina, che dimenava, col matterello
ricurvo, una piccola polenta bigia, di grano saraceno. La madre, un
fratello, la moglie, erano a tavola; e tre o quattro ragazzetti, ritti
accanto al babbo, stavano aspettando, con gli occhi fissi al paiolo che
venisse il momento di scodellare. Ma la mole della polenta era in ragione
dell’annata, e non del numero e della buona voglia dei commensali. Renzo
invitò Tonio ad andare a mangiare all’osteria, e la proposta fu
accettata con entusiasmo da lui e da tutti i familiari, i quali non videro
mal volentieri che si sottraesse alla polenta un concorrente, e il più
formidabile.
Giunti all’osteria del villaggio, e fatto portare
quel poco che si trovava e un boccale di vino, Renzo propose a Tonio di
pagargli un debito di venticinque lire, che egli aveva col curato per l’affitto
di un campo, e che il curato gli ricordava tutte le volte e che lo vedeva;
e Tonio, a sua volta, lieto di pagare il debito e di riavere la collana d’oro
della moglie, che aveva barattata con tanta polenta, s’impegnò di venir
a far da testimonio, portando con sé quel sempliciotto di suo fratello
Gervaso.
L’opposizione di Lucia. – Usciti dall’osteria,
Tonio s’avviò verso casa, studiando la fandonia che avrebbe raccontato
alle donne, e Renzo ritornò da Agnese e da Lucia per rendere loro conto
dei concerti presi.
Agnese s’incaricò di pensare a Perpetua, in modo da
allontanarla dalla casa del curato; ma Lucia non si lasciava smuovere,
perché non voleva sentir parlare di sotterfugi, di bugie, di finzioni.
Mentre la disputa continuava, e non pareva vicina a
finire, si sentì un calpestio affrettato di sandali e un rumore di tonaca
sbattuta. Agnese ebbe appena il tempo di sussurrare all’orecchio di
Lucia di non parlare del disegno da le proposto, che comparve padre
Cristoforo.
CAPITOLO VII
Padre Cristoforo ritorna alla casa di Lucia. – Padre
Cristoforo giunse alla casa di Lucia, portando la triste notizia che non c’era
nulla da sperare da quell’uomo. Le donne abbassarono il capo, ma nell’animo
di Renzo l’ira prevalse sull’abbattimento, tanto più che, in quel
momento, egli era esacerbato dalle ripulse di Lucia. Il frate tentò di
calmarlo, raccomandando la fiducia in Dio; poi, rivolgesi a tutti, disse
che sperava di aver in mano un filo per aiutarli: per questo motivo il
giorno dopo non avrebbe potuto muoversi dal convento, ed essi avrebbero
dovuto inviare da lui una persona fidata per sapere ciò che occorresse
fare. Detto questo, uscì in fretta, correndo quasi a saltelloni giù per
la viottola storta e sassosa, perché, se forre arrivato tardi al
convento, avrebbe corso il rischio di buscarsi una penitenza, che gli
avrebbe impedito il giorno dopo di trovarsi pronto a ciò che poteva
richiedere il bisogno dei suoi protetti.
Lucia acconsente al matrimonio per sorpresa. – Renzo,
rimasto solo con le donne, uscì allora in aperte minacce di uccidere don
Rodrigo. Lucia ne fu atterrita, e, per calmare l’ira del giovane, si
affrettò a promettere che sarebbe andata la sera dopo dal curato per fare
il matrimonio clandestino; né – osserva il Manzoni – si può dire se
essa fosse, in tutto e per tutto, malcontenta di essere stata spinta ad
acconsentire.
Era intanto sopraggiunta la notte, e Renzo dovette
congedarsi, poiché alle donne non pareva cosa conveniente che egli si
trattenesse più a lungo a quell’ora. Ma l’indomani si fece vedere di
buon’ora e concertò con Agnese la grande operazione della sera,
proponendo e sciogliendo a vicenda le eventuali difficoltà.
Agnese manda Menico da padre Cristoforo. – Agnese
andò poi a una casa vicina per cercare Menico, un ragazzetto di circa
dodici anni, che, per via di cugini e di cognati, veniva a essere un po’
suo nipote. Lo chiese ai parenti, come prestito, per tutto quel giorno,
gli diede la colazione, e lo mandò al convento, da padre Cristoforo,
facendogli molte raccomandazioni e promettendogli in premio alcune monete.
I falsi mendicanti. – Nel rimanente di quella
lunga mattinata si videro certe novità, che misero un poco in sospetto l’animo
già conturbato delle donne. Prima fu un mendico, che aveva un non so che
di oscuro e di sinistro nelle sembianze, il quale entrò a chiedere la
carità, dando in qua e in là certe occhiate da spione, e si trattenne
facendo molte domande, alle quali Agnese si affrettò a rispondere sempre
il contrario di quello che era. Quando andò via, finse di sbagliare l’uscio,
entrò in quello che metteva alla scala, e diede anche lì in fretta un’occhiata.
Dopo costui continuarono a farsi vedere di tempo in tempo altre strane
figure. Uno entrava col pretesto di farsi insegnare la strada; altri,
passando davanti all’uscio, rallentavano il passo, come chi vuol vedere
senza dare sospetto. Finalmente, verso mezzogiorno, quella fastidiosa
processione finì; ma nelle due donne rimase una non so quale
inquietudine, che levò loro, e principalmente a Lucia, una gran parte del
coraggio, che avevano messo in serbo per la sera.
Don Rodrigo medita il rapimento di Lucia. – Per
sapere chi erano questi ronzatori misteriosi, bisogna ritrovare don
Rodrigo, che abbiamo lasciato solo, in una sala del suo palazzotto, al
partire del padre Cristoforo.
Don Rodrigo, come abbiamo detto, misurava innanzi e
indietro, a passi lunghi, quella sala, dalle pareti della quale pendevano
ritratti di famiglia, di varie generazioni. Quando si trovava col viso a
una parete, e voltava, si vedeva in faccia un suo antenato guerriero,
terrore dei nemici e dei suoi soldati; quando gli era arrivato sotto, e
voltava, vedeva in faccia un altro antenato, magistrato, terrore dei
litiganti e degli avvocati; di qua una matrona, terrore delle sue
cameriere, di là un abate, terrore dei suoi monaci: tutta gente, insomma,
che aveva fatto terrore, e lo spirava ancora dalle tele.
Alla presenza di tali memorie, don Rodrigo non poteva
darsi pace che un frate avesse osato venirgli addosso. Formava un disegno
di vendetta, l’abbandonava, pensava come soddisfare insieme alla
passione e a ciò che chiamava onore; e talvolta, sentendosi fischiare
ancora negli orecchi quell’esordio di profezia, si sentiva venire, come
si dice, i bordoni, e stava quasi per deporre il pensiero delle due
soddisfazioni.
Finalmente, per far qualche cosa, si fece portar spada,
cappa, cappello, ordinò sei persone di seguito per la passeggiata, e
uscì più burbero, più superbioso, più accigliato del solito,
dirigendosi verso Lecco. Per passare un poco la mattana, e per
contrapporre all’immagine del frate immagini del tutto diverse, entrò
quel giorno in una casa, dove andava per il solito molta gente, e dove fu
ricevuto con quella rispettosa cordialità, che è riservata agli uomini
che si fanno molto amare o molto temere; e a notte già fatta tornò al
suo palazzotto.
La mattina seguente, l’apprensione che quel verrà
un giorno gli aveva messo in corpo, era svanita del tutto coi sogni
della notte; e gli rimaneva soltanto la rabbia, esacerbata anche dalla
vergogna di quella debolezza passeggera.
Appena alzato, fece chiamare il Griso, il capo dei
bravi, il fidatissimo del padrone, quello a cui si imponevano le imprese
più rischiose e più inique. Dopo aver ammazzato uno, di giorno, in
piazza, era andato ad implorare la protezione di don Rodrigo; e questo,
vestendolo della sua livrea, l’aveva messo al coperto da ogni ricerca
della giustizia. Don Rodrigo gli impose di rapire entro l’indomani
Lucia, e di portargliela al palazzo, ma senza farle nulla di male. Il
Griso promise che sarebbe fatto, e insieme concertarono la maniera di
condurre a fine l’impresa, d’imporre silenzio alla povera Agnese, d’incutere
a Renzo tale spavento, da fargli passare il dolore e il pensiero di
ricorrere alla giustizia, e tutte le altre bricconerie necessarie alla
riuscita della bricconeria principale.
La mattina fu spesa in giri per riconoscere il paese.
Quel falso pezzente, che s’era inoltrato a quel modo nella casetta, non
era altro che il Griso, il quale veniva per levarne a occhio la pianta; i
falsi viandanti erano i suoi ribaldi. Tornati poi al palazzotto, il Griso
rese conto di quanto era stato fatto, fissò definitivamente il disegno
dell’impresa, assegnò le parti e diede istruzioni.
Il vecchio servitore avverte padre Cristoforo. – Tutto
ciò non si poté fare, senza che quel vecchio servitore, che stava a
occhi aperti, non s’accorgesse che si macchinava qualche gran cosa.
Quando riuscì a venire in chiaro di ciò che si doveva eseguire quella
notte, il povero vecchio, benché capisse che rischioso gioco giocava, si
avviò in fretta al convento, per dare al padre Cristoforo l’avviso
promesso.
L’imboscata. – Intanto una piccola avanguardia
di bravi era andata ad imboscarsi in un casolare diroccato, fuori del
paese, poco distante dalla casetta di Lucia. Poco dopo altri bravi
discesero alla spicciolata, per non parere una compagnia; venne infine il
Griso, e non rimase indietro che una bussola (cioè una specie di
portantina), che doveva essere portata al casolare a sera inoltrata.
Radunati che furono in quel luogo, il Griso spedì tre dei suoi uomini all’osteria
del paesetto, per spiare se qualcosa ci fosse da spiare; mentre egli, col
grosso della truppa, rimase nell’agguato ad aspettare.
Renzo con Tonio e Gervaso all’osteria. – Il
povero vecchio servitore trottava ancora, i tre esploratori arrivavano al
loro posto e il sole cadeva, quando Renzo entrò dalle donne per
avvertirle che sarebbe andato all’osteria con Tonio e Gervaso a mangiare
un boccone e che all’avemaria sarebbe venuto a prenderle.
Quando Renzo e i due compagni giunsero all’osteria,
vi trovarono uno degli uomini del Griso, già piantato in sentinella, che
ingombrava il vano della porta come una cariatide; tanto che il giovane,
intento a schivare ogni questione, dovette passare per isbieco, col fianco
innanzi, e i due compagni dovettero fare la stessa evoluzione. Entrati,
videro gli altri due bravacci, che giocavano alla morra, con un gran
fiasco che era tra loro; e uno d’essi, tenendo una mano in aria,
squadrò Renzo da capo a piedi, e diede un’occhiata al compagno e a
quello dell’uscio, che rispose con un cenno del capo. Renzo insospettito
e incerto, domandò all’oste chi fossero quei forestieri, ma l’oste
non seppe o non volle dare una risposta precisa, limitandosi a dire che
erano dei galantuomini. A sua volta il bravo, che aveva squadrato il
nostro giovane, si accostò all’oste in cucina, e gli domandò
informazioni su Renzo e i suoi compagni, e l’oste, in questo caso, fu
molto più esplicito.
La cena non fu molto allegra. I due convitati avrebbero
voluto godersela con tutto loro comodo; ma Renzo, infastidito per lo
strano contegno di quegli sconosciuti, non vedeva l’ora di andarsene.
Appena uscito, s’accorse che i due, che aveva lasciati all’osteria, lo
seguivano. Si fermò allora coi suoi compagni, come se dicesse: vediamo
cosa vogliono da me costoro; ma i due, quando si accorsero di essere
osservati, si parlarono sottovoce e tornarono indietro.
Renzo, Tonio e Gervaso alla casetta di Lucia. – Cominciava
intanto quel brulichio, quel ronzio, che si sente in un villaggio, sulla
sera, e che, dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della
notte. Quando Renzo vide che i due indiscreti si erano ritirati, continuò
la sua strada nelle tenebre crescenti, dando sottovoce ora un
avvertimento, ora un altro ai due fratelli. Arrivarono alla casetta di
Lucia che era già notte.
Al picchiare sommesso di Renzo, Lucia fu assalita da
tanto terrore, che avrebbe voluto in quel momento soffrire ogni cosa,
piuttosto che eseguire quella risoluzione; ma quando Renzo si fu fatto
vedere ed ebbe detto: «Son qui, andiamo», Lucia non ebbe tempo né forza
di fare difficoltà, prese tremando un braccio della madre, un braccio del
promesso sposo, e si mosse con la brigata avventuriera.
Verso la casa di don Abbondio. – Zitti, zitti,
nelle tenebre, evitando di attraversare il paese per non essere visti, si
diressero, tra gli orti e i campi, verso la casa di don Abbondio. Qui
giunti, si divisero. I due promessi rimasero nascosti dietro l’angolo
della casa; Agnese rimase con loro, ma un po’ più innanzi, per
accorrere in tempo a fermare Perpetua; Tonio e Gervaso picchiarono alla
porta. Si affacciò alla finestra Perpetua, e Tonio le disse che aveva
appena riscosso dei denari e che era venuto a saldare il suo debito, prima
di mutar parere. Perpetua si diede a protestare che quella non era ora da
cristiani, ma poi corse ad avvertire il curato.
A questo punto Agnese, dopo aver fatto coraggio a
Lucia, si riunì ai due fratelli davanti all’uscio, e si mise a ciarlare
con Tonio, in modo che Perpetua, venendo ad aprire, dovesse credere che si
fosse abbattuta lì a caso e che Tonio l’avesse trattenuta un momento
CAPITOLO VIII
Carneade. - «Carneade! Chi era costui?», ruminava
tra sé don Abbondio, seduto sul seggiolone, con un libricciolo aperto
davanti, quanto Perpetua entrò a portargli l’ambasciata. Bisogna sapere
che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un
curato suo vicino, che aveva un po’ di libreria, gli prestava un libro
dopo l’altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava
in quel momento don Abbondio era un panegirico in onore di San Carlo, in
cui il santo era paragonato, per l’amore dello studio, ad Archimede, e
fin qui don Abbondio non trovava inciampo; ma, dopo Archimede, l’oratore
chiamava a paragone anche Carneade, e lì il lettore era rimasto arenato.
Proprio in quel momento entrò Perpetua ad annunziare la visita di Tonio.
Don Abbondio si meravigliò che l’ora indiscreta, ma persuaso che, se
non prendeva quel momento per riscuotere il credito, chissà quando se ne
sarebbe presentato un altro, disse di farlo entrare.
Agnese trattiene Perpetua. – Perpetua scese ad
aprire, ma, mentre Tonio entrava, venne avanti Agnese e salutò Perpetua
per nome. Poi disse che veniva da un paesello vicino, dove aveva trovato
una donna, la quale si ostinava ad affermare che Perpetua non si era mai
maritata con Beppe Suolavecchia e Anselmo Lunghigna perché non l’avevano
voluta, mentre era tutto il contrario. Questo argomento, che toccava un
debole di Perpetua, suscitò naturalmente le ire e le esclamazioni della
donna; e poiché di fronte alla casa di don Abbondio si apriva, tra due
casupole, una stradetta che, finite quelle, voltava in un campo, Agnese vi
si avviò come se volesse parlare più liberamente. Quando furono in
luogo, dove non si poteva più vedere ciò che accadesse dinanzi alla casa
di don Abbondio, Agnese tossì forte. Era il segnale. Renzo fece coraggio
a Lucia con una stretta di braccio, e tutt’e due in punta di piedi,
zitti, zitti, entrarono nell’andito, dove erano i due fratelli ad
aspettarli. Poi tutti salirono le scale, e, giunti sul pianerottolo, i due
fratelli entrarono nella stanza del curato.
Renzo e Lucia alla presenza di don Abbondio. – Don
Abbondio, dopo aver rimproverato Tonio per l’ora, prese le venticinque
berlinghe nuove, restituì la collana, che aveva nell’armadio e si
accinse a scrivere la ricevuta. Frattanto i due fratelli si piantarono
ritti davanti al tavolino, in modo d’impedire allo scrivente la vista
dell’uscio; e, come per ozio, andavano stropicciando coi piedi il
pavimento per far segno ai fidanzati di entrare, e per confondere nello
stesso tempo il rumore delle loro pedate. Renzo e Lucia entrarono pian
piano e si nascosero dietro ai due fratelli. Quando don Abbondio, finito
di scrivere, porse la ricevuta a Tonio, questi, allungando la mano per
prendere la carta, si ritirò da una parte; Gervaso, a un suo cenno, dall’altra;
e nel mezzo, come al dividersi di una scena, apparvero Renzo e Lucia. Ma
Renzo ebbe appena il tempo di dire: «Signor curato, in presenza di questi
testimoni, questa è mia moglie», e Lucia ebbe appena il tempo di
proferire: «E questo…», che don Abbondio, ghermito il tappeto del
tavolino, lo buttò sulla testa di Lucia, per impedirle di pronunziare
intera la formula.
Le grida di don Abbondio. – Poi, gettata a terra
la lucerna, che teneva nell’altra mano, si mise a gridare a
squarciagola: «Perpetua! Perpetua! Tradimento! aiuto!», e, trovato a
tastoni l’uscio che metteva a una stanza più interna, si rinchiuse in
quella, continuando a chiamare. Intanto nell’altra stanza tutto era
confusione. Renzo picchiava all’uscio, gridando: «Apra, apra; non
faccia schiamazzo»; Lucia chiamava Renzo con voce fioca; Tonio, carponi,
andava spazzando con le mani il pavimento, per vedere di raccapezzare la
sua ricevuta; Gervaso gridava e saltellava, cercando l’uscio della
scala. Don Abbondio, vedendo che il nemico non dava segno di ritirarsi,
aprì una finestra che dava sulla piazza della chiesa e si mise a gridare:
«Aiuto! aiuto!».
Il sacrestano suona a martello. – Ambrogio, il
sacrestano, che dormiva in un bugigattolo contiguo alla chiesa, si
svegliò a quel grido disordinato, mise fuori la testa, e, appreso da don
Abbondio che aveva gente in casa, trovò subito un espediente per dare un
aiuto al curato senza mettersi nel tafferuglio. Diede di piglio alle
brache, che teneva sul letto; se le cacciò sotto il braccio, come un
cappello di gala; e, precipitandosi nel campanile, afferrò la corda della
campana più grossa, suonando a martello.
I bravi nella casa di Lucia. – Ma quei rintocchi,
ancor prima di ridestare il paese, giunsero agli orecchi di altre persone,
che vegliavano non lontano, ritte e vestite: i bravi in un luogo, Agnese e
Perpetua in un altro.
Appena quei tre, che abbiamo lasciato all’osteria, si
accorsero che nel paese non c’era più anima viva, si avviarono al
casolare e fecero la loro relazione al Griso. Questi, indossato un abito
da pellegrino, s’incamminò con tutta la sua truppa verso la casetta di
Lucia. Visto che tutto era deserto e tranquillo, diede ordine ai due bravi
di scalare il muro, che chiudeva il cortiletto, e di nascondersi in un
angolo, dietro un folto fico. Ciò fatto, picchiò pian piano, con l’intenzione
di dirsi un pellegrino smarrito, che chiedeva ricovero. Nessuno rispose:
ripicchiò un po’ più forte; nemmeno uno zitto. Allora fece calare nel
cortile un terzo malandrino, con l’ordine di sconficcare adagio il
paletto, per aver libero l’ingresso e la ritirata. Entrò poi con gli
altri bravi, che mandò a nascondersi accanto ai primi; accostò adagio
adagio l’uscio di strada, ponendo due sentinelle di dentro; e picchiò
all’uscio del piano terreno. Anche qui nessuno rispose. Sconficcò pian
piano anche all’uscio, entrò nella stanza con quei due che aveva
lasciato dietro il fico, accese un suo lanternino, entrò in un’altra
stanza più interna, ma non trovò nessuno. Andò allora all’uscio di
scala, si fece venir dietro il Grignapoco, che era un bravo del contrado
di Bergamo e che col suo linguaggio avrebbe dovuto far credere che la
spedizione veniva da quella parte, e salì il piano superiore. Spinse
mollemente l’uscio che metteva alla prima stanza, vide un letto, ma
vuoto; andò nell’altra stanza, ma trovò la stessa cosa.
Il ritorno di Menico. – Mentre costoro erano in
tali faccende, i due, che facevano la guardia all’uscio di strada,
sentirono un calpestìo di passi frettolosi, che si fermarono appunto all’uscio.
Era Menico, che veniva di corsa, mandato da padre Cristoforo ad avvertire
le due donne che scappassero subito di casa e si rifugiassero al convento.
Appena egli mise il piede dentro, si sentì acchiappare per le braccia,
mentre due voci gli dicevano in tono minaccioso: «Zitto! o sei morto».
Il ragazzetto cacciò un urlo, ma tutto a un tratto, invece di lui, e con
ben altro tono, si fece sentire quel primo tocco di campana, a cui seguì
una tempesta di rintocchi in fila. I due furfanti, ai quali parve di
sentire in quei tocchi il loro nome, cognome e soprannome, lasciarono
andare le braccia a Menico, che si recò a gambe levate alla volta del
campanile.
Agli altri furfanti, che frugavano la casa, quei
terribili tocchi fecero la stessa impressione. Ci volle tutta la
superiorità del Griso a tenerli insieme, tanto che fosse ritirata e non
fuga. Dopo averli brevemente biasimati per la loro paura, lasciò la casa,
che era in fondo al villaggio, e tutti gli andarono dietro in buon ordine.
Perpetua si libera da Agnese. – Agnese aveva
cercato di tener a bada Perpetua il più che fosse possibile; e, fino a un
certo punto, la cosa era andata bene. Ma tutt’a un tratto Perpetua si
era ricordata dell’uscio rimasto aperto e aveva voluto tornare indietro.
Agnese, per non farle nascere qualche sospetto, aveva dovuto seguirla,
cercando però di trattenerla, ogni volta che la vedesse riscaldata ben
bene nel racconto. Così, a corserelle e fermatine, erano giunte poco
distante dalla casa del curato, quando, tutt’a un tratto si sentì, nell’ampio
silenzio della notte, quel primo sgangherato grido di don Abbondio:
«Aiuto! aiuto!». Perpetua prese la rincorsa, invano trattenuta da
Agnese, quando più lontano, più acuto, più istantaneo, si sentì l’urlo
di Menico, e, poco dopo, scoccò la campana. Perpetua, mentre spalancava l’uscio,
si vide comparire sulla soglia Tonio, Gervaso, Renzo e Lucia, che
correvano a mettersi in salvo, e, non ottenendo risposta alle sue domande
di sorpresa, corse, come poteva al buio, verso la scala. Agnese, a sua
volta, si trovò di fronte i due sposi, rimasti promessi, e tutti, prima
che la gente accorresse, si avviarono affannati verso casa. Ma ecco
arrivare Menico di corsa, che, ancor tutto tremante, gridò loro che vi
era il diavolo in casa e che padre Cristoforo li voleva subito al
convento. Così tutti e quattro, attraverso i campi, si incamminarono in
fretta verso Pescarenico.
Il popolo in piazza. – Intanto la gente cominciò
ad accorrere sulla piazza. Quando il sacrestano fu assicurato dal ronzio
che era accorso molto popolo, si mise in fretta l’arnese che aveva
portato sotto il braccio, aprì la porta della chiesa, e disse che vi era
gente in casa del curato. Tutti si volsero allora verso quella casa, ma,
vedendo tutto quieto, cominciarono a chiamare a gran voce il curato. Don
Abbondio, che in quel momento stava a bisticciare sotto voce con perpetua,
che l’aveva lasciato solo in quell’imbroglio, dovette, quando si
sentì chiamare a voce di popolo, affacciarsi alla finestra per
ringraziare gli accorsi ed esortarli a ritornare a casa.
Il popolo alla casetta di Lucia. – Già la gente
si allontanava, quando arrivò uno tutto trafelato, il quale, abitando
dirimpetto alle nostre donne, aveva visto nel cortiletto quello scompiglio
dei bravi, mentre il Griso si affannava a raccoglierli. Egli si mise a
gridare che il diavolo era nella casa di Agnese, dove gente armata pareva
volesse ammazzare un pellegrino. Poco dopo arrivò un altro, gridando anch’egli
che dei ladri scappavano con un pellegrino. A questo avviso, tutti si
mossero verso la casetta, dove trovarono le tracce dell’invasione
fresche e manifeste. Alcuni proposero di inseguire i rapitori, ma uno
gettò la voce che Agnese e Lucia si erano messe in un’altra casa. La
voce ottenne credenza, e la folla si sparpagliò, andando ognuno a casa
sua.
Al mattino il console, mentre vangava nel suo campo,
vide venirsi incontro due uomini, somigliantissimi a quei due che cinque
giorni prima avevano affrontato don Abbondio, i quali gli intimarono che
si guardasse bene dal far deposizione al podestà dell’accaduto, se
aveva cara la speranza di morir di malattia.
Verso il convento di Pescarenico. – I nostri
fuggiaschi camminarono un pezzo di buon trotto e in silenzio, nell’apprensione
confusa del nuovo oscuro pericolo. Quando non sentirono più i rintocchi,
rallentarono il passo, e domandarono a Menico cosa fosse quel diavolo in
casa. Gli ascoltatori compresero più di quel che il ragazzo avesse saputo
dire, e si guardarono in viso spaventati. Agnese, rammentandosi delle sue
parpagliole promesse, se ne levò quattro di tasca; Renzo gli diede una
berlina nuova, raccomandandogli molto di non dire nulla della commissione
avuta dal frate; Lucia l’accarezzò di nuovo, e il ragazzo salutò tutti
e tornò indietro. Quelli ripresero la loro strada, e poco dopo sboccarono
sulla piazzetta davanti alla chiesa del convento.
Padre Cristoforo indirizza Lucia a Monza e Renzo a
Milano. – Renzo sospinse la porta e gli apparve padre Cristoforo,
che stava in aspettativa. Quando il padre vide i tre fuggiaschi,
ringraziò Dio e li fece entrare, nonostante che fra Fazio, il laico
sagrestano, si opponesse ad introdurre, contro la regola, delle donne in
chiesa di notte. Ma padre Cristoforo gli troncò in bocca ogni
osservazione con la frase latina: «Omnia munda mundis», che a
quello, che non intendeva il latino, suonò tanto solenne quanto oscura.
Padre Cristoforo spiegò ai fuggiaschi ciò che aveva
fatto accennare dal piccolo messo, supponendo che Menico li avesse trovati
tranquilli in casa, prima che arrivassero i malandrini. Nessuno di essi lo
disingannò, nemmeno Lucia, poiché quella era la notte degli imbrogli e
dei sotterfugi. Poi il frate, rivolgendosi alle donne, disse che aveva
trovato per esse un rifugio a Monza, e diede loro una lettera per il padre
guardiano del convento di quella città; e, rivolgendosi a Renzo, gli
consegnò una lettera per il padre Bonaventura da Lodi, nel convento dei
cappuccini di Porta Orientale in Milano. Aggiunse loro di recarsi alla
riva del lago, presso lo sbocco del Bione, dove avrebbero trovato una
barca che li avrebbe portati all’altra riva, e, qui giunti, un baroccio
che li avrebbe portati a destinazione.
Prima di partire, il padre Cristoforo volle che tutti
pregassero Dio, perché li assistesse nel viaggio e desse loro forza a
sopportare ciò che Egli avesse voluto. Volle pure che pregassero per don
Rodrigo, che li aveva condotti a quel passo.
Dopo aver pregato, i viaggiatori uscirono di chiesa, s’avvicinarono
alla riva che era stata loro indicata, entrarono nella barca, e presero il
largo verso la riva opposta.
Addio monti! – Non tirava un alito di vento. I
passeggeri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti e
il paese rischiarato dalla luna e variato qua e là di grandi ombre. Lucia
vide, rabbrividendo, il palazzotto di don Rodrigo, che sembrava vegliasse,
meditando un delitto; scoprì la sua casetta, con la chioma folta del fico
che sopravanzava il muro del cortile; e posando la fronte sul braccio,
come per dormire, pianse segretamente.
Essa diede un accorato addio ai suoi monti e alla sua
terra, pur confidando che Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se
non per prepararne loro una più certa e più grande.
CAPITOLO IX
I fuggiaschi sull’altra riva. – I tre
fuggiaschi, giunti sull’altra riva, resero tristemente grazie al
barcaiolo, che ritirò la mano, quasi con ribrezzo, quando Renzo cercò di
fargli sdrucciolare una parte dei denari che si trovava indosso, e che
avrebbe voluto regalare a don Abbondio, dopo che questo, suo malgrado,
avesse celebrato le nozze. Il baroccio era lì pronto, il conduttore li
fece salire, diede una voce alla bestia, e si mosse.
Arrivo a Monza. – I nostri viaggiatori arrivarono
a Monza, poco dopo il levar del sole; il barocciaio entrò in un’osteria
e fece assegnar loro una stanza; Renzo tentò di fargli ricevere del
denaro, ma inutilmente. Fecero colazione come permetteva la penuria dei
temi, i mezzi scarsi e il poco appetito, mentre passava ad essi per la
mente il banchetto che due giorni prima aspettavano di fare. Renzo avrebbe
voluto fermarsi lì, almeno tutto quel giorno; ma il padre aveva
raccomandato alle donne di mandarlo subito per la sua strada, e il giovane
a malincuore si risolvette di partire.
Agnese e Lucia al convento dei cappuccini. – Agnese
e Lucia si avviarono col barocciaio al convento dei cappuccini. Il
barocciaio fece chiamare il padre guardiano e gli consegnò la lettera di
padre Cristoforo. Il padre guardiano, nel leggerla, faceva di tanto in
tanto atti di sorpresa e di indignazione; e, alzando gli occhi dal foglio,
li fissava sulle donne con una certa espressione di pietà e d’interesse.
Finito ch’ebbe di leggere, disse che le avrebbe accompagnate dalla
«Signora», che sola avrebbe potuto prendersi quell’impegno, e invitò
le donne a seguirlo, ma ad alcuni passi di distanza, per evitare le
chiacchiere della gente.
Le donne domandarono allora al barocciaio chi fosse la
signora, ed appresero che era una monaca, ma non una monaca come le altre,
perché figlia del più grande signore di Monza, onde poteva far alto e
basso nel monastero, e, quando prendeva un impegno, le riusciva anche di
spuntarlo.
Giunti al monastero, il padre guardiano pregò il
barocciaio che tra un paio d’ore tornasse da lui a prendere la risposta
per il padre Cristoforo; poi, dopo aver fatto entrare la madre e la figlia
nelle camere della fattoressa, andò solo a chiedere la grazia. Trascorso
qualche tempo, ricomparve giulivo, diede qualche avvertimento alle donne
sul modo di portarsi con la signora, e le accompagnò nel parlatorio, dove
videro, dietro una grata di ferro, una monaca ritta, che poteva mostrare
venticinque anni.
Le due donne alla presenza della Monaca di Monza. – L’aspetto
della monaca faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una
bellezza sbattuta, sfiorita, e quasi scomposta. La fronte si raggrinziva
spesso, come per una contrazione dolorosa; gli occhi neri si fissavano
talora in viso alle persone con un’investigazione superba; le gote
pallidissime sembravano come alterate da una lenta estenuazione: le
labbra, appena tinte d’un roseo sbiadito, avevano moti subitanei, vivi,
pieni di espressione e di mistero. Anche il modo di vestire annunziava una
monaca singolare, poiché la vita era attillata con una certa cura
secolaresca, e dalla benda usciva su una tempia una ciocchettina di neri
capelli.
Il guardiano presentò le due donne, e spiegò alla
signora che Lucia era stata costretta a partire di nascosto dal suo paese
per sfuggire a un cavaliere prepotente, e che aveva bisogno per qualche
tempo di un asilo sicuro. Allora la signora fece accostare Lucia, e le
domandò, con una cert’aria di dubbio maligno, se quel cavaliere era un
persecutore odioso; ma la povera ragazza balbettò appena qualche parola
senza avere il coraggio di proseguire. Agnese si credette autorizzata a
venirle in aiuto, ma la signora la interruppe bruscamente, biasimandola di
parlare senza essere interrogata. Lucia confermò il racconto della madre,
e la signora disse di crederle, ma che si riservava il piacere di sentirla
da solo a solo. Poi aggiunse che, essendosi maritata l’ultima figlia
della fattoressa, le due donne avrebbero potuto occupare la camera
lasciata in libertà da quella e supplire a quei pochi servizi che faceva
lei: licenziò Agnese, accomiatò il guardiano, e ritenne Lucia, cui fece
strani discorsi.
Storia della Monaca di Monza. – La signora era l’ultima
figlia del principe ***, gran gentiluomo milanese, che, per l’alta
opinione che aveva del suo titolo, temeva che le sue sostanze fossero
appena sufficienti, anzi scarse, a sostenere il decoro. Aveva perciò
destinato al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per
lasciare intatta la sostanza al primogenito, destinato a continuar la
famiglia. Quando nacque la nostra infelice, il principe, volendo darle un
nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, la chiamò
Gertrude. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le diedero
in mano; poi santini che rappresentavano monache. Quando i genitori e il
fratello primogenito solevano lodare l’aspetto prosperoso della
fanciullona, le dicevano: «Ce madre badessa!». Se qualche volta la
Gertrude trascorreva a qualche atto un po’ arrogante e imperioso, le si
diceva: «Queste maniere non ti convengono: quando sarai madre badessa,
allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso».
A sei anni è rinchiusa nel monastero di Monza. – A
sei anni Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per
istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l’abbiamo
veduta, perché il padre, essendo il feudatario di Monza, pensò che lì
sua figlia sarebbe stata trattata con quelle distinzioni e con quelle
finezze che potessero più allettarla a scegliere quel monastero per la
sua perpetua dimora. Né s’ingannava, poiché la badessa e alcune
monache corrisposero pienamente elle intenzioni che il principe aveva
lasciato trasparire. Gertrude, appena entrata nel monastero, fu chiamata
la signorina e fu fatta oggetto di attenzioni e di premure di ogni genere.
Ma Gertrude non era la sola ragazza in quel monastero.
Tra le sue compagne ve n’erano alcune che sapevano di essere destinate
al matrimonio, e perciò, mentre Gertrude, nutrita nelle idee della sua
superiorità, parlava magnificamente dei suoi destini futuri di badessa,
quelle contrapponevano le immagini varie e luccicanti di nozze, di pranzi,
di conversazioni, di festini, di villeggiatura, di vestiti, di carrozze.
Queste immagini cagionarono nel cervello di Gertrude quel brulichio che
produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, messi davanti ad un
alveare. Essa rispondeva che, alla fin dei conti, nessuno avrebbe potuto
costringerla a farsi monaca senza il suo consenso e che anche lei poteva
maritarsi.
La supplica al vicario delle monache. – Era legge
che una giovane non potesse venire accettata monaca, prima d’essere
stata esaminata da un ecclesiastico, chiamato il vicario delle monache,
affinché fosse certo che si chiudeva nel monastero di sua libera scelta;
e questo esame non poteva aver luogo se non un anno dopo che essa avesse
esposto a quel vicario il suo desiderio con una supplica in iscritto.
Quelle monache che avevano preso il tristo incarico di far che Gertrude si
obbligasse per sempre, colsero un momento propizio per farle sottoscrivere
una tal supplica, dicendole che si trattava (come si trattava di fatto) di
una pura formalità. Con tutto ciò, la supplica non era forse ancor
giunta al suo destino, che Gertrude s’era pentita di averla
sottoscritta.
Il mese fuori dal monastero e la lettera al padre. – C’era
poi un’altra legge, che una giovane non fosse ammessa a quell’esame
della vocazione, se non dopo aver dimorato almeno un mese fuori dal
monastero, dove era stata in educazione. Anche Gertrude, trascorso l’anno
da che la supplica era stata mandata, doveva essere levata dal monastero e
condotta nella casa paterna, per rimanervi quel mese e far tutti i passi
necessari al compimento dell’opera che aveva di fatto cominciata. Ma la
giovane aveva tutt’altro in testa, e, in tali angustie, risolvette di
aprirsi con una delle sue compagne, che le suggerì d’informare con una
lettera il padre della sua nuova risoluzione. Ma Gertrude aspettò invano
una risposta. Se non che, alcuni giorni dopo, la badessa la fece venire
nella sua cella, e, con un contegno di mistero, le accennò oscuramente a
una gran collera del principe per un fallo che essa doveva aver commesso,
lasciandole però intendere che, portandosi bene, poteva sperare che tutto
sarebbe dimenticato.
Venne finalmente il giorno tanto temuto e bramato, nel
quale Gertrude dovette lasciare il monastero per ritornare temporaneamente
nel palazzo paterno. I giorni passavano senza che il padre né altri le
parlasse della supplica, né della ritrattazione. I parenti erano seri,
tristi, burberi con lei, senza mai dire il perché. Si vedeva solamente
che la riguardavano come una rea, come un’indegna. Se implorava un po’
d’amore, si sentiva subito toccare, in maniera indiretta ma chiara, quel
tasto della scelta dello stato; le si faceva copertamente sentire che c’era
un mezzo per riacquistare l’affetto della famiglia.
Lo sciagurato biglietto al paggio. – Ma Gertrude
si accorse che, mentre dalla servitù era trattata con noncuranza,
accompagnata da un leggero ossequio di formalità, un paggio le portava un
rispetto e sentiva per lei una compassione di un genere particolare. Essa
mostrò un non so che di nuovo nelle sue maniere, così che le furono
tenuti gli occhi addosso più che mai. Una mattina fu sorpresa da una
cameriera, mentre stava piegando alla sfuggita una carta, sulla quale
avrebbe fatto meglio a non scrivere nulla. La carta rimase nelle mani
della donna, e da queste passò in quelle del principe, che, dopo poche ma
terribili parole, le intimò di star chiusa in quella camera sotto la
guardia della cameriera che aveva fatto la scoperta, e le minacciò un
altro castigo oscuro, indeterminato, e quindi più spaventoso. Il paggio
fu subito sfrattato, e fu minacciato anche lui di qualcosa di terribile se
avesse osato parlare dell’accaduto.
Gertrude implora il perdono del padre. – Gertrude
rimase col batticuore, con la vergogna, col rimorso, col terrore dell’avvenire,
e con la sola compagnia di quella donna che era stata cagione della sua
disgrazia. Il solo castello, nel quale poteva immaginare un rifugio
tranquillo e onorevole, e che non fosse in aria, era il monastero, quando
si fosse risolta di entrarvi per sempre. Dopo quattro o cinque giorni di
prigionia, essa, stuccata e invelenita all’eccesso per un dispetto della
guardiana, sentì il bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire
altre parole, di essere trattata diversamente. Allora riprese quella penna
fatale, scrisse al padre una lettera piena d’entusiasmo e d’abbattimento,
d’afflizione e di speranza, implorando il perdono, e mostrandosi
indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi doveva
accordarlo.
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