CAPITOLO XX
Il castello dell’Innominato. – Il castello dell’Innominato
era a cavaliere di una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che
sporgeva in fuori da un’aspra giogaia di monti. La parte che guardava la
valle era la sola praticabile. Dall’alto del castellaccio, come l’aquila
dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto
lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di
sopra di sé, né più in alto.
Nel mezzo della valle, a piè del poggio, all’imboccatura
di un erto e tortuoso sentiero, c’era una taverna, che era chiamata la
Malanotte. Quando don Rodrigo vi giunse, smontò da cavallo, si levò lo
schioppo (poiché sapeva che su quell’erta non era permesso procedere
armati), diede alcuni scudi d’oro al capo dei bravi di guardia perché ne
facesse parte ai suoi uomini, e, accompagnato dal solo Griso, cominciò a
piedi la salita.
Don Rodrigo s’incontra con l’Innominato. – Arrivato
al castello, fu fatto passare per un andirivieni di corridoi bui, e per varie
sale tappezzate di moschetti, di sciabole e di partigiane, e, dopo aver
alquanto aspettato, fu ammesso in quella dove si trovava l’Innominato.
Questi gli andò incontro, rendendogli il saluto. Era grande, bruno, calvo;
bianchi i pochi capelli che gli rimanevano, rugosa la faccia: a prima vista
gli si sarebbe dato più di sessant’anni che aveva, ma il contegno, le
mosse, la durezza risentita dei lineamenti, il lampeggiar sinistro, ma vivo
degli occhi, indicavano una forza di corpo e d’animo, che sarebbe stata
straordinaria in un giovane.
Don Rodrigo disse che, trovandosi in un impegno difficile,
dal quale il suo nome non gli permetteva di ritirarsi, s’era ricordato delle
promesse di quell’uomo, che non prometteva mai troppo, né invano; e si fece
ad esporre il suo scellerato imbroglio. Sapendo poi con chi parlava, si mise
ad esagerare le difficoltà dell’impresa: la distanza del luogo, un
monastero, la signora! A questo punto l’Innominato, come se un demonio
nascosto nel suo cuore glielo avesse comandato, l’interruppe subitamente,
dicendo che prendeva l’impresa sopra di sé. Prese l’appunto del nome di
Lucia e licenziò don Rodrigo, assicurando che tra poco avrebbe ricevuto da
lui l’avviso di quello che avrebbe dovuto fare.
L’Innominato era infatti amico di quello sciagurato
Egidio, che abitava accanto al monastero dove Lucia era stata ricoverata; e
perciò egli aveva lasciato correre così prontamente e risolutamente la sua
parola.
L’Innominato si pente d’aver dato la sua parola. – Ma
appena rimase solo, l’Innominato si trovò non pentito, ma indispettivo di
averla data. Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso,
una certa uggia delle sue scelleratezze. E, cosa notabile, l’immagine della
morte, che, in un pericolo vicino, a fronte d’un nemico, soleva raddoppiare
gli spiriti di quell’uomo, quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio
della notte, nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una
costernazione repentina. Gli rinasceva ogni tanto nell’animo l’idea
confusa, ma terribile, d’un giudizio invidiale, d’una ragione indipendente
dall’esempio. Quel Dio, di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo,
non si curava di negare, né di riconoscere, occupato soltanto a vivere come
se non ci fosse, ora, in certi momenti d’abbattimento senza motivo, di
terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridare dentro di sé: Io sono
però. Ma non che aprirsi con nessuno su questa sua nuova inquietudine, la
mascherava con l’apparenza d’una più cupa ferocia.
L’Innominato incarica il Nibbio di rapire Lucia. – Appena
partito don Rodrigo, sentendo a poco a poco venirsi innanzi nella mente
pensieri che lo tentavano di mancare a quella parola, chiamò il Nibbio, uno
dei più destri ed arditi ministri delle sue enormità, e gli comandò di
recarsi subito a Monza per informare Egidio dell’impegno contratto e per
richiedere il suo aiuto. Il messo fu presto di ritorno con la risposta di
Egidio: che l’impresa era facile e sicura; che gli si mandasse subito una
carrozza, con due o tre bravi ben travestiti, e che lui prenderebbe la cura di
tutto il resto e guiderebbe la cosa. A questo annunzio l’Innominato diede
ordine in fretta al Nibbio, che disponesse tutto secondo quanto aveva detto
Egidio e andasse con altri due bravi alla spedizione.
Egidio impone la sua volontà a Gertrude. – Egidio
aveva potuto rispondere a quel modo perché in quell’asilo stesso, dove
pareva che tutto dovesse essere di ostacolo, aveva un mezzo noto a lui solo.
Egli impose a Gertrude, con quella voce che aveva acquistato autorità dal
delitto, il sacrificio dell’innocente che essa aveva in custodia. La
sventurata tentò tutte le strade per esimersi dall’orribile comando, ma non
osò ribellarsi interamente, e ubbidì.
Il rapimento di Lucia. – Nel giorno stabilito, all’ora
convenuta, Gertrude disse a Lucia che aveva bisogno di parlare subito con quel
padre guardiano dei cappuccini, che l’aveva condotta al monastero, e che era
necessario che nessuno sapesse che l’aveva mandata a chiamare lei, e che non
aveva che essa per far segretamente l’ambasciata.
Lucia fu atterrita per una tale richiesta e addusse subito,
per disimpegnarsene, le ragioni che la signora avrebbe dovuto prevedere: senza
la madre, senza nessuno, per una strada solitaria in un paese sconosciuto…..
Ma Gertrude, ammaestrata a una scuola infernale, mostrò tanto dispiacere per
una tale ritrosia, che la poverina finì per acconsentire. Quando Lucia mise
piede sulla soglia, Gertrude, come sopraffatta da un sentimento irresistibile,
la richiamò, ma, cinta subito da un altro pensiero avvezzo a predominare,
fece vista di non essere contenta delle istruzioni già date, le spiegò di
nuovo la strada che doveva tenere, e la licenziò. Lucia passò inosservata la
porta del chiostro; prese la strada, con gli occhi bassi, rasente al muro;
trovò la porta del borgo, si avviò per la strada maestra, e arrivò in pochi
momenti a quella che conduceva al convento. La giovane, vedendola affatto
solitaria, sentì crescere la paura e allungò il passo; ma poco dopo si
rincuorò, nel vedere una carrozza da viaggio ferma, e accanato a quella,
davanti allo sportello aperto, due viaggiatori che guardavano in qua e in là,
come incerti della strada. Quando arrivò alla carrozza, uno di quei due le
chiese la strada per Monza, ma, mentre essa si volgeva per indicare la giusta
direzione, l’altro compagno (era il Nibbio) l’afferrò improvvisamente per
la vita, l’alzò da terra e la mise per forza nella carrozza.
Lucia verso il castello dell’Innominato. – Un bravo
le si sedette dinanzi, un altro con un fazzoletto alla bocca le impedì di
gridare, e la carrozza partì di carriera. Chi potrà descrivere il terrore, l’angoscia
dell’infelice, esprimere ciò che passava nel suo animo? Spalancava gli
occhi spaventati e li richiudeva subito, per il ribrezzo e per il terrore di
quei visacci; si torceva, ma era tenuta da tutte le parti; apriva la bocca per
cacciare un urlo, ma il fazzoletto veniva a soffocarglielo in gola. Dopo
qualche momento d’una lotta così angosciosa, allentò le braccia, lasciò
cadere la testa all’indietro, le fuggì il colore dal viso, s’abbandonò e
svenne. Quando aprì gli occhi, tentò ancora di buttarsi verso lo sportello,
ricorse alle preghiere, ma, vedendo che tutto era inutile, si strinse nel
canto della carrozza, tirò fuori la corona, e cominciò a dire il rosario con
più fede e con più affetto che non avesse ancor fatto in vita sua.
L’Innominato in attesa della carrozza di Lucia. – Intanto
l’Innominato, da un’alta finestra del suo castellaccio, aspettava con un’inquietudine,
con una sospensione d’animo insolita. Quando vide spuntare la carrozza, che
veniva innanzi lentamente, avrebbe voluto liberarsi della giovane e ordinare
al Nibbio che voltasse e conducesse colei al palazzo di don Rodrigo. Ma un
«no» imperioso, che gli risuonò nella mente, fece svanire quel disegno.
Chiamò invece una vecchia donna, nata e vissuta in quel castello, e le
ordinò di far allestire subito una bussola e di andar con essa alla Malanotte,
incontro alla carrozza del Nibbio. Essa avrebbe dovuto prendere con sé la
giovane, condurla nella sua camera e farle coraggio. Partita la vecchia, l’Innominato
si fermò ancora alla finestra e con gli occhi fissi sulla carrozza, poi si
ritirò e si mise a camminare innanzi e indietro per la stanza, con un passo
di viaggiatore frettoloso.
CAPITOLO XXI
La vecchia va incontro a Lucia alla Malanotte. – La
vecchia si recò subito alla Malanotte, e, appena arrivò la carrozza, uscì
dalla bussola, riferì al Nibbio gli ordini del padrone, e invitò Lucia a
venire con sé, dicendole che aveva ordine di trattarla bene e di farle
coraggio.
La poverina fu presa e messa nella bussola, mentre il
Nibbio prese speditamente la salita per accorrere ai comandi del padrone.
Il Nibbio riferisce all’Innominato. – Giunto alla
presenza dell’Innominato, il Nibbio disse che tutto era andato a puntino, ma
che avrebbe avuto più piacere che l’ordine fosse stato di dare una
schioppettata nella schiena a quella giovane piuttosto che sentirla parlare e
vederla in viso, perché gli aveva fatto troppa compassione. L’Innominato,
udendo ciò, rimase stupito, si rimproverò di essere stato una bestia a
impegnarsi, ordinò al Nibbio di recarsi in fretta da don Rodrigo per mandare
a prendere la ragazza, ma un altro «no» interno, più imperioso del primo,
gli proibì di finire e mandò il bravo a dormire.
L’Innominato visita Lucia. – Poi, ripensando fra
sé a quella compassione che Lucia aveva destato nel cuore del Nibbio, si
decise di andarla a vedere, e, d’una stanza in un’altra, trovò una
scaletta e giunse alla camera della vecchia. Vide, al lume di una lanterna che
ardeva su un tavolino, Lucia rannicchiata per terra, nel cantuccio più
lontano dall’uscio; e, rimproverata la vecchia con un cipiglio iracondo,
ordinò alla giovane di alzarsi. Lucia si rizzò in ginocchioni e supplicò
che la riportassero da sua madre, poiché «Dio perdona tante cose, per un’opera
di misericordia». L’Innominato, con una dolcezza che fece trasecolare la
vecchia, esortò la prigioniera a farsi coraggio, poiché nessuno la farebbe
del male; e le annunziò che sarebbe ritornato all’indomani e che una donna
avrebbe portato da mangiare.
Poco dopo venne una donna con un paniere di cibi, ma, per
quanto la vecchia usasse le parole più efficaci, secondo lei, a far venire l’appetito,
Lucia si rifiutò di mangiare. La vecchia insistette anche affinché Lucia si
mettesse a letto, ma, non ottenendo nulla, ci si mise lei bell’e vestita.
Il voto di Lucia. – Lucia stette immobile nel suo
cantuccio, tutta in un gomitolo, col viso nascosto nelle mani. Non era il suo
né sonno né sveglia, ma una torbida vicenda di pensieri, di immaginazioni,
di spaventi. Tutt’a un tratto si riscosse, come ad una chiamata interna,
rammentò che poteva pregare, prese di nuovo la sua corona e incominciò a
dire il rosario. Poi le passò per la mente un altro pensiero: che la sua
orazione sarebbe stata più accettata e più certamente esaudita, se, nella
sua desolazione, facesse qualche offerta. Si ricordò di quello che aveva di
più caro, e, postasi in ginocchio, tenendo giunte al petto le mani, dalle
quali pendeva la corona, fece voto alla Vergine santissima di rinunziare per
sempre a Renzo e di consacrarsi per sempre a Lei.
Proferite queste parole, abbassò la testa, si mise la
corona intorno al collo, quasi come un segno di consacrazione, come un’armatura
della nuova milizia a cui si era iscritta. Rimessasi a sedere in terra, sentì
entrare nell’animo una certa tranquillità, una più larga fiducia, e
finalmente, già vicino a giorno, s’addormentò d’un sonno perfetto e
continuo.
La notte dell’Innominato. – Anche l’Innominato
avrebbe voluto fare altrettanto, ma non poteva. Partito, o quasi scappato da
Lucia, si era chiuso in fretta in camera, come se avesse avuto a trincerarsi
contro una squadra di nemici, e, spogliatosi, era andato a letto. Ma l’immagine
di Lucia, più che mai presente, pareva che in quel momento gli dicesse: tu
non dormirai.
Si rammaricava di essere andato a vedere la giovane e di
essersi lasciato commuovere; si richiamava alla memoria più d’un caso in
cui né preghi né lamenti, non l’avevano punto smosso dal compiere le sue
risoluzioni, ma le rimembranza di tali imprese destava nel suo animo una
specie di terrore, una rabbia di pentimento.
Poi pensava che tutti questi pensieri che gli passavano per
la mente erano sciocchezze, ma, per quanto cercasse di liberarsene, non trovò
mezzo alcuno.
Se volle trovare un po’ di sollievo, dovette pensare che
all’indomani avrebbe potuto lasciare in libertà quella poveretta; ma, d’altra
parte, si ricordò di don Rodrigo e dell’impegno preso con lui.
Ciò gli fornì l’occasione per ingolfarsi nell’esame
di tutta la sua vita. Indietro indietro, d’anno in anno, d’impegno in
impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: e l’orrore,
rinascente ad ognuna di quelle immagini, crebbe fino alla disperazione.
S’alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla
parete accanto al letto, afferrò una pistola, ma al momento di finire una
vita divenuta insopportabile, gli balenò nella mente il pensiero di quell’altra
vita, della quale gli era stato parlato quand’era ragazzo. Il dubbio che
quest’altra vita ci fosse, gli mise addosso una disperazione più nera, più
grave, dalla quale non si poteva sfuggire, neppur con la morte. Lasciò cader
l’arma, e stava con le mani nei capelli, battendo i denti, tremando.
Tutt’a un tratto gli tornarono in mente le parole che
Lucia gli aveva detto poche ore prima: «Dio perdona tante cose per un’opera
di misericordia!». E non gli tornavano già con quell’accento d’umile
preghiera, con cui erano state proferite, ma con un suono pieno d’autorità,
e che insieme induceva una lontana speranza.
Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle
tempie, e, in un’attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in
colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva non come la sua
prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e
consolazioni.
Aspettava ansiosamente il giorno per correre a liberarla,
per sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s’immaginava
di condurla lui stesso dalla madre.
Lo scampanìo per la visita del cardinal Federigo. – Mentre
era agitato da tali pensieri, sentì, sull’albeggiare, uno scampanìo a
festa lontano, poi uno scampanìo più vicino, poi un altro ancora. Vestitosi
a mezzo, corse ad aprire una finestra, e vide, in fondo alla valle, gente che
passava, altra che usciva dalle case e s’avviava, tutti dalla stessa parte,
tutti col vestito della festa, e con un’alacrità straordinaria. Curioso di
sapere qualcosa, inviò un bravo, che dormiva nella stanza accanto, a prendere
informazioni.
CAPITOLO XXII
L’Innominato si reca dal cardinal Federigo Borromeo. – Poco
dopo il bravo venne a riferire che il giorno avanti il cardinale Federigo
Borromeo, arcivescovo di Milano, era arrivato a *** e ci sarebbe stato tutto
quel giorno; e che la nuova di questo arrivo, sparsasi la sera nei paesi d’intorno,
aveva invogliati tutti d’andare a vedere quell’uomo; e si scampanava più
per allegria che per avvertire la gente.
L’Innominato, rimasto solo, continuò a guardar nella
valle, ancor più pensieroso, domandandosi che cosa avesse quell’uomo per
rendere tanta gente allegra. Poi decise di recarsi anch’egli da lui, per
vedere se avesse le parole che possono consolare.
Presa questa risoluzione, finì in fretta di vestirsi; s’armò
di due terzette, del pugnale e della carabina; ma prima di tutto volle recarsi
nella camera dove aveva lasciata Lucia. Posò fuori la carabina vicino all’uscio,
si fece aprire dalla vecchia, e, poiché vide Lucia dormire in un cantuccio
per terra, rimproverò la donna, orinandole che, quando Lucia si fosse
svegliata, avrebbe dovuto dirle che il padrone era partito per poco tempo, e,
quando fosse tornato, avrebbe fatto tutto quello che essa avrebbe voluto. La
vecchia rimase stupefatta, domandandosi se quella giovane fosse per caso una
principessa.
L’Innominato uscì, riprese la sua carabina, lasciò il
castello, e, senza seguito di bravi, prese la scesa di corsa.
Giunto al paese, si recò in casa del curato, dove si
trovava il cardinale. Entrò in un cortiletto, dove c’erano molti preti, che
lo guardarono con un’attenzione meravigliata e sospettosa. Si levò la
carabina, l’appoggio, in un canto del cortile, e disse ad un prete che
voleva parlare al cardinale. Il prete, che era forestiero, chiamò il
cappellano crocifero, che, udita quella strana richiesta, balbettò vaghe
parole e andò a malincorpo a far l’ambasciata.
Vita del cardinal Federigo Borromeo. – A questo punto
il Manzoni interrompe il racconto per darci ampie notizie intorno alla vita
del cardinale.
Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu uno degli uomini rari
in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi di
una grande opulenza, tutti i vantaggi di una condizione privilegiata, nella
ricerca e nell’esercizio del meglio.
Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla puerizia a quelle
parole d’abnegazione e d’umiltà, a quelle massime intorno alla vanità
dei piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio, alla vera dignità e ai veri
beni, che, sentite o non sentite nei cuori, vengono trasmesse da una
generazione all’altra, nel più elementare insegnamento della religione: le
prese sul serio, le gustò e le trovò vere, e si propose di prenderle per
norma delle sue azioni e dei suoi pensieri. Persuaso che la vita non è già
destinata ad essere un peso per molti e una festa per alcuni, ma per tutti un
impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a pensare
come potesse rendere la sua utile e santa.
Nel 1580 prende l’abito ecclesiastico. – Nel 1580,
a soli sedici anni, prese l’abito ecclesiastico da quel suo cugino Carlo,
che già la fama predicava santo. Entrò poco dopo nel collegio Borromeo di
Pavia, ed ivi, oltre ad applicarsi alle occupazioni che vi trovò prescritte,
volle dedicarsi all’insegnamento della dottrina cristiana ai più rozzi e
derelitti del popolo, e visitare e soccorrere gli infermi, esercitando come un
primato d’esempio. Volle anche una tavola piuttosto povera che frugale, usò
un vestiario piuttosto povero e semplice; né mai mutò il tenore di vita e il
contegno, per quanto alcuni congiunti gridassero e si lamentassero che
avvilisse così la dignità della casa.
Nel 1595 è nominato arcivescovo di Milano. – Federigo,
persuaso che non vi è giusta superiorità di un uomo sopra gli uomini, se non
in loro servizio, temeva le dignità e cercava di scansarle. Perciò quando
nel 1595 il papa Clemente VIII gli propose l’arcivescovado di Milano,
apparve fortemente turbato e ricusò senza esitare. Cedette poi al comando
espresso del Papa. Divenuto arcivescovo, poiché riteneva che le rendite
ecclesiastiche sono patrimonio dei poveri, volle che il suo mantenimento e
quello della sua servitù fosse a spese della sua cassa particolare.
Fonda la Biblioteca Ambrosiana. – Fondò inoltre la
Biblioteca Ambrosiana, nella quale con grande dispendio adunò trentamila
volumi stampati e quattordicimila manoscritti, invitando otto uomini, dei più
colti ed esperti, a farne incetta per l’Italia, per la Francia, per la
Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a
Gerusalemme.
Unì alla biblioteca un collegio di dottori (che dapprima
furono nove, e poi, non bastando le entrate ordinarie, furono ristretti a
due), con l’obbligo di coltivare gli studi più vari e di pubblicare qualche
lavoro sulla materia ad essi assegnata; vi aggiunse un collegio, detto
trilingue, per lo studio della lingua greca, latina, italiana; e inoltre un
collegio di alunni, una stamperia di lingue orientali, una galleria di quadri,
una di statue, e una scuola delle tre principali arti del disegno.
Prescrisse al bibliotecario che mantenesse rapporti con gli
uomini più dotti d’Europa, per avere da loro notizie sullo stato delle
scienze e dei migliori libri che venissero pubblicati; e ordinò, cosa
singolare in quel tempo, che le opere della biblioteca fossero messe a
disposizione degli studiosi, con comodità di carta, penna e calamaio.
Sua carità. – Federigo teneva l’elemosina
propriamente detta per un dovere principalissimo. Avendo risaputo che un
nobile, non possedendo quattromila scudi per dotare la figlia, voleva
costringerla a farsi monaca, lo fece chiamare e gli diede la dote richiesta.
Era di facile abbordo con tutti, specialmente con quelli
che si chiamano di bassa condizione. Una volta, in un paese alpestre e
selvatico, mentre istruiva e accarezzava certi poveri fanciulli, un tale l’avvertì
che usasse più riguardo perché erano troppo sudici; ma il buon vescovo, non
senza un certo risentimento, gli rispose che erano anime sue e che forse non
avrebbero mai più visto la sua faccia.
Ben raro però era il risentimento in lui, ammirato per la
soavità dei suoi modi, per una pacatezza imperturbabile, che si sarebbe
attribuita a una felicità straordinaria di temperamento, mentre era l’effetto
di una disciplina costante sopra un’indole viva e risentita. Se qualche
volta si mostrò severo, fu coi pastori suoi subordinati, che scoprisse rei di
avarizia o di negligenza o di altre tracce, opposte allo spirito del loro
nobile ministero.
L’uomo dotto. – Con tanti altri e diversi titoli di
lodi, Federigo ebbe anche, presso i suoi contemporanei, quello di uomo dotto.
Egli lasciò circa cento opere, tra grandi e piccole, tra latine e italiane,
tra stampate e manoscritte: trattati di morale, orazioni, dissertazioni di
storia, di antichità sacra e profana, di letteratura, di arti e d’altro. Ma
tutte queste opere, nonostante tanto ingegno, tanto studio, tanta pratica
degli uomini e delle cose, tanto meditare, tanta passione per il buono e per
il bello, tanto candore e tant’altre di quelle qualità che fanno il grande
scrittore, sono cadute in oblio. Per quale ragione? Il Manzoni pone, ma non
risolve il problema.
CAPITOLO XXIII
L’Innominato alla presenza del cardinale. – Il
cardinale Federigo, intanto che aspettava l’ora di andare in chiesa, stava
studiando, come era solito fare in tutti i ritagli di tempo, quando entrò il
cappellano crocifero ad annunziargli la visita dell’Innominato, avvertendo
che si trattava di un bandito, di un appaltatore di delitti, di un disperato…
ma il cardinale, sorridendo, diede l’ordine di farlo entrare.
Appena introdotto l’Innominato, Federigo gli andò
incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una
persona desiderata. I due stettero alquanto senza parlare e diversamente
sospesi. L’Innominato era come straziato da due passioni opposte, il
desiderio confuso di trovare un refrigerio al tormento interno e la vergogna
di venir lì come un pentito, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo. Il
cardinale, abituato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i pensieri, lo
ringraziò della preziosa visita, quantunque essa avesse per lui un po’ di
rimprovero, poiché avrebbe egli dovuto andarlo a trovare.
L’Innominato scoppia in un pianto dirotto. – L’Innominato,
commosso ma sbalordito, stava in silenzio. Quando il cardinale gli chiese,
ancor più affettuosamente, quale buona nuova avesse, egli rispose che aveva l’inferno
nel cuore; ma il cardinale riprese pacatamente a dire che Dio gli aveva
toccato il cuore e voleva fare di lui un segno della sua potenza e della sua
bontà.
A misura che le parole uscivano dal labbro del cardinale,
la faccia del suo ascoltatore si componeva a una commozione profonda: i suoi
occhi, che dall’infanzia non conoscevano più le lacrime, si gonfiarono, e,
quando le parole furono cessate, si coprì il viso con le mani e diede in un
pianto dirotto.
Il cardinale, dopo aver ringraziato Dio di averlo fatto
assistere a quella conversione, stese la mano a prender quella dell’Innominato.
L’abbraccio del cardinale. – Questi cercò di
schermirsi, ma Federigo prese la mano con amorevole violenza, dicendo che essa
avrebbe riparato tanti torti, avrebbe sparso tante beneficenze e sollevato
tanti afflitti. Poi stese le braccia al collo del pentito, che, dopo aver
tentato di sottrarsi e resistito un momento, cedette come vinto da quell’impeto
di carità, abbracciò anch’egli il cardinale, e abbandonò sull’omero di
lui il suo volto tremante e mutato. Le su lacrime ardenti cadevano sulla
porpora incontaminata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo stringevano
affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca, avvezza a portar l’armi
della violenza e del tradimento.
Quando l’Innominato si sciolse da quell’abbraccio, si
coprì gli occhi con le mani, ringraziò Dio per la gioia presente, che non
aveva mai provata in tutta la sua orribile vita, e raccontò con parole di
esecrazione la prepotenza fatta a Lucia.
Il cardinale dispone per la liberazione di Lucia. – Il
cardinale, avendo appreso il paese della poveretta, fece tosto dal cappellano
crocifero chiamare don Abbondio e il parroco della chiesa. Don Abbondio era
così lontano dal credere che si chiedesse di lui, che dapprima non seppe se
non trascinare un io? e poi ancora un me? Il cardinale disse in succinto al
parroco di che si trattava, e se saprebbe trovar subito una buona donna che
volesse andare in lettiga al castello a prender Lucia; poi incaricò don
Abbondio di andare anche lui ad accompagnare quella donna, pensando che
sarebbe stato bene che la povera giovane vedesse subito una faccia conosciuta,
dopo tante ore di spasimo. Infine, avendo appreso da don Abbondio che nel
paese di Lucia si trovava la madre di lei, Agnese, ordinò che fosse mandata
una persona a cercarla per condurla a rivedere la figlia. Don Abbondio, che
aveva una grande paura dell’Innominato, avrebbe voluto recarsi lui a
prendere Agnese, che era una donna molto sensitiva….. ma il cardinale
insistette ed egli dovette ubbidire.
Il cardinale però scoprì facilmente nel viso di don
Abbondio la paura di viaggiare con quell’uomo tremendo, e, volendo dissipare
quell’ombra, si accostò all’Innominato con aria di spontanea confidenza,
lo invitò a ritornare e a desinare con lui. Don Abbondio, a quelle
dimostrazioni di affetto, stava come un ragazzo pauroso che veda accarezzar
con sicurezza un cagnaccio grosso, rabbuffato, con gli occhi rossi, con un
nomaccio famoso per morsi e per spaventi, e senta dir dal padrone che quel
cane è un buon bestione, quieto quieto.
L’Innominato e don Abbondio verso il castello. – Il
cardinale andò quindi in chiesa e i due compagni di viaggio rimasero soli
nella stanza. L’Innominato stava tutto ravvolto in sé, impaziente che
venisse il momento di andar a liberare Lucia; don Abbondio almanaccando che
cosa potesse dirgli e concludendo col non dirgli nulla. Giunse alfine il
curato del paese, il quale annunziò che la donna era pronta nella lettiga;
don Abbondio e l’Innominato salirono su due mule e la comitiva partì.
Si doveva passare davanti alla chiesa piena zeppa di
popolo. Già la gran nuova era corsa, e all’apparir di quell’uomo, oggetto
ancor poche ore prima di terrore e d’esecrazione, si alzò nella folla un
mormorio d’applauso. L’Innominato, passando davanti alla chiesa, si levò
il cappello, chinò quella fronte tanto temuta fin sulla criniera della mula,
tra il sussurro di cento voci che dicevano: Dio lo benedica! Don Abbondio si
levò anche lui il cappello, ma sentendo il concerto solenne dei suoi
confratelli che cantavano a distesa, provò un’invidia, una mesta tenerezza,
un accoramento tale che durò fatica a tenere le lacrime.
Il soliloquio di don Abbondio. – Fuori poi dall’abitato,
nell’aperta campagna, un velo più nero si stese sui suoi pensieri. Se la
prendeva coi santi, che come birboni hanno l’argento vivo addosso; se la
prendeva con don Rodrigo, che avrebbe potuto andare in paradiso in carrozza,
mentre voleva andare in casa del diavolo a piè zoppo; se la prendeva con l’Innominato,
che, dopo aver messo sottosopra il mondo con le sue scelleratezze, lo metteva
ora sottosopra con la sua conversione; se la prendeva infine col cardinale,
che usava troppa precipitazione e si giocava la vita di un povero curato a
pari e caffo.
Entrò quindi in quella valle famosa, della quale aveva
sentito raccontare tante storie orribili; vide quei famosi uomini, il fiore
della braveria d’Italia, che si chinavano sommessamente al signore, e che a
don Abbondio pareva che volessero dire: «Fargli la festa e quel prete?».
Dante non stava peggio nel mezzo di Malebolge.
Giunti al castello, l’Innominato aiutò cortesemente don
Abbondio a scendere, aprì l’uscio, entrò, fece entrare il curato e la
donna, s’avviò davanti a loro alla scaletta, e tutti e tre salirono in
silenzio.
CAPITOLOXXIV
La liberazione di Lucia. – Lucia s’era risvegliata
da poco e chiedeva del padrone alla vecchia, quando la comitiva fu all’uscio.
L’Innominato fece entrare subito don Abbondio e la buona donna, mentre egli
si fermò sulla soglia. Lucia, riconoscendo il proprio curato, rimase come
incantata, mentre questi la esortava a farsi coraggio, poiché egli era venuto
apposta a cavallo per condurla via…. La buona donna, a sua volta,
guardandola pietosamente, cercava di confortarla, prendendole le mani, come
per accarezzarla ed alzarla a un tempo. Apparve infine l’Innominato, che
chiese perdono; e Lucia, vedendo bassa quella fronte, e atterrato e confuso
quello sguardo, presa da un misto sentimento di conforto, di riconoscenza e di
pietà, disse: «oh! il mio signore! Dio le renda merito della sua
misericordia!».
Il ritorno al paese. – Poi tutti uscirono dalla
camera. L’Innominato uscì il primo; Lucia, tutta rianimata, con la donna
che le dava il braccio, gli andò dietro; don Abbondio in coda. Giunti nel
cortile, l’Innominato andò alla lettiga, aprì lo sportello, e, con una
gentilezza quasi timida, aiutò Lucia ad entrarvi, poi la buona donna. Slegò
quindi la mula di don Abbondio, e aiutò anche lui a montare. La comitiva si
mosse, quando l’Innominato fu anche lui a cavallo.
Per don Abbondio questo ritorno non fu certo così
angoscioso come l’andata di poco prima; ma non fu neppur esso un viaggio di
piacere, come quando, sbarbato un grand’albero, il terreno rimane sgombro
per qualche tempo, ma poi si copre tutto d’erbacce. Sentiva antitutto l’incomodo
di quel modo di viaggiare, specialmente sul principio, nella discesa dal
castello al fondo della valle, perché, nei luoghi più ripidi, tracollava sul
davanti, e, per reggersi, doveva appuntellarsi con la mano sull’arcione;
lamentava poi che la mula, dove la strada era sopra un ciglione, mettesse
quasi per dispetto, secondo l’uso dei pari suoi, proprio le zampe sull’orlo,
in modo che egli vedeva sotto di sé, a perpendicolo, un salto, o, come
pensava lui, un precipizio; poi temeva che i bravi dell’Innominato, se
avessero appresa la notizia della conversione del loro padrone, facessero un’insurrezione,
e, immaginando che egli fosse venuto a fare il missionario, si vendicassero su
di lui; poi pensava a quel bestione di don Rodrigo, che avrebbe certo voluto
sfogarsi con qualcuno («I colpi cascano sempre all’ingiù; i cenci vanno
all’aria»); e infine temeva di dover rendere conto al cardinale di tutto
quell’imbroglio…
La comitiva arrivò che le funzioni di chiesa non erano
ancora terminate; passò per mezzo alla folla medesima non meno commossa della
prima volta, e poi si divise. L’Innominato e don Abbondio voltarono sur una
piazzetta di fianco, in fondo a cui era la casa del parroco; la lettiga andò
avanti verso quella della buona donna.
La partenza di don Abbondio. – Ma don Abbondio,
appena smontato, pensò bene di ritornare al suo paese. Fece i più sviscerati
complimenti all’Innominato, pregandolo di vederlo scusare con monsignore,
poiché egli doveva tornare alla parrocchia per affari urgenti. Andò a
cercare quel che chiamava il suo cavallo, cioè il bastone che aveva lasciato
in un cantuccio del salotto, e s’incamminò. L’Innominato stette ad
aspettare che il cardinale tornasse di chiesa.
Lucia in casa del sarto. – Intanto Lucia, in casa
della buona donna (che era la moglie del sarto), era oggetto delle attenzioni
più delicate.
La buona donna s’affacendò subito a prepararle qualcosa
per ristorarla. Presto presto, rimettendo stipa sotto un calzerotto, dove
nuotata un buon cappone, fece alzare il bollore al brodo, e, riempitane una
scodella già guarnita di fette di pane, la presentò a Lucia.
Lucia, essendole tornate alquanto le forze, si andava
riassettando per un istinto di pulizia e di verecondia; ma mentre si
raccomandava il fazzoletto sul seno e intorno al collo, le sue dita s’intrecciarono
nella corona che vi aveva messa la notte avanti e le tornò improvvisa la
memoria del voto. Il primo moto dell’animo fu di pentimento, ma poi si
pentì di essersi pentita, e confermò e rinnovò il suo voto, chiedendo che
le fosse concessa la forza di poterlo adempiere.
La famigliola del sarto. – Tutt’a un tratto si
sentì uno scalpiccio e un chiasso di voci allegre. Era la famigliola del
sarto, che ritornava di chiesa. Due bimbette e un fanciullo entrarono
saltando, diedero un’occhiata curiosa all’ospite e corsero a chiedere
notizia alla mamma. Entrò poi, con un passo più quieto, il padrone di casa,
un uomo che sapeva leggere, che aveva letto infatti più d’una volta il
Leggendario dei Santi, il Guerrin Meschino e i Reali di Francia, e passava per
un uomo di talento e di scienza. Con questo, la miglior pasta del mondo. Egli,
essendosi trovato presente quando sua moglie era stata pregata dal curato di
intraprendere quel viaggio caritatevole, le aveva dato la sua approvazione; ed
ora, dopo la predica del cardinale, tornava a casa col desiderio ansioso di
sapere come la cosa fosse riuscita e di trovare la povera innocente salvata.
Appena la vide, le fece gran festa, dicendole che era la benedizione del cielo
nella sua casa.
La famigliola a tavola. – Poi la famiglia si mise a
tavola. La padrona pose davanti a Lucia un’ala di quel cappone, e marito e
moglie fecero coraggio all’ospite abbattuta e vergognosa, perché mangiasse.
Il sarto cominciò, ai primi bocconi, a discorrere con grand’enfasi della
conversione miracolosa, e soprattutto della predica del cardinale, mentre i
ragazzi, che in verità aveva viste troppe cose straordinarie, lo
interrompevano continuamente. Poi, ricordandosi che il cardinale aveva detto
che chi ha più del necessario è obbligato di farne parte a chi patisce, mise
insieme un piatto delle vivande che erano sulla tavola, e lo diede alla sua
bimbetta maggiore perché portasse ogni cosa a Maria vedova e ai suoi
figlioletti, ma con buona maniera e senza aver l’aria di far l’elemosina.
L’arrivo di Agnese. – Qualche tempo dopo arrivò
Agnese. E’ facile pensare come la povera donna fosse rimasta a quella
notizia, necessariamente tronca e confusa, di un pericolo cessato, ma
spaventoso. Dopo essersi cacciata le mani nei capelli, dopo aver gridato più
volte: «Ah Signore! ah Madonna!», era entrata in fretta e furia nel
baroccio, continuando per la strada ad esclamare e a interrogare, senza
profitto. A un certo punto aveva incontrato don Abbondio che veniva adagio
adagio, mettendo avanti ad ogni passo il suo bastone. Si erano ritirati in
disparte, in un castagneto che costeggiava la strada, e don Abbondio l’aveva
ragguagliata di ciò che aveva potuto sapere; poi aveva voluto entrare nel
discorso sul modo di regolarsi con l’arcivescovo, se questo, come era
probabile, avesse desiderato di parlare con lei e con la figliuola, e
soprattutto che non conveniva far parola del matrimonio…. Ma Agnese,
accorgendosi che il brav’uomo non parlava che per il proprio interesse, l’aveva
piantato senza promettergli nulla e s’era rimessa in istrada.
Quando il baroccio arrivò alla casa del sarto, madre e
figlia si gettarono l’una nelle braccia dell’altra, versando lacrime di
consolazione. Agnese volle sapere i casi di Lucia, e questa si mise
affannosamente a raccontarli; ma tacque, per timore che la madre le desse dell’imprudente
e della precipitosa, o per una certa vergogna a entrare in quella materia del
voto che aveva fatto in quella notte angosciosa.
La visita del cardinale. – Il discorso fu interrotto
da una novità inaspettata; la visita del cardinale.
Questi, tornato di chiesta, avendo sentito dall’Innominato
che Lucia era arrivata sana e salva, era andato a tavola con lui, facendoselo
sedere a destra, in mezzo a una corona di preti, che non potevano saziarsi di
dare occhiate a quell’aspetto così ammansato. Finito di desinare, l’Innominato
era partito per il suo castello; e il cardinale, seguito da gran folla, si era
recato alla casa del sarto per far visita a Lucia.
Le due donne, all’apparire del porporato, rimasero
immobili e mute dalla sorpresa e dalla vergogna; ma Agnese, incoraggiata dall’aspetto
e dalle parole di Federigo, si riebbe ben presto, e, prendendo l’occasione,
si sfogò contro don Abbondio, che si era rifiutato di fare il suo dovere. Il
cardinale promise che si sarebbe fatto render conto dal curato di questo
fatto; ma Agnese osservò che non sarebbe servito a nulla, poiché don
Abbondio era un uomo che, tornando il caso, avrebbe fatto lo stesso.
Federigo domandò poi dove fosse il promesso sposo, e,
sentendo da Agnese che era scappato dal suo paese, si meravigliò che un tal
giovane avesse potuto essere in trattato di matrimonio con una ragazza così
virtuosa; ma Lucia, pur facendo il viso rosso, prese subito le difese di colui
che era stato il suo promesso, ed Agnese confermò le parole della figlia,
soggiungendo, con tono di amara esperienza, che «i poveri ci vuol poco a
farli comparire birboni».
Il cardinale ringraziò poi i padroni di casa per l’ospitalità
accordata alle donne, ma il sarto, nonostante lo sforzo di trovare qualche
bella risposta non seppe dire che un «si figuri!», cosa della quale rimase
poi sempre avvilito.
Il cardinale pensò infine di ricompensare quell’uomo,
che non doveva esser ricco, pagando tutti i debiti che i paesani poveri
avevano con lui, e facendo a proprie spese rivestire quelli più poveri
ancora, che non avevano potuto far debiti per mancanza di credito.
L’Innominato parla ai suoi bravi. – Non si può
però chiudere la storia di quella giornata, senza raccontar brevemente come
la terminasse l’Innominato. Tornato al castello, dove la fama della sua
conversione l’aveva preceduto, fece adunare tutti i suoi bravi nella sala
grande. Egli annunciò loro la mutazione che era avvenuta in lui, annullò
ogni ordine scellerato che aveva già impartito, e dichiarò di essere
disposto a tenere ancora al suo servizio chi volesse imitarlo, mentre chi non
volesse, doveva lasciare la sua casa per sempre. I bravi rimasero sbalorditi,
ma nessuno di essi pensò che, per esser lui convertito, si potesse prendergli
il sopravvento. Vedevano in lui un santo, ma uno di quei santi che si
dipingono con la testa alta e con la spada in pugno. Quando l’Innominato,
alla fine delle sue parole, alzò di nuovo quella mano imperiosa per accennare
che se ne andassero, tutti quanti, come un branco di pecore, se la batterono
quatti quatti. Uscì anche lui dietro a loro, e, quando vide che era tutto
quieto, andò finalmente a dormire.
Entrò in camera, s’accostò a quel letto in cui la notte
avanti aveva trovato tante spine, vi s’inginocchiò accanto, e cominciò a
recitare le preghiere che aveva imparato da bambino; poi si rizzò, andò a
letto e s’addormentò immediatamente.
CAPITOLO XXV
Don Rodrigo parte per Milano. – Il giorno seguente,
nel paesetto di Lucia e in tutto il territorio di Lecco, non si parlava che di
lei, dell’Innominato, dell’arcivescovo e di don Rodrigo. Questi, fulminato
da quella notizia così diversa dall’avviso che aspettava di giorno in
giorno, stette per due giorni rintanato nel suo palazzotto, solo coi suoi
bravi, a rodersi; il terzo giorno, avendo saputo che il cardinale veniva da
quelle parti, partì per Milano come un fuggitivo, sbuffando e giurando di
tornare ben presto a fare le sue vendette.
Il cardinale nel paese di Lucia. – Intanto il
cardinale veniva visitando le parrocchie del territorio di Lecco. Il giorno in
cui doveva arrivare a quella di Lucia, gli abitanti andarono sulla strada ad
incontrarlo, preceduti da don Abbondio, infastidito e per il fracasso che lo
sbalordiva, e per il brulicare della gente innanzi e indietro, che, come
andava ripetendo, gli faceva girare la testa, e per il rodìo segreto che le
donne avessero potuto ciarlare e gli toccasse perciò di render conto del
matrimonio.
Quando si vide spuntare il cardinale, la gente si affrettò
alla rinfusa; e don Abbondio, dopo aver detto tre o quattro volte: «Adagio;
in fila; cosa fate?», si voltò indispettito; e seguitando a borbottare: «E’
una babilonia, è una babilonia», entrò in chiesa, intanto che era vuota; e
stette lì ad aspettare.
Il cardinale, entrato in chiesa, fece, secondo il suo
solito, un piccolo discorso al popolo; poi, ritiratosi nella casa del parroco,
tra gli altri discorsi, gli domandò informazioni di Renzo. Don Abbondio disse
che era un giovane un po’ vivo, un po’ testardo, un po’ collerico; ma, a
più particolari domande, dovette rispondere che era un galantuomo, e che anch’egli
non sapeva capire come in Milano avesse potuto fare tutte quelle diavolerie
che avevano detto. Il cardinale diede poi disposizioni perché Lucia tornasse
alla sua casa, in attesa di metterla definitivamente al sicuro. Don Abbondio
fu tutto contento che il cardinale gli avesse parlato dei due giovani, senza
chiedergli conto del suo rifiuto per maritarli, poiché pensava che Agnese
(miracolo!) fosse stata zitta; e non sapeva, il pover’uomo, che Federigo non
era entrato in quell’argomento, perché intendeva di parlargliene più a
lungo, in tempo più libero.
Don Ferrante e donna Prassede. – Ma i pensieri del
buon prelato per mettere Lucia al sicuro erano divenuti inutili.
Poco distante dal paesetto, dov’era la casa del sarto,
villeggiava una coppia d’alto affare: dono Ferrante e donna Prassede. Questa
era una vecchia gentildonna, molto inclinata a far del bene, ma con molte idee
storte, per cui le accadeva o di proporsi per bene ciò che non lo fosse, o di
servirsi come mezzi di cose che potessero piuttosto far riuscire dalla parte
opposta.
Donna Prassede prende in casa Lucia. – Avendo sentito
il gran caso di Lucia, e avendo appreso che il cardinale si era incaricato di
trovare ad essa un ricovero, donna Prassede si esibì di prendere la giovane
in casa, dove, senza essere addetta ad alcun servizio particolare, avrebbe
potuto a piacer suo aiutare le altre donne nei loro lavori. Essa, oltre il
bene chiaro e immediato che c’era in un’opera tale, se ne proponeva un
altro, forse più considerabile, secondo lei: di raddrizzare un cervello, di
mettere sulla buona strada chi ne aveva gran bisogno, perché, fin da quando
aveva sentito per la prima volta parlar di Lucia, si era persuasa che una
giovane, la quale aveva potuto promettersi a un poco di buono, a un sedizioso,
a un scampaforca, qualche magagna nascosta la doveva avere.
Donna Prassede mandò una carrozza, con un vecchio
braciere, a prender la madre e la figlia, e, quando queste furono alla sua
presenza, fece loro grandi accoglienze e molte congratulazioni, offrendosi di
ospitare Lucia. Le due donne si guardarono in viso, e, nella loro dolorosa
necessità di dividersi, parve ad esse che l’offerta fosse da accettarsi, se
non altro per essere quella villa così vicina al loro paesetto, per cui, alla
peggio dei peggi, si sarebbero potute trovare insieme alla prossima
villeggiatura.
Don Ferrante scrive una lettera per il cardinale. – Partite
le donne, donna Prassede si fece distendere da don Ferrante una lettera per
avvertire il cardinale. Don Ferrante, che, essendo letterato, era, nelle
occasioni d’importanza, come il segretario di donna Prassede, ci mise tutto
il suo sapere, e, consegnando la minuta da copiare alla consorte, le
raccomandò caldamente l’ortografia, che era una delle molte cose che aveva
studiato, e delle poche sulle quali avesse lui il comando in casa. Il
cardinale conosceva la casa di donna Prassede quanto bastasse per esser certo
che Lucia c’era invitata con buona intenzione, e che lì sarebbe sicura
dalle insidie e dalla violenza del suo persecutore. Probabilmente non era
quella la persona che avrebbe scelta a un tale intento; ma non era suo costume
di disfare le cose che toccavano a lui per rifarle meglio.
Il cardinale rimprovera don Abbondio. – Terminate le
funzioni, don Abbondio, che era corso a vedere se Perpetua aveva ben disposto
ogni cosa per desinare, fu chiamato dal cardinale, il quale gli chiese per
quale motivo non aveva unito in matrimonio Lucia con il suo promesso sposo.
Don Abbondio comprese subito che Agnese e Lucia avevano vuotato il sacco, e
dapprima cerò di dare risposte evasive, poi, messo alle strette, si decise a
raccontare tutta la dolorosa storia. Il cardinale gli domandò se non avesse
avuto altro motivo, e il povero curato rispose, a propria giustificazione, che
sotto pena della vita gli avevano intimato di non far quel matrimonio; poi,
alle parole di rimprovero del cardinale, rispose ancora che don Rodrigo era un
signore con cui non si può né vincerla né impattarla; e infine, alle nuove
parole di rimprovero, rispose che il coraggio uno non se lo può dare.
Mentre il cardinale parlava, esaltando il ministero del
sacerdozio, don Abbondio si sentiva come un pulcino tra gli arti del falco,
che lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un’aria che non ha
mai respirato; ma, fermo sui suoi principi, trovava strano che al cardinale
stessero più a cuore gli amori di due giovani che la vita di un povero
sacerdote.
Il cardinale gli chiese infine che cosa avesse fatto per
riparare al pericolo che sovrastava a due giovani della sua parrocchia. E
tacque in atto di chi aspetta.
CAPITOLO XXVI
Continua il colloquio del cardinale con don Abbondio. – A
una siffatta domanda, don Abbondio restò lì senza articolar parola, mentre
il cardinale continuò i suoi rimproveri, dicendo che egli aveva ubbidito all’iniquità,
non curando ciò che il dovere gli prescriveva, e che aveva mendicato dei
prestiti al suo rifiuto per non rivelarne il motivo.
Il povero curato, pur pensando che il cardinale a quel
satanasso dell’Innominato aveva gettato le braccia al collo, mentre a lui,
per una mezza bugia, detta solo a fine di salvare la pelle, faceva tanto
chiasso, rispose ad alta voce di aver mancato, ma chiese che cosa avrebbe
dovuto fare in un frangente di quella sorte. Il cardinale gli disse che
avrebbe dovuto unire, secondo la legge di Dio, ciò che l’uomo voleva
separare, e, in ogni modo, avrebbe dovuto informare il suo vescovo dell’impedimento
che un’infame violenza metteva all’esercizio del suo ministero. Don
Abbondio, a queste parole, pensò stizzosamente ai pareri di Perpetua.
Il cardinale proseguì ancora, rimproverandolo di aver
trascurato ogni altra cosa di fronte al suo pericolo temporale; e don Abbondio
si lasciò scappare che le aveva viste lui quelle facce, che le aveva sentite
lui quelle parole, e che bisognava essere nei panni di un povero prete ed
essersi trovato al punto. Appena detto ciò, si morse la lingua, e disse tra
sé: - Ora viene la grandine; - ma, con sua grande sorpresa, il cardinale lo
invitò a rimproverargli liberamente le sue debolezze, affinché essi
potessero confondersi liberamente davanti a Dio per confidare insieme. Don
Abbondio, pur pensando fra sé: - Oh che sant’uomo! ma che tormento! –
rispose elogiando il petto forte e lo zelo imperterrito del cardinale, il
quale si schermì, dicendo che non desiderava una lode che lo faceva tremare.
Don Abbondio chiese infine al suo interlocutore se era
venuto a conoscenza che i due promessi si erano introdotti a casa sua, a
tradimento, per sorprenderlo e per fare un matrimonio contro le regole.
Federigo rispose che si accorava, vedendo che egli pensava di scusarsi,
accusando.
Don Abbondio stava zitto come chi ha più cose da pensare
che da dire, e, se non sentiva tutto il rimorso che la predica voleva produrre
(che quella stessa paura era sempre lì a far l’ufficio del difensore),
sentiva però un certo dispiacere di sé, come lo stoppino umido e ammaccato
di una candela, che, presentato alla fiamma di una grande torcia, da principio
fuma, schizza, scoppietta, non ne vuol saper nulla, ma alla fine s’accende e
bene o male brucia.
Fine del colloquio. – Concludendo il suo discorso, il
cardinale raccomandò a don Abbondio di non lasciarsi sfuggire l’occasione
di far del bene a Renzo e a Lucia, aggiungendo che avrebbe desiderato tenere
con lui tutt’altri discorsi. Don Abbondio promise che non avrebbe mancato
davvero, con una voce che, in quel momento, veniva proprio dal cuore. Poi
Federigo si mosse, e don Abbondio gli andò dietro.
Lucia in casa di donna Prassede. – La mattina
seguente venne donna Prassede, secondo il fissato, a prendere Lucia e a
complimentare il cardinale, che gliela lodò e raccomandò caldamente. Lucia
si staccò dalla madre piangendo, ma i congedi con essa non erano gli ultimi,
perché donna Prassede si sarebbe fermata ancora qualche giorno in quella sua
villa, che non era molto lontana, e Agnese promise alla figlia di andarla a
trovare.
L’Innominato fa pervenire ad Agnese cento scudi d’oro
per Lucia. – Il cardinale era anche lui sulle mosse per continuare la
sua visita, quando arrivò il curato della parrocchia, in cui era il castello
dell’Innominato, con una lettera di quel signore, che pregava di far
accettare alla madre di Lucia cento scudi d’oro per servir di dote alla
giovane, o per quell’uso che ad essa sarebbe parso migliore; ed aggiungeva
che se mai, in qualunque tempo, avessero creduto che egli potesse render loro
qualche servizio, la povera giovane sapeva purtroppo dove stesse, e per lui
quella sarebbe una delle fortune più desiderate.
Il cardinale consegnò subito il rotolo ad Agnese, che lo
prese senza far gran complimenti; andò a casa zitta zitta, si chiuse i
camera, vide con ammirazione tutti in un mucchietto tanti di quei ruspi, dei
quali forse non aveva mai visto più d’uno per volta e anche di rado, ne
fece un involto, e, legatolo bene in giro con della cordellina, lo ficcò in
un cantuccio del suo saccone. All’alba del giorno seguente s’alzò e s’incamminò
subito verso la villa dov’era Lucia.
Lucia rivela alla madre il segreto del voto. – Quando
furono sole, Agnese raccontò alla figlia l’inaspettata fortuna e le
propose, appena Renzo avesse data notizia di sé, di andarlo a raggiungere
tutte e due a Milano. Ma Lucia, invece di animarsi, le gettò le braccia al
collo, e piangendo le rivelò il voto fatto in quella notte tremenda. Agnese
rimase stupefatta e costernata, e non seppe che lamentarsi di non esserne
stata messa subito a parte.
Lucia prega la madre di far sapere la cosa a Renzo. – Lucia
pregò poi la madre affinché, appena fosse riuscita ad avere notizie di
Renzo, gli facesse sapere com’era andata la cosa, e lo esortasse a mettere
il cuore in pace; e la pregò, nello stesso tempo, di fargli avere la metà
dei cento scudi d’oro, poiché, se quel poverino non avesse avuto la
disgrazia di pensare a lei, non gli sarebbe accaduto ciò che gli era
accaduto. Agnese promise che così avrebbe fatto, e Lucia ringraziò con una
gratitudine, con un affetto, da far capire, a chi l’avesse osservata, che il
suo cuore faceva ancora a mezzo con Renzo, forse più che la medesima non lo
credesse.
Renzo muta il proprio nome in quello di Antonio Rivolta.
– Intanto cominciò a passar molto tempo senza che Agnese potesse saper
nulla di Renzo. Anche il cardinal Federigo, che non aveva detto per cerimonia
alle povere donne di voler prendere informazioni del giovane, aveva ricevuto
come risposta che non si era potuto trovar recapito dell’indicato soggetto;
che veramente era stato qualche tempo in casa di un suo parente, nel tal
paese, ma una mattina era scomparso all’improvviso, e quel suo parente
stesso non sapeva cosa ne fosse stato, e non poteva che ripetere certe voci in
aria e contradditorie, essersi il giovane arruolato per il Levante, esser
passato in Germania, esser perito nel guadare un fiume. Ma erano tutte ciarle:
ecco il fatto.
Il governatore di Milano, don Gonzalo Fernandez di Cordova,
aveva fatto un gran fracasso col residente di Venezia in Milano, perché il
famoso Lorenzo Tramaglino, malandrino, ladrone pubblico, promotore di
saccheggio e d’omicidio, fosse stato accolto nel territorio bergamasco. Il
residente aveva scritto a Venezia, ma il governo veneziano aveva per massima
di secondare l’inclinazione degli operai di seta milanesi a trasportarsi nel
territorio bergamasco, e quindi di far che ci trovassero molti vantaggi,
soprattutto la sicurezza. Perciò Bortolo fu avvisato in confidenza, non si sa
da chi, che Renzo non stava bene in quel paese, e che avrebbe fatto meglio a
entrare in qualche altra fabbrica, cambiando anche nome per qualche tempo.
Bortolo corse a dir la cosa al cugino, e lo condusse a un altro filatoio,
discosto da quello forse quindi miglia, e lo presentò al padrone, che era un
suo antico conoscente, sotto il nome di Antonio Rivolta. Il padrone non ebbe
che a lodarsi dell’acquisto; meno che, sul principio, gli parve che il
giovane dovesse essere un po’ stordito, perché, quando si chiamava:
Antonio! le più volte non rispondeva.
Poco dopo venne un ordine da Venezia al capitano di
Bergamo, che prendesse informazioni se nella sua giurisdizione, e segnatamente
nel tal paese, si trovasse il tal soggetto; e il capitano, fatte le sue
diligenze, come aveva capito che si volevano, trasmise la risposta negativa.
Non mancavano poi i curiosi, che volevano sapere da Bortolo
perché quel giovane non c’era più, e Bortolo rispondeva che era scomparso,
e, per mandare in pace i più insistenti, aveva creduto bene di regalar loro
le notizie sopra riferite; però come cose incerte, che aveva sentito dire
anche lui, senza averne un riscontro positivo.
Ma quando la domanda gli venne fatta per commissione del
cardinale, senza nominarlo, ma lasciando capire che era il nome di un gran
personaggio, Bortolo si insospettì ancor più, e diede in una volta tutte le
notizie che aveva dato ad una ad una in quelle diverse occorrenze.
Non si deve però credere che don Gonzalo l’avesse
proprio col povero filatore di montagna. Ciò dipese dal fatto che Renzo,
senza volerlo, si trovò impigliato, con un sottilissimo filo, a troppe e
troppe gran cose, che si esporranno nel capitolo seguente.
CAPITOLO XXVII
La guerra per la successione del ducato di Mantova e del
Monferrato. – Già più di una volta si è fatto cenno della guerra, che
allora bolliva, per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga. Alla
morte di costui, il primo in linea di successione, Carlo Gonzaga, capo d’un
ramo cadetto trapiantato in Francia, dove possedeva i ducati di Nevers e di
Rhétel, era entrato, col favore del cardinale di Richelieu, dei Veneziani e
del Papa, in possesso di Mantova e del Monferrato; ma la Spagna, che voleva ad
ogni patto escludere da quei feudi il nuovo principe di Guastalla, su Mantova,
e di Carlo Emanuele I, duca di Savoia, sul Monferrato. Don Gonzalo Fernandez
di Cordova, governatore di Milano, interpretando le intenzioni della corte di
Madrid, aveva concluso col duca di Savoia un trattato per la divisione del
Monferrato, e aveva posto l’assedio a Casale, ma con scarso successo.
Don Gonzalo si occupa di Renzo. – Mentre durava l’assedio
di Casale, scoppiarono i tumulti di Milano, e don Gonzalo accorse di persona
in questa città. Qui, avendo appreso che Renza si era rifugiato sul
territorio di Bergamo, e sospettando che Venezia alzasse la cresta per la
sommossa di Milano, volle mostrare che non aveva perso nulla dell’antica
sicurezza; e perciò, essendosi incontrato col residente di Venezia, fece
tutto quel fracasso a proposito di Renzo. Dopo, non s’occupò più di un
affare così minuto; e quando più tardi gli arrivò la risposta al campo
sopra Casale, dove aveva tutt’altri pensieri, alzò e dimenò la testa, come
un baco da seta che cerchi la foglia; stette lì un momento, per farsi tornar
vivo nella memoria quel fatto, ebbe un’idea fugace e confusa del
personaggio, passò ad altro e non ci pensò più.
Renzo riesce a far pervenire sue notizie ad Agnese. – Ma
Renzo, che non supponeva una così benigna noncuranza, se ne stette un pezzo
nascosto. Egli si struggeva di mandar le sue nuove alle donne e di avere le
loro, ma doveva affrontar la duplice difficoltà di confidarsi a un
segretario, perché non sapeva scrivere, mettendo in tal modo un terzo a parte
dei suoi interessi; e di trovare un corriere, che andasse da quelle parti e si
incaricasse di recapitare la lettera.
Finalmente trovò modo di far pervenire una lettera ad
Agnese; ed Agnese, a sua volta, avendo a segretario un suo cugino Alessio,
residente a Maggianico, riuscì ad inviare la risposta. Si avviò insomma tra
le due parti un carteggio, né rapido né regolare, ma pure continuato,
nonostante tutti gli inconvenienti che nascono dalle necessità di tanti
intermediari, e per lo scrivere e per il leggere.
Renzo riceve i cinquanta scudi e la notizia del voto. – Un
giorno Renzo ricevette da Agnese un rotolo di cinquanta scudi, con una lettera
in cui il segretario di Agnese descriveva oscuramente la tremenda storia di
«quella persona» (così diceva), e poi, per via di perifrasi, del voto e
della necessità di mettere il cuore in pace.
Renzo poco mancò che non se la prendesse col lettore
interprete: tremò, inorridì, s’infuriò, si fece rileggere tre o quattro
volte il terribile scritto; e fece immediatamente rispondere che il cuore in
pace non lo voleva mettere e non lo metterebbe mai, che il denaro lo avrebbe
tenuto in deposito per la dote della giovane, che egli aveva sempre sentito
dire che la Madonna aiuta i tribolati, ma non fa mancar di parola, e cose
simili.
Donna Prassede cerca di far dimenticare Renzo a Lucia. – Lucia,
quando la madre poté farle sapere che Renzo era vivo e in salvo, sentì un
gran sollievo, e non desiderava più altro se non che egli si dimenticasse di
lei. Dal canto suo, faceva cento volte al giorno una risoluzione simile
riguardo a lui, cercando di occuparsi tutta in qualche lavoro; ma quell’immagine,
proprio come se avesse avuto malizia, si introduceva di soppiatto nella sua
mente, in modo che il non pensare a lui era impresa disperata.
Vi era poi donna Prassede, che, tutta impegnata dal canto
suo a levarle dall’animo colui, non aveva trovato miglior espediente che di
parlargliene spesso, accennando al birbante venuto a Milano per rubare e
scannare, e volendo farle confessare le bricconate che colui doveva aver fatte
anche al suo paese.
Lucia, con la voce tremante di vergogna e di dolore,
assicurava che al suo paese quel poveretto non aveva mai fatto parlar di sé,
altro che in bene; ma da queste apologie donna Prassede ricavava nuovi
argomenti per convincere Lucia che il suo cuore era ancora perso dietro a lui.
Carattere di donna Prassede. – Buon per lei che non
era la sola a cui donna Prassede avesse a far del bene, sicché le baruffe non
potevano essere così frequenti. Oltre il resto della servitù, tutti cervelli
che avevano bisogno, più o meno, di essere raddrizzati e guidati, aveva anche
cinque figlie, di cui tre monache e due maritate. Donna Prassede si trovava in
tal modo ad avere tre monasteri e due case a cui soprintendere: impresa vasta
e complicata, tanto più che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da
fratelli, e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache,
non volevano accettare la sua soprintendenza. Era una guerra, anzi cinque
guerre, scoperte, gentili, fino a un certo segno, ma vive e senza tregua. Dove
il suo zelo poteva esercitarsi liberamente, era in casa: lì ogni persona era
soggetta, in tutto e per tutto, alla sua autorità, fuorché don Ferrante, col
quale le cose andavano in un modo tutto particolare.
Carattere di don Ferrante. – Don Ferrante era un uomo
di studio, a cui non piaceva né comandare né ubbidire. Che in tutte le cose
di casa la signora moglie fosse la padrona, alla buon’ora; ma lui servo, no.
Perciò donna Prassede brontolava spesso con lui, lo nominava uno schivafatica,
un uomo fisso nelle sue idee, un letterato; titolo nel quale, insieme con la
stizza, c’entrava anche un po’ di compiacenza.
Don Ferrante passava grandi ore nel suo studio, dove aveva
una raccolta di circa trecento volumi, tutta roba scelta, tutte opere delle
più riputate, in varie materie, in ognuna delle quali era più o meno
versato.
Nell’astrologia era ritenuto, e con ragione, per più che
un dilettante.
Della filosofia antica aveva imparato quanto poteva
bastare, e vi andava di continuo imparando di più. Siccome però, a voler
essere filosofo, bisogna scegliere un autore, così egli aveva scelto
Aristotele, il quale, come diceva lui, non è né antico né moderno, è il
filosofo. Del rimanente, quantunque nel giudizio dei dotti passasse per un
peripatetico consumato, a lui non pareva di saperne abbastanza; e più d’una
volta disse, con gran modestia, che l’essenza, gli universali, l’anima del
mondo e la natura delle cose non erano cose tanto chiare, quanto si potrebbe
credere.
Della filosofia naturale s’era fatto più un passatempo
che uno studio. Le opere stesse di Aristotele su questa materia, e quelle di
Plinio, le aveva piuttosto lette che studiate: ma tuttavia era in grado di
descrivere esattamente le forme e le attitudini delle sirene e dell’unica
fenice, sapeva spiegare come la salamandra stia nel fuoco senza bruciare, come
la rèmora, quel pesciolino, abbia la forza di fermare di punto in bianco, in
alto mare, qualunque nave, ed altre cose ancora.
Negli studi di magia e di stregoneria si era internato di
più, trattandosi di scienza molto più in voga e più necessaria, per potersi
guardare e difendere dalle pessime arti dei maliardi.
Ugualmente vaste e fondate erano le sue cognizioni in fatto
di storia, specialmente universale; ma poiché la storia, secondo don
Ferrante, non servirebbe a nulla senza la politica, c’era anche nei suoi
scaffali un palchetto assegnato agli statisti tra i quali il Paruta, il
Boccalini, e soprattutto il Machiavelli («mariolo sì, diceva don Ferrante,
ma profondo»); e il Botero («galantuomo sì, diceva pure, ma acuto»); in
ultimo però era il passato a dare il primato al libro di don Valeriano
Castiglione.
Ma se in tutte le scienze suddette don Ferrante poteva
dirsi addottrinato, una ce n’era in cui meritava il titolo di professore: la
scienza cavalleresca. Non solo ne ragionava con vero possesso, ma, pregato
frequentemente di intervenire in affari d’onore, dava sempre qualche
decisione. Aveva nella sua libreria, e si può dire in testa, le opere degli
scrittori più riputati e l’autore degli autori, che era per lui il Birago.
Agnese e Lucia non si ritrovano più insieme. – Fino
all’autunno del 1629 tutti i nostri personaggi rimasero a un di presso nello
stato in cui li abbiamo lasciati. Venne l’autunno, in cui Agnese e Lucia
avevano fatto conto di ritrovarsi insieme, ma un grande avvenimento pubblico
mandò quel conto all’aria.
CAPITOLO XXVIII
Conseguenze della sommossa di Milano. – Dopo la
sedizione del giorno di san Martino e del seguente, parve che l’abbondanza
fosse ritornata in Milano, come per miracolo. Pane in quantità da tutti i
forni; il prezzo, come nelle annate migliori. La moltitudine, naturalmente, si
diede ad assediare i fornai, investendo i denari in pane e farina, e rendendo
in tal modo sempre più difficile la durata di quel buon mercato. Il governo
ricorse allora alle grida, per proibire gli accaparramenti, per impedire l’uscita
delle granaglie dalla città, per confiscare il risone da far entrare nel pane
detto di mistura, e via dicendo. Così, alla fine dei conti, due furono i
frutti principali della sommossa: guasto e perdita di viveri nella sommossa
medesima; consumo, finché durò la tariffa, largo, spensierato, senza misura,
a spese di quel poco grano, che pur doveva bastare fino alla nuova raccolta.
Si aggiungano quattro disgraziati, impiccati come capi del tumulto: due
davanti al forno delle grucce, due in cima della strada dov’era la casa del
vicario di provvisione.
La carestia a Milano. – Ed ecco, nell’inverno
avanzato e nella primavera, quando la carestia cominciò ad operare senza
ritegno, e con tutta la sua forza, il ritratto doloroso del paese,
principalmente della città.
Ad ogni passo botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte
deserte; le strade, un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie,
un soggiorno perpetuo di patimenti. Gli accattoni di mestiere, diventati ora
il minor numero, confusi e perduti in una nuova moltitudine, ridotti a litigar
l’elemosina con quelli da cui in altri giorni l’avevano ricevuta. C’erano
pure, e si conoscevano ai ciuffi arruffati e ai cenci sfarzosi, molti di
quella genia dei bravi che, perduto quel loro pane scellerato, ne andavano
chiedendo per carità. Ma forse il più brutto e insieme il più
compassionevole spettacolo erano i contadini, scompagnati, a coppie, a
famiglie intere; cacciati dalle loro terre o dalle soldatesche o dalle
sterilità o dalle gravezze, più esorbitanti che mai per soddisfare a ciò
che si chiamavano i bisogni della guerra, e venuti in città come ad ultimo
asilo di ricchezza e di pia magnificenza.
Qua e là per le strade, rasente ai muri delle case, si
vedeva qualche po’ di paglia pesta, trita e mista d’immondo ciarpame. Una
tal porcheria era però un dono e uno studio della carità; erano covili
apprestati a qualcuno di quei meschini per posarci il capo la notte. Ogni
tanto ci si vedeva, anche di giorno, giacere o sdraiarsi taluno, a cui la
stanchezza o il digiuno aveva levate le forze e tronche le gambe; qualche
volta quel tristo letto portava un cadavere; qualche volta si vedeva uno
cadere come un cencio all’improvviso e rimanere cadavere sul selciato.
L’opera del cardinal Federigo. – Il buon cardinale
Federigo faceva del suo meglio per lenire tanta sciagura. Ogni mattina, per
sua disposizione, tre coppie di preti, seguiti da facchini carichi di cibi e
di vesti, giravano per la città venendo incontro ai più disperati bisogni.
Aveva inoltre fatte gran compre di granaglie, e ne aveva
spedite una buona parte ai luoghi della diocesi, che n’erano più scarsi; ed
essendo il soccorso troppo inferiore al bisogno, mandò anche del sale, «con
cui», dice, raccontando la cosa, il Ripamonti, «l’erbe del prato e le
cortecce degli alberi si convertono in cibo».
Nel palazzo arcivescovile, come attesta uno scrittore
contemporaneo, il medico Alessandro Tadino, si distribuivano ogni mattina due
mila scodelle di minestra di riso.
Ma questi effetti di carità, che possiamo certamente
chiamare grandiosi, quando si consideri che venivano da un sol uomo e dai suoi
mezzi (giacché Federigo ricusava, per sistema, di farsi dispensatore delle
liberalità altrui), erano ancora poca cosa in confronto del bisogno.
Il Ripamonti dice di aver visto il cadavere di una povera
donna, con la bocca piena d’erba mezza rosicchiata e con accanto un bambino
che cercava piangendo il seno materno…
Il Tribunale di Provvisione riunisce gli accattoni nel
lazzaretto. – Così passò l’inverno e la primavera; e poiché il
Tribunale della Sanità temeva il pericolo di un contagio per tanta miseria
ammontata in ogni parte della città il Tribunale di Provvisione decise di
radunare tutti gli accattoni, sani e infermi, nel lazzaretto, dove dovevano
essere curati e mantenuti a spese pubbliche, contro il parere della Sanità,
la quale opponeva che, in una così gran riunione, sarebbe cresciuto il
pericolo a cui si voleva metter riparo.
Il lazzaretto di Milano era un recinto quasi quadrato,
fuori della città, a sinistra della porta detta Orientale. I due lati
maggiori erano lunghi a un dipresso cinquecento passi; gli altri due, forse
quindici meno; tutti, dalla parte esterna, divisi in piccole stanze da un
piano solo: di dentro girava intorno a tre di essi un portico continuo a
volta, sostenuto da piccole e magre colonne. Le stanzine erano
duecentottantotto. Nel centro dello spazio interno c’era, e c’è tuttora,
una piccola chiesa ottagonale.
Molti accattoni vi concorsero volontariamente; tutti quelli
che giacevano infermi per le strade e per le piazze ci vennero trasportati; in
pochi giorni ce ne furono più di tremila. Ma molto più furono quelli che,
non facendo conto dell’invito, restarono fuori. Visto ciò, si credé di
passare alla forza, mandando in ronda birri, che cacciassero gli accattoni al
lazzaretto o vi menassero legati quelli che vi resistevano, per ognuno dei
quali fu assegnato il premio di dieci lire. La caccia fu tale che, in poco
tempo, il numero dei ricoverati si accostò a diecimila.
Come stessero poi tutti insieme di alloggio e di vitto, si
potrebbe tristemente congetturarlo, quando non se ne avessero notizie
positive. Dormivano ammontati a venti a trenta per ognuna di quelle cellette,
o accovacciati sotto i portici, sopra un po’ di paglia putrida e fetente, o
sulla nuda terra; il pane era alterato con sostanze pesanti e non nutrienti; l’acqua
scarsa e inquinata.
La mortalità nel lazzaretto. – A tutte queste
cagioni di mortalità, che operavano sopra corpi ammalati o ammalazzati, si
aggiunse una gran perversità della stagione: piogge ostinate, siccità ancor
più ostinata, e con essa un caldo anticipato e violento. Non farà quindi
stupore che la mortalità crescesse e regnasse in quel recinto fino ad
assumere l’aspetto e, presso molti, nome di pestilenza. Il numero
giornaliero dei morti oltrepassò in poco tempo il centinaio.
Finalmente il Tribunale di Provvisione, per porre un riparo
a tale situazione, pensò bene di disfare ciò che aveva fatto con tanto
apparato, con tanta spesa, con tante vessazioni. Aprì il lazzaretto,
licenziò tutti i poveri non ammalati che ci rimanevano, e fece trasportare
gli infermi a Santa Maria della Stella, allora ospizio dei poveri, dove la
più parte morivano.
Il nuovo raccolto. – Intanto però cominciavano quei
benedetti campi a imbiondire. Gli accattoni, venuti dal contado, se n’andarono,
ognuno dalla sua parte, a quella tanto sospirata segatura. Il buon Federigo,
con un ultimo atto di carità, fece dare a ciascuno di essi, che si fosse
presentato all’arcivescovado, un giulio e una falce da mietere.
Con la messe cessò la carestia; ma la mortalità, pur
scemando di giorno in giorno, si prolungò fin nell’autunno. Era sul finire,
quand’ecco un nuovo flagello.
L’esercito dell’imperatore cala nel Milanese. – Il
re Luigi XIII di Francia, spinto dal cardinale Richelieu, era calato in
Italia, alla testa di un esercito, per portare aiuto al duca di Nevers, e,
dopo aver sconfitto il duca di Savoia, che gli aveva negato il passo verso il
Monferrato, aveva costretto don Gonzalo a levare l’assedio del Casale.
Fu anzi in questa occasione che l’Achillini scrisse al re
Luigi quel suo famoso sonetto:
L’imperatore Ferdinando a sua volta, dopo aver intimato
invano al duca di Nevers di abbandonare i suoi stati e di metterli in mano
dell’imperatore, inviò un esercito, sotto il comando del conte Rambaldo di
Collalto, che, attraverso i Grigioni e la Valtellina, si accinse a calare nel
Milanese.
Esso, oltre ai danni che si potevano temere da un tale
passaggio, covava – per espressi avvisi giunti al Tribunale della Sanità
– la peste; ed Alessandro Tadino, uno dei conservatori della Sanità, era
stato incaricato dal detto Tribunale di rappresentare al governatore lo
spaventoso pericolo che sovrastava al paese; ma il governatore rispose che non
sapeva cosa farci, e che i motivi d’interesse e di reputazione, per i quali
quell’esercito s’era mosso, pesavano di più che il pericolo
rappresentato.
La partenza di don Gonzalo. – Quanto a don Gonzalo,
poco dopo quella risposta, se ne andò da Milano, perché rimosso per i
cattivi successi della guerra e perché incolpato dal popolo della fame
sofferta sotto il suo governo.
Quando uscì in carrozza da viaggio dal palazzo di corte,
con due trombetti a cavallo davanti, fu accolto con gran fischiare dai ragazzi
che erano radunati sulla piazza del duomo e che gli andarono dietro alla
rinfusa. Entrato nella strada che conduce a Porta Ticinese, si trovò in mezzo
a una folla di gente che gridava: «La va via la carestia, va via il sangue
dei poveri», e peggio. Quando fu vicino alla porta, cominciarono anche a
tirar sassi, mattoni, torsoli, bucce d’ogni sorta, la munizione solita di
queste spedizioni.
In luogo di don Gonzalo fu mandato il marchese Ambrogio
Spinola, il cui nome aveva già acquistato, nelle guerre di Fiandra, quella
celebrità militare che ancora gli rimane.
L’esercito imperiale mette a sacco paesi e villaggi. – L’esercito
alemanno aveva intanto l’ordine di portarsi all’impresa di Mantova ed era
entrato nel ducato di Milano.
La milizia, in quei tempi, era ancora composta in gran
parte da soldati di ventura, i quali, più che dalle paghe, erano attirati a
quel mestiere dalle speranze del saccheggio e da tutti gli allettamenti della
licenza.
L’esercito, di cui parliamo, era composto di ventotto
mila fanti e sette mila cavalli, e, scendendo dalla Valtellina per portarsi
nel Mantovano, doveva seguire tutto il corso che fa l’Adda per due rami del
lago, e poi di nuovo come fiume fino al suo sbocco in Po, e, infine, un buon
tratto di questo fiume: in tutto otto giornate nel ducato di Milano.
Una gran parte degli abitanti si rifugiarono su per i
monti, portandosi quel che avevano di meglio. Quando la prima squadra arrivava
al paese della fermata, si spandeva subito per quello e per i circonvicini, e
li metteva a sacco: ciò che c’era da godere o da portar via, spariva; il
rimanente, lo distruggevano o lo rovinavano, i mobili diventavano legna, le
case stalle: senza contare le busse e le ferite. Quando finalmente se n’erano
andati, si udiva, dopo alcune ore di una quiete spaventosa, un nuovo maledetto
batter di cassa, un nuovo maledetto suono di trombe, che annunziavano un’altra
squadra. Questa, non trovando più da far preda, con tanto più furore faceva
sperpero del resto, dando fuoco alle case e maltrattando le persone. E così
di peggio in peggio, per venti giorni: ché in tante squadre era diviso l’esercito.
Colico fu la prima terra del ducato, che invasero quei
demoni; si gettarono poi sopra Bellano; di là entrarono nella Valsassina, da
dove sboccarono nel territorio di Lecco.
CAPITOLO XXIX
Don Abbondio si prepara a fuggire. – Chi non ha visto
don Abbondio, il giorno che si sparsero le notizie della calata dell’esercito
e del suo avvicinarsi, non sa bene cosa sia impiccio o spavento. Risoluto di
fuggire prima di tutti e più di tutti, vedeva però, in ogni strada da
prendere, in ogni luogo da ricoverarsi, ostacoli insuperabili e pericoli
spaventosi. Il pover’uomo correva, stralunato e mezzo fuor di sé, per la
casa; andava dietro a Perpetua, per concertare una risoluzione con lei; ma
Perpetua, affaccendata a raccogliere il meglio di casa e a nasconderlo in
soffitta o in altri bugigattoli, passava di corsa, con le mani o con le
braccia piene, e rispondeva: «Or ora finisco di mettere questa roba al
sicuro, e poi faremo anche noi come fanno gli altri». Con questa o con simili
risposte si sbrigava da lui, avendo già stabilito, finita che fosse alla
meglio quella tumultuaria operazione, di prenderlo per un braccio, come un
ragazzo, e di trascinarlo su per una montagna. Don Abbondio, lasciato così
solo, si affacciava alla finestra, e vedendo passare i suoi parrocchiani,
implorava aiuto con una voce mezza di pianto e mezza di rimprovero; ma quelli,
passando curvi sotto il peso della loro povera roba, tiravano di lungo senza
rispondere né guardare in su.
Intanto Perpetua, fattosi dare dal padrone il suo
peculietto, lo sotterrò nell’orto, ai piedi del fico. Poi mise in un
paniere delle munizioni da bocca, collocò in una piccola gerla un po’ di
biancheria e si accinse a scendere in strada.
Agnese propone di recarsi dall’Innominato. – In
quel momento entrò Agnese con una merletta sulle spalle. Risoluta anche lei
di non aspettare ospiti di quella sorte, sola in casa e con ancora un po’ di
quell’oro dell’Innominato, si rammentò che questi le aveva mandate le
più larghe profferte di servizi, e propose a don Abbondio e a Perpetua di
andare tutti insieme a cercar rifugio presso di lui. La proposta parve a
Perpetua un’ispirazione del cielo, e sebbene don Abbondio temesse che l’Innominato
non si fosse convertito davvero, e che in ogni modo si sarebbero cacciati in
una gabbia, la serva lo persuase a prendere il breviario e il cappello e a
porsi in cammino.
Tutti e tre presero per i campi, zitti zitti, pensando
ognuno ai casi suoi, e guardandosi intorno, specialmente don Abbondio, se
apparisse qualche figura sospetta, qualcosa di straordinario.
Dopo un po’ di strada, don Abbondio cominciò a
sospirare, poi si lasciò scappare qualche interiezione, infine prese a
brontolare più di seguito. Se la prendeva col duca di Nevers, che avrebbe
potuto stare in Francia a godersela; con l’imperatore, che avrebbe dovuto
aver giudizio più degli altri; e principalmente col governatore, che avrebbe
dovuto tener lontani i flagelli dal paese, mentre era lui che li attirava per
il gusto di fare la guerra. Ma Perpetua aveva altro per la testa, poiché
pensava a quello che non aveva nascosto o non aveva nascosto bene, suscitando
i rimproveri del suo padrone. Agnese interrompeva quei contrasti, entrando
anche lei a parlare dei suoi guai, principalmente di vedere svanita la
speranza di riabbracciare presto la sua Lucia, poiché donna Prassede non
sarebbe venuta quell’autunno a villeggiare da quelle parti, in tali
circostanze.
Usciti dai sentieri, presero la strada pubblica e giunsero
al paese del sarto.
La sosta presso la casa del sarto. – Agnese propose
di fare una visita presso la casa del sarto, dove furono ricevuti a braccia
aperte. Poiché era l’ora del desinare, dopo un po’ di cerimonie da una
parte e dall’altra, si venne a patti d’accozzar, come si dice, il
pentolino e di desinare in compagnia. Il sarto ordinò a una bambina (quella
che aveva portato quel boccone a Maria vedova) che andasse a diricciare
quattro castagne primaticce e le mettesse ad arrostire; disse a un ragazzo di
andare nell’orto a dare una scossa al pesco, e ad un altro di cogliere
quattro fichi dei più maturi. Lui, andò a spillare una sua botticina, la
donna a prendere un po’ di biancheria da tavola. Desinarono, se non con
grande allegria, almeno con molta più che nessuno dei commensali si fosse
aspettato di averne in quella giornata.
Mentre desinavano, il sarto si mise a parlare di quello
scombussolamento, del buon ricovero che si erano scelto (dove già si era
rifugiata molta gente), della santa vita dell’Innominato, del suo castello
che era diventato come una Tebaide.
Alzati poi da tavola, il sarto mostrò ad Agnese una stampa
rappresentante il cardinale, che teneva attaccata a un battente dell’uscio,
in venerazione del personaggio, ed anche per poter dire, a chiunque capitasse,
che non era somigliante; poiché lui aveva potuto esaminare da vicino e con
comodo il cardinale in persona, in quella medesima stanza.
Ma don Abbondio faceva fretta. Il sarto trovò il baroccio
per farli condurre ai piedi della salita, e in tal modo poterono principiare,
con un po’ d0agio e di tranquillità, la seconda metà del viaggio.
La vita dell’Innominato dopo la conversione. – Il
sarto aveva detto la verità a don Abbondio intorno all’Innominato. Infatti,
dal giorno della conversione, aveva sempre continuato a fare ciò che allora
si era proposto: compensar danni, chieder pace, soccorrere poveri, sempre del
bene in somma. Andava sempre solo e senz’armi, disposto a tutto quello che
gli potesse accadere dopo tante violenze commesse. Con tutto ciò era rimasto
non meno inviolato di quando teneva armate, per la sua sicurezza, tante
braccia. La rimembranza dell’antica ferocia e la vista della mansuetudine
presente cospiravano a procacciargli un’ammirazione, che gli serviva di
salvaguardia.
Queste medesime ed altre cagioni allontanavano pure da lui
le vendette della forza pubblica, e gli procuravano, che da questa parte, la
sicurezza della quale non si dava pensiero.
Così quell’uomo sul quale, se fosse caduto, sarebbero
accorsi a gara grandi e piccoli a calpestarlo, messosi volontariamente a
terra, veniva risparmiato da tutti e inchinato da molti.
Anche la più parte degli sgherri di casa, che non avevano
potuto accomodarsi alla nuova disciplina, se n’erano andati. Quelli che si
erano potuti avvezzare, per lo più nativi della valle, erano tornati ai
campi, o ai mestieri imparati nella prima età; i forestieri erano rimasti nel
castello come servitori.
L’Innominato accoglie nel suo castello i fuggiaschi dei
paesi invasi. – Quando, al calar delle bande alemanne, alcuni fuggiaschi
di paesi invasi o minacciati capitarono su al castello a chieder ricovero, l’Innominato
accolse quegli sbandati, con espressioni piuttosto di riconoscenza che di
cortesia; fece sparger la voce che la sua casa era aperta a chiunque ci si
volesse rifugiare; e mise in stato di difesa la valle e il castello, semmai
lanzichenecchi o cappelletti volessero provarci di venirci a far delle loro.
Armò i servitori che gli erano rimasti; fece dire ai suoi
contadini e affittuari, che chiunque si sentiva, venisse con armi al castello;
stabilì posti di guardia e turni di vigilanza.
Nello stesso tempo fece preparare nel castello alloggio a
quante persone fosse possibile; fece venire provvisioni abbondanti; mentre
egli non istava mai fermo, mantenendo l’ordine con le parole, con gli occhi,
con la presenza.
CAPITOLO XXX
Verso il castello dell’Innominato. – Quantunque il
concorso maggiore non fosse dalla parte per cui i nostri tre fuggitivi si
avvicinavano alla valle, ma all’imboccatura opposta, tuttavia essi
cominciarono a trovar compagni di viaggio e di sventura, che da traverse e
viottole erano sboccati o sboccavano nella strada.
Ma questo fatto non rallegrava don Abbondio, poiché temeva
che il radunarsi di tanta gente in un luogo attirasse i soldati per forza, e,
in tal modo, avrebbe potuto trovarsi nel mezzo di una battaglia. Quando, all’entrata
della valle, vide un buon posto d’armati, si chiese se l’Innominato
volesse far la guerra; e poiché Perpetua mostrava fiducia in quegli
apprestamenti difensivi, egli borbottò che il mestiere dei soldati è quello
di prender le fortezze, e che per loro dare un assalto è come andare a nozze,
perché tutto quello che trovano è per loro e passano la gente a fil di
spada.
Alla Malanotte trovarono un altro picchetto di armati, ai
quali don Abbondio fece una scappellata, benché provasse l’impressione di
essere capitato in un accampamento. Qui il baroccio si fermò e i tre
iniziarono a piedi la salita.
L’Innominato accoglie i tre fuggitivi. – Ad un
tratto apparve l’Innominato, che riconosciuto don Abbondio, andò incontro
ai tre fuggitivi, facendo loro le più liete accoglienze. Don Abbondio gli
presentò Agnese, come una donna alla quale egli aveva già fatto del bene e
madre di Lucia; e l’Innominato esclamò a testa bassa: «Del bene, io! Dio
immortale! Voi, mi fate del bene a venir qui…. Da me… in questa casa siate
la benvenuta. Voi ci portate la benedizione». Poi domandò premurosamente
notizie di Lucia, e, sapute che l’ebbe, si voltò per accompagnare al
castello i nuovi ospiti. Entrati nel castello, il signore fece condurre Agnese
e Perpetua in una stanza del quartiere assegnato alle donne, e don Abbondio in
una camera del quartiere degli uomini, destinata agli ecclesiastici.
I tre si trattengono nel castello circa un mese. – I
nostri fuggitivi si trattennero nel castello ventitré o ventiquattro giorni,
senza che accadesse nulla di straordinario. Non passò forse giorno che si
desse all’armi; ma l’Innominato mandava uomini ad esplorare, e, se faceva
bisogno, prendeva con sé della gente e andava con essa dalla parte dov’era
indicato il pericolo. Le più volte non erano che foraggieri e saccheggiatori
sbandati, che si ritiravano prima di essere sorpresi. Ma una volta, avendo
appreso che un paesetto vicino era messo a sacco, vi arrivò di sorpresa, e i
ribaldi, che avevano creduto di non andare che alla preda, lasciarono il
saccheggio a mezzo e fuggirono in fretta.
Agnese e Perpetua, per non mangiare il pane a ufo, avevano
voluto essere impiegate nei servizi che richiedeva una così grande
ospitalità, e in questi spendevano una buona parte della giornata; il resto
nel chiacchierare con certe amiche che s’erano fatte e col povero don
Abbondio.
Questi non aveva nulla da fare, ma non s’annoiava,
poiché la paura gli teneva compagnia. In tutto il tempo che stette in quell’asilo,
non se ne discostò mai quanto un tiro di schioppo, né mai mise piede sulla
discesa: l’unica sua passeggiata era d’uscire sulla spianata, e d’andare,
quando da una parte e quando dall’altra del castello, a guardar giù per le
balze e per i burroni, per studiare se ci fosse qualche passo un po’
praticabile, qualche po’ di sentiero, per dove cercare un nascondiglio in
caso di serra serra.
I tre lasciano il castello. – Frattanto si cercava di
avere informazioni sui reggimenti che passavano di mano in mano il ponte di
Lecco, poiché quelli si potevano considerare come andati, e fuori veramente
dal paese. Finalmente, quando piacque al cielo, passarono anche i reggimenti
di Galasso, che fu l’ultimo. Già quelli delle terre invase per prime erano
partiti dal castello, e ogni giorno ne partivano, come, dopo un temporale d’autunno,
si vede dai palchi fronzuti di un grande albero uscire da ogni parte gli
uccelli che ci si erano riparati.
I nostri furono forse gli ultimi ad andarsene, e ciò per
volere di don Abbondio, il quale temeva, se si fosse tornati subito a casa, di
trovare ancora in giro lanzichenecchi rimasti indietro sbrancati; mentre
Perpetua insisteva a dire che, quanto più s’indugiava, tanto più si dava
agio ai birboni del paese di entrare in casa a portare via il resto.
Il giorno fissato per la partenza l’Innominato fece
trovare pronta alla Malanotte una carrozza, nella quale aveva già fatto
mettere un corredo di biancheria per Agnese. E tiratala in disparte, le fece
anche accettare un gruppetto di scudi, per riparare al guasto che avrebbe
trovato in casa, quantunque essa, battendo le mani sul petto, andasse
ripetendo che ne aveva lì ancora dei vecchi. Volle accompagnare tutti e tre
gli ospiti fino alla carrozza, dove ricevette i ringraziamenti umili e
sviscerati di don Abbondio e i complimenti di Perpetua.
Una fermatina dal sarto. – Durante il ritorno fecero,
secondo il fissato, una fermatina, ma senza neppur mettersi a sedere, nella
casa del sarto, dove sentirono raccontare cento cose del passaggio: la solita
storia di ruberie, di percosse, di sperpero, di sporcizia; ma lì, per buona
sorte, non si erano visti lanzichenecchi.
Il ritorno al paese. – Quando giunsero al paese, trovarono quello che
si aspettavano. Agnese fece posare i fagotti in un canto del cortiletto che
era rimasto il luogo più pulito della casa; ma guardando, capo per capo, la
biancheria regalata, e contando quei nuovi ruspi, diceva tra sé di essere
caduta in piedi.
Don Abbondio e Perpetua, invece, entrarono in casa senza aiuto di chiavi;
ogni passo che facevano nell’andito, sentivano crescere un tanfo, un veleno,
una peste, che li respingevano indietro; con la mano al naso, andarono all’uscio
di cucina; entrarono in punta di piedi, studiando dove metterli, per scansare
la porcheria che copriva il pavimento. Non c’era nulla d’intero: piume e
penne delle galline di Perpetua, pezzi di biancheria, fogli dei calendari di
don Abbondio, cocci di pentole e di piatti. I guastatori avevano anche
scarabocchiati i muri di figuracce, ingegnandosi, con certe berrettine o con
certe chieriche, di farne dei preti orribili e ridicoli.
Don Abbondio e Perpetua, per un altro uscio, si recarono difilato nell’orto,
ma già prima di aggiungere al fico, videro la terra smossa, e, invece del
morto, la buca aperta. Qui nacquero dei guai, perché don Abbondio cominciò a
prendersela con Perpetua, che non aveva nascosto bene, mentre questa,
naturalmente, non rimase zitta.
Come se ciò non bastasse, quel disastro fu una semenza d’altre questioni
molto noiose, perché Perpetua, a forza di chiedere e domandare, venne a
sapere che alcune masserizie del suo padrone, credute preda dei soldati, erano
invece sane e salve in casa di gente del paese; e tempestava il padrone che si
facesse sentire e richiedesse il suo. Ma tasto più odioso non si poteva
toccare per don Abbondio, poiché la sua roba era in mano di birboni, cioè di
quella specie di persone con cui gli premeva più di stare in pace.
Questi terrori non erano ancora cessati, che uno nuovo ne sopraggiunse. E
questa volta si trattava ben altro che d’un disastro passeggero.
CAPITOLO XXXI
La peste. – La peste, che il Tribunale della Sanità
aveva temuto che potesse entrare con le bande alemanne nel Milanese, c’era
entrata davvero; e non si fermò qui ma invase e spopolò una buona parte d’Italia.
Per tutta la striscia di territorio percorsa dall’esercito, si era trovato
qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in questo e
in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali
violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte dei viventi.
C’erano soltanto alcuni a cui non riuscirono nuovi, cioè
quei pochi che potevano ricordarsi della peste precedente, infierita nel 1576,
che aveva desolato buona parte d’Italia, e che nel Milanese fu chiamata la
peste di san Carlo per l’eroica carità spiegata in quella circostanza da
quel grande arcivescovo. Tra essi era il protofisico Lodovico Settala, ormai
ottuagenario, il quale riferì il 20 ottobre al Tribunale della Sanità che
nella terra di Chiuso (l’ultima del territorio di Lecco e confinante col
Bergamasco) era scoppiato indubitatamente il contagio. Sopraggiunsero poi
avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano.
Il Tribunale inviò dapprima un commissario e un medico a
visitare i luoghi indicati, ma tutti e due, o per ignoranza o per altro, si
lasciarono persuadere da un barbiere che non si trattava di peste, ma dei
disagi e degli strapazzi sofferti nel passaggio degli imperiali. Più tardi,
arrivando senza posa altre notizie di morti, inviò il medico Tadino e un
auditore del Tribunale, i quali non poterono fare a meno di denunciare il
flagello, ormai troppo evidente ed esteso. Essi furono incaricati di esporre
lo stato delle cose al governatore Ambrogio Spinola, il quale rispose di
provarne molto dispiacere, ma che i pensieri della guerra erano più
pressanti: sed helli graviores esse curas (Ripamonti).
Anche la popolazione di Milano credeva poco alla peste e
attribuiva quella mortalità alla carestia dell’anno precedente, alle
angherie delle soldatesche e alle afflizioni dell’animo.
Un soldato porta la peste a Milano. – Il Tadino e il
Ripamonti dicono che il primo che portò la peste a Milano fu un soldato al
servizio della Spagna, il quale, verso i primi di novembre del 1629, entrato
in città con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni,
si fermò in una casa di suoi parenti, nel borgo di Porta Orientale; ma,
appena arrivato, si ammalò, fu portato all’ospedale, dove gli si scoprì un
bubbone sotto l’ascella, e il quarto giorno morì.
Il soldato lasciò un semino che non tardò a germogliare.
Il padrone di casa e tutti i pigionali furono, d’ordine della Sanità,
condotti al lazzaretto, dove i più s’ammalarono e alcuni morirono.
Il contagio si propagò lentamente per tutto il resto dell’anno
e nei primi mesi del seguente 1630; ma la moltitudine, per la radezza dei
casi, si confermava sempre più nella stupida e micidiale fiducia che non ci
fosse peste, e faceva di tutto per sfuggire il lazzaretto e per evitare la
confisca e la distruzione delle robe infette o sospette.
Avvenne perfino che il protofisico Lodovico Settala, chiaro
per scienza e nobiltà di vita, un giorno che andava in bussola a visitare i
suoi ammalati, fu fatto oggetto agli insulti della gente, che gridava esser
lui il capo di coloro che volevano che ci fosse la peste.
La peste si diffonde sempre più. – Ma sul finire del
mese di marzo cominciarono, prima nel borgo di Porta Orientale, poi in ogni
quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti
strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne
funeste di lividi e di bubboni.
Nel lazzaretto, dove la popolazione andava ogni giorno crescendo, era un’ardua
impresa quella di assicurare il servizio e la subordinazione. Il Tribunale
della Sanità e i decurioni, non sapendo dove battere il capo, pensarono di
rivolgersi ai cappuccini, i quali misero a disposizione un padre Felice
Casati, uomo d’età matura, ma che godeva una gran fama di carità e di
attività, a quel che il seguito fece vedere, ben meritata.
Di mano in mano, poiché la miserabile, radunanza andò crescendo, vi
accorsero altri cappuccini, infermieri, cucinieri, guardarobieri, lavandai,
tutto ciò che occorresse. La maggior parte di essi lasciarono la vita e tutti
con allegrezza.
Gli untori. – Anche nel pubblico quella caparbietà
di negar la peste andava naturalmente cedendo, di mano in mano che il morbo si
diffondeva per via del contatto e della pratica: ma allora la caparbietà
convinta, lungi dal riconoscere il proprio torto, andò cercando qualche altra
causa, che non fosse la naturale: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente
congiurata a sparger la peste per mezzo di veleni contagiosi e di malie.
Alcuni credettero di vedere, la sera del 17 maggio persone
in duomo che ungevano un assito che serviva a dividere gli spazi assegnati ai
due sessi; e quantunque il presidente della Sanità, accorso a far la visita,
non trovasse nulla che potesse confermare quel sospetto, l’assito e una
quantità di panche rinchiuse in quello furono portati fuori dalla chiesa.
La mattina seguente un nuovo e più strano spettacolo
colpì gli occhi e la mente dei cittadini. In ogni parte della città si
videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrisi di
una sudiceria giallognola, biancastra, che vi era stata sparsa sopra come con
delle spugne. La città già agitata, ne fu sottosopra: i padroni delle case,
con paglia accesa, Abbruciacchiavano gli spazi unti: i passeggeri si
fermavano, guardavano, inorridivano, fremevano. Si fecero interrogatori,
esami, d’arrestati, di testimoni, ma non si trovò reo nessuno.
Mentre il Tribunale cercava, molti del pubblico, come
accadde, avevano già trovato: chi voleva che fosse una vendetta di don
Gonzalo Fernandez de Cordova per gli insulti ricevuti nella sua partenza: chi
un ritrovato del cardinale di Richielieu per spopolare Milano e impadronirsene
senza fatica; chi ne voleva autore il conte di Collalto, e via dicendo.
Il popolo crede finalmente alla peste. – C’era, del
resto, un certo numero di persone non ancora persuase che questa peste ci
fosse. Per levare ogni dubbio il Tribunale della Sanità trovò un espediente
proporzionato al bisogno. In una delle feste della Pentecoste, in cui i
cittadini usavano concorrere al cimitero di san Gregorio, fuori di Porta
Orientale, a pregare per i morti dell’altro contagio, fece portare su un
carro scoperto i cadaveri ignudi di un’intera famiglia morta di contagio,
affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della
pestilenza.
La peste fu più creduta; ma del resto andava acquistandosi
fede da sé, ogni giorno di più; e quella riunione medesima non dovette
servir poco a propagarla.
CAPITOLO XXXII
I decurioni si rivolgono per aiuto al governatore. – Divenendo
sempre più difficile il supplire alle esigenze dolorose della circostanza,
furono inviati due decurioni al governatore, affinché, per leggi e
consuetudini non interrotte, il fisco si assumesse le spese della peste; ma il
governatore diede una risposta evasiva e inconcludente. Qualche tempo dopo,
nel colmo della peste, trasferì con lettere patenti, la sua autorità a
Ferrer, avendo lui, come scrisse, da pensare alla guerra.
La quale guerra, sia detto incidentalmente, dopo aver
portato via un milione di persone, a dir poco, per mezzo del contagio, finì
col riconoscimento del nuovo duca, per escludere il quale la guerra era stata
intrapresa.
I decurioni si rivolgono al cardinal Federigo. – Nello
stesso tempo i decurioni pregarono il cardinal Federigo che si facesse una
processione solenne, portando per la città il corpo di san Carlo.
Il buon prelato rifiutò, sia perché temeva che quella
fiducia in un mezzo arbitrario, se l’effetto non avesse corrisposto, si
cambiasse in scandalo; sia perché pensava che il radunarsi di tanta gente
favorisse il perverso lavoro degli untori, o, se questi non esistevano, la
diffusione del contagio.
Il sospetto delle unzioni si era infatti ridestato più
generale e più famoso di prima. Si diceva che tale veleno fosse composto di
rospi, di serpenti, di bava e di materia d’appestati, di tutto ciò che
selvagge e stravolte fantasie sapessero trovare di sozzo e di atroce. Un
giorno, nella chiesa di sant’Antonio, un vecchio più che ottuagenario che,
volendo mettersi a sedere, aveva spolverato la panca con la cappa, fu creduto
untore, e fu trascinato con pugni e calci in prigione. Tre giovani francesi,
venuti per vedere l’Italia, essendosi accostati a non so quale parte esterna
del duomo, come per accertarsi che era marmo, stesero la mano a toccare.
Furono circondati, afferrati, malmenati, spinti a furia di percosse alle
carceri. Per buona sorte il palazzo di giustizia era poco lontano dal duomo;
e, per una sorte ancor più felice, furono trovato innocenti e rilasciati.
Ma i decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio
prelato, replicarono le loro istanze; e Federigo, dopo aver resistito ancora
qualche tempo, acconsentì che si facesse la processione, e, inoltre, che la
cassa dove erano rinchiuse le reliquie di san Carlo rimanesse per otto giorni
sull’altare maggiore del duomo.
Cresce la furia del contagio. – Il giorno seguente la
processione, le morti crebbero in ogni parte della città, e, in poco tempo,
non ci fu quasi più casa che non fosse toccata. La popolazione del lazzaretto
salì presto da duemila a dodicimila, e più tardi fino a sedicimila; la
mortalità giornaliera arrivò, secondo il calcolo più comune a
milleduecento, a millecinquecento, e, secondo il Tadino, a più di
tremilacinquecento. La popolazione, che, prima della peste, passava le
duecentocinquantamila anime, dopo la peste fu ridotta a poco più di
sessantaquattromila.
Commissari, apparitori, monatti. – Si pensi ora in
che angustie dovessero trovarsi i decurioni. Bisognava ogni giorno sostituire
o aumentare serventi pubblici di varie specie: commissari, apparitori,
monatti.
I commissari regolavano gli apparitori e i monatti, secondo
gli ordini immediati del Tribunale della Sanità. Gli apparitori dovevano
precedere i carri, avvertendo col suono di un campanello i passeggeri che si
ritirassero; i monatti (forse, essendo quegli uomini arruolati la più parte
nella Svizzera e nei Grigioni, dal tedesco monathlich, mensuale, cioè
stipendiato per un mese) erano addetti ai servizi più penosi e pericolosi
della pestilenza, come levar dalle case i cadaveri, condurli sui carri alle
fosse e sotterrarli, portare al lazzaretto gli infermi, bruciare la roba
infetta e sospetta.
Esempi di carità. – Dove spiccò una più generale e
più pronta e costante fedeltà ai doveri difficili della circostanza fu negli
ecclesiastici. Più di sessanta parroci, gli otto non all’incirca, morirono
di contagio.
Il cardinale Federigo dava a tutti incitamento ed esempio,
e sebbene tutti insistessero affinché si allontanasse dal pericolo, non volle
abbandonare la città. Visitava i lazzaretti, per dar consolazione agli
infermi e per animare i serventi; scorreva la città, portando soccorso ai
poveri sequestrati nelle case, fermandosi agli usci, sotto le finestre, ad
ascoltare i loro lamenti, a dare in cambio parole di consolazione e di
coraggio. Si cacciò insomma nel mezzo della pestilenza, meravigliato anche
lui alla fine di uscirne illeso.
Esempi di perversità. – Ma di fronte a queste
sublimazioni di virtù non mancò, come d’ordinario nei pubblici infortuni,
un aumento ben più generale di perversità.
I monatti e gli apparitori erano generalmente uomini, sui
quali l’attrattiva delle rapine e della licenza poteva più che il terrore
del contagio. Costoro erano sottoposti a strettissime regole e a severissime
pene; ma, crescendo ogni giorno il numero di quelli che morivano, non ebbero
quasi più nessuno che li tenesse a freno, e divennero gli arbitri di ogni
cosa. Entravano da padroni nelle case, e, senza parlare dei rubamenti, e del
modo con cui trattavano gli infermi, mettevano le loro mani infette e
scellerate sui sani, figliuoli, parenti, mogli, mariti, minacciando di
trascinarli al lazzaretto se non si riscattavano con denari. Altre volte
mettevano a prezzo i loro servizi, ricusando di portar via i cadaveri già
putrefatti, a meno di tanti scudi. Si disse persino che monatti e apparitori
lasciassero cadere apposta dai carri robe infette, per propagare e mantenere
la pestilenza, divenuta per essi un’entrata, un regno, una festa.
Altri sciagurati, fingendosi monatti, portando un
campanello attaccato a un piede, com’era prescritto a quelli, s’introducevano
nelle case a farne di tutte le sorti.
Esempi di pazzia. – Del pari con la perversità
crebbe la pazzia, rinforzando e ingrandendo la paura speciale delle unzioni.
Si raccontava, ad esempio, che un tale, in tal giorno,
aveva visto arrivare sulla piazza del duomo un tiro a sei, e dentro un gran
personaggio, con una faccia fosca e infuocata, con gli occhi accesi, coi
capelli ritti, e il labbro atteggiato a minacce. Quel tale era stato invitato
a salire, e dopo diversi rigiri era entrato in un palazzo, dove aveva trovato
amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale, e in esse fantasmi
seduti a consiglio. Finalmente gli erano state fatte vedere gran casse di
denaro, e gli era stato detto che ne prendesse quanto gli fosse piaciuto,
purché accettasse un vasetto d’unguento e andasse con esse ungendo la
città. Ma, non avendo voluto acconsentire, si era trovato, in un batter d’occhio,
nel medesimo luogo dove era stato preso.
D’ugual valore, se non in tutto d’ugual natura, erano i
sogni dei dotti. La più parte di essi vedeva la ragione dei guai in una
cometa apparsa nel 1628, e in una congiunzione di Saturno con Giove. Citavano
cento autori, che avevano trattato dottrinalmente di veleni, di malie, di
unti, di polveri; e specialmente quel funesto Delrio, che con le sue
Disquisizioni magiche, fu, per più d’un secolo, norma e impulso potente di
legali, orribili, non interrotte carneficine.
Perfino i medici, che fin da principio avevano creduto alla
peste, tra i quali lo stesso Tadino, si piegarono alla credenza degli untori;
perfino Federigo ebbe qualche dubbio.
Solo alcuni pensarono che tutto fosse immaginazione, ma non
furono così arditi da manifestare un tale sentimento: il buon senso c’era,
ma se ne stava nascosto per paura del senso comune.
I processi contro gli untori. – I magistrati, sempre
più smarriti e confusi, si diedero a cercare questi untori. Una lettera del
gran cancelliere, conservata nell’archivio di san Fedele, informa il
governatore che in una casa di campagna dei fratelli Gerolamo e Giulio Monti,
milanesi, si componeva veleno in gran quantità, con l’assistenza di quattro
cavalieri bresciani, i quali facevano venire i materiali dal Veneto; ma che
uno dei fratelli, avvertito a tempo aveva potuto trafugare gli indizi del
delitto. La cosa dovette finire in nulla, ma purtroppo in altre occasioni si
credette di aver trovato.
I processi che ne vennero in conseguenza non furono i primi
di tal genere, e non si possono neppur considerare una rarità nella storia
della giurisprudenza.
Ma l’affare delle così dette unzioni di Milano fu
certamente il più celebre, e, poiché sono rimasti documenti più
circostanziati e più autentici, anche il più osservabile.
Perciò il Manzoni promette di trattarne per esteso in un
altro suo scritto (che fu la Storia della colonna infame).
CAPITOLO XXXIII
Don Rodrigo è colto dalla peste. – Una notte, verso
la fine di agosto, proprio nel colmo della peste, tornava don Rodrigo a casa
sua, in Milano, accompagnato dal fedel Griso, l’uno dei tre o quattro bravi,
che, di tutta la famiglia, gli erano rimasti vivi. Tornava da un ridotto d’amici,
soliti a straviziare insieme, per passare la malinconia di quel tempo. Quel
giorno don Rodrigo era stato uno dei più allegri; e tra l’altre cose aveva
fatto ridere tanto la compagnia con una specie d’elogio funebre del conte
Attilio, portato via dalla peste due giorni prima.
Camminando, però, sentiva un malessere, una fiacchezza di
gambe, una gravezza di respiro, un’arsione interna, che avrebbe voluto
attribuire solamente al vino, alla veglia, alla stagione.
Appena a casa, ordinò al Griso che gli facesse lume per
andare in camera, e poiché questo, intuendo la vera natura di quel malessere,
gli stava alla lontana, lo rassicurò dicendo che stava benone, ma che aveva
bevuto forse un po’ troppo.
Il sogno di don Rodrigo. – Quando fu a letto, le
coperte gli parvero una montagna, e, sebbene le buttasse via, sentì crescere
il caldo e la smania. Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente si addormentò, e
cominciò a fare i più brutti e arruffati sogni del mondo. A un tratto gli
parve di trovarsi in una gran chiesa, in mezzo a una folla dai visi gialli,
distrutti, con gli occhi incantati e le labbra spenzolare, con certi vestiti
che cascavano a pezzi e che lasciavano intravedere macchie e bubboni. Egli
chiedeva loro di far largo, per poter raggiungere la porta, ma quegli
insensati, invece di scostarsi gli stavano più addosso, e soprattutto gli
pareva che qualcuno di loro, con i loro gomiti o con altro, lo pigiasse a
sinistra, tra il cuore e l’ascella, dove sentiva una punta dolorosa.
Infuriato, volle metter mano alla spada, ma gli parve appunto che, per la
calca, questa gli fosse andata su, e il pomo di essa lo premesse in quel
luogo. Avrebbe voluto gridare, ma gli parve a un tratto che tutti quei visi si
volgessero verso il pulpito, da cui spuntava un cranio lucido, poi due occhi,
un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto fino alla cintola, fra
Cristoforo. Questi, fulminato uno sguardo in giro su tutto l’uditorio, parve
a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell’attitudine
appunto che aveva presa in quella sala e terreno del suo palazzotto. Tentò
allora di afferrare quella mano, cacciò un grand’urlo e si destò.
Quando si fu raccapezzato, tutto era sparito, fuorché quel
dolore dalla parte sinistra. Esitò qualche momento, prima di guardare dove
aveva il dolore; finalmente vi diede un’occhiata paurosa e vide un sozzo
bubbone d’un livido paonazzo.
Il tradimento del Griso. – L’uomo si vide perduto:
il terrore della morte l’invase, e, più forte ancora, quello di diventar
preda dei monatti, di esser portato al lazzaretto. Chiamò il Griso e lo
pregò di chiamare il Chiodo chirurgo, un galantuomo che, a pagarlo bene,
teneva segreti gli ammalati. Uscito il Griso, don Rodrigo l’accompagnò con
l’immaginazione alla casa del Chiodo, contò i passi, calcolò il tempo. Ad
un tratto sentì uno squillo lontano, ma che pareva venire dalle stanze, non
dalla strada. Gli passò per la testa un orrendo sospetto, balzò a sedere e
vide apparire due monatti, mentre il Griso, nascosto dietro un battente
socchiuso, rimaneva lì a spiare. Cacciò allora una mano sotto il capezzale
per cercare una pistola, ma uno dei monatti gli fu subito addosso, lo
disarmò, lo buttò a giacere; mentre l’altro monatto e il Griso si misero a
scassinare lo scrigno. Don Rodrigo cerò di divincolarsi, lanciando
imprecazioni contro il Griso; ma poi, esaurito dagli sforzi, ricadde rifinito
e stupido. I monatti lo posero su una barella e lo portarono via.
La morte del Griso. – Il Griso fece un fagotto di
quello che poté portar via, ma, nella furia del frugare, prese, vicino al
letto, i panni del padrone e li scosse per vedere se ci fosse denaro. Il
giorno dopo, mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli vennero a un
tratto dei brividi, gli s’abbuiarono gli occhi e cascò. Abbandonato dai
compagni, andò in mano dei monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso,
lo gettarono su un carro, dove spirò prima di arrivare al lazzaretto.
Renzo torna al suo paese. – Frattanto Renzo era
rimasto nel nuovo filatoio, sotto il nome di Antonio Rivolta, cinque o sei
mesi; poi, dichiarata l’inimicizia fra Venezia e il re di Spagna, e cessato
quindi ogni timore di ricerche, il cugino Bortolo l’aveva ripreso con sé.
Più d’una volta, specialmente dopo aver ricevuta qualcuna di quelle
benedette lettere da parte di Agnese, gli era saltato il grillo di farsi
soldato, ma Bortolo, con buone maniere, aveva sempre saputo smuoverlo da
quella risoluzione. Altre volte voleva ritornare di nascosto al paese,
travestito e con nome finto, ma Bortolo seppe anche da questo svolgerlo con
buone maniere.
Scoppiata la peste, anche Renzo ne fu colpito, ma la buona
complessione vinse la forza del male e in pochi giorni si trovò fuori di
pericolo. Sentì allora più che mai il desiderio di rivedere Lucia, e,
approfittando della confusione provocata dalla peste, decise di recarsi a
Milano. Si diresse però prima verso Lecco, volendo passar dal paese, dove
sperava di trovare Agnese e sapere da lei qualcuna delle tante cose che si
struggeva di sapere.
L’incontro con Tonio e con don Abbondio. – Verso
sera scoprì il suo paese. A quella vista, quantunque vi fosse preparato, si
sentì dare come una stretta al cuore, e un turbamento ancor più forte provò
allo sboccare sulla piazzetta davanti alla chiesa.
A un tratto vide un uomo in camicia, seduto in terra, con
le spalle appoggiate a una siepe, in attitudine d’insensato. Gli parve di
raffigurare quel povero mezzo scemo di Gervaso, che era venuto come testimonio
alla sciagurata spedizione; ma essendoglisi avvicinato, dovette accertarsi che
era invece il fratello Tonio, il quale, avendo perduto per la peste il vigore
del corpo e della mente, non sapeva dir altro che «A chi tocca, la tocca»,
con un certo sorriso.
Più oltre, vide spuntare da una colonnata e venire avanti
una cosa nera, che riconobbe subito per don Abbondio. Camminava adagio adagio,
appoggiato a un bastone, e, di mano in mano che si avvicinava, si poteva
sempre più riconoscere nel suo volto pallido e smunto che anche lui doveva
aver passato la sua burrasca. Renzo gli andò incontro, allungando il passo, e
gli fece una riverenza: ché, sebbene si fossero lasciati come sapete, era
sempre il suo curato.
Il giovane gli chiese subito di Lucia e apprese che era a
Milano; gli chiese poi di Agnese, e seppe che era andata nella Vasassina, da
certi suoi parenti, a Pasturo; gli chiese infine di padre Cristoforo, ma
sentì che non era più tornato da quelle parti.
Don Abbondio, a sua volta, temendo che Renzo potesse dargli
ancora delle noie, gli ricordò la cattura, e lo esortò a tornare da dove era
venuto; poi aggiunse che aveva avuto la peste e, cominciando da Perpetua,
nominò una filastrocca di persone e di famiglie intere che erano morte dello
stesso male.
Presso un amico. – Renzo, addolorato per tali
notizie, si congedò dal curato, e pensò di passar quella sera presso un suo
compagno d’infanzia, che, dall’enumerazione dei morti fattagli da don
Abbondio, risultava scampato al contagio. Passò davanti alla sua vigna, che
trovò piena di erbacce; mise piede sulla soglia di casa, ma la trovò piena
di topi, di sudiciume e di ragnatele. Se ne andò via con le mani nei capelli,
e arrivò, mentre gli faceva buio, alla casa dell’amico.
L’amico era sull’uscio, e dapprima scambiò Renzo per
Paolin dei morti, che lo tormentava sempre perché lo aiutasse a sotterrare;
poi lo riconobbe e gli fece un’accoglienza festosa.
Renzo apprese da lui che don Rodrigo se n’era andato con
la coda tra le gambe e non s’era più veduto da quelle parti; seppe anche il
casato di don Ferrante, che era per lui l’unico filo per andar in cerca di
Lucia.
Renzo si reca a Milano alla ricerca di Lucia. – Decise
perciò di andare prima di tutto a Milano per avere notizie della sua promessa
sposa, e poi di recarsi a Pasturo per riferire ad Agnese.
Allo spuntar del giorno, lasciato presso l’ospite il
fagottino dei suoi panni per andar più lesto, si mise in cammino. Passando
per Monza comprò due pani da un fornaio, che gli porse su una pala una
scodelletta, con dentro acqua e aceto, dicendogli che buttasse lì i danari, e
poi, con certe molle, gli porse l’uno dopo l’altro i due pani. Verso sera
fu a Greco, dove passò la notte su un fienile, poiché con osterie non si
voleva impiccare. All’alba si rimise in cammino, prendendo per stella polare
il duomo, e, dopo un breve tratto, venne a sbucare sotto le mura di Milano,
tra Porta Orientale e Porta Nuova.
CAPITOLO XXXIV
Renzo riesce a entrare in Milano da Porta Nuova. – Per
evitare il contagio, le autorità avevano dato ordini severissimi di non
lasciare entrare nessuno in Milano senza bulletta di sanità; ma Renzo aveva
sentito che ci si entrava benissimo, se appena ci si sapesse un po’ aiutare
e cogliere il momento. Arrivato sotto le mura, prese la diritta, alla ventura,
andando, senza saperlo, verso Porta Nuova, che era nascosta alla sua vista da
un baluardo. Vi giunse mentre i monatti portavano via il capo dei gabellieri,
a cui poco prima s’era scoperta la peste. Renzo si fermò aspettando che il
convoglio partisse poi, non venendo nessuno a richiudere il cancello, ci si
avviò in fretta. Una guardia, che stava dinanzi a un casotto di legno,
appoggiandosi a un moschetto con una cert’aria stracca e trascurata, gli
gridò «olà!», ma egli tirò fuori un mezzo ducatone, e quello, o che
avesse già avuta la peste, o che la temesse meno di quel che amava i mezzi
ducatoni, gli fece cenno che glielo buttasse, sussurrando: «và innanzi
presto». Renzo non se lo fece dire due volte, se non che, quando ebbe fatti
forse quaranta passi, sentì un altro «olà», che un gabelliere gli gridava
dietro. Questa volta fece le viste di non sentire, e, senza voltarsi nemmeno,
allungò il passo, mentre quello, non essendo ubbidito, alzò le spalle, come
persona a cui premesse più di non accostarsi troppo ai passeggeri che d’informarsi
dei fatti loro.
Un cittadino lo scambia per un untore. – Renzo prese
la strada che andava diritta fino al canale detto il Naviglio, e, vedendo un
cittadino che veniva verso di lui, pensò di farsi insegnare la strada che
conduceva alla casa di don Ferrante. Quando fu poco distante, si levò il
cappello, e, tenendolo con la sinistra, mise l’altra mano nel cocuzzolo; ma
quello, stralunando gli occhi, fece un passo indietro, alzò un nodoso
bastone, e voltata la punta di ferro alla vita di Renzo, gridò: «via! via!
via!». Poi tirò avanti per la sua strada, tutto fremente, e, arrivato a
casa, raccontò che gli si era accostato un untore, con aria umile e mansueta,
e con scatolino dell’unto, o l’involtino della polvere (non era ben certo
quale dei due), nel cocuzzolo del cappello.
Una povera donna con una nidiata di bambini intorno. – Renzo,
pensando che quello sconosciuto doveva essere un mezzo matto, proseguì il suo
cammino, e, giunto nella strada di san Marco, si sentì chiamare da una povera
donna, che stava sul terrazzino di una cosuccia isolata, con una nidiata di
bambini intorno. Essa lo supplicò di avvertire qualche commissario che erano
stati dimenticati e correvano il pericolo di morire di fame, poiché, essendo
morto il marito di peste, avevano inchiodato l’uscio e nessuno era poi
venuto a portar da mangiare. Renzo, commosso, tirò fuori i due pani che aveva
comprato a Monza, e, fattosi calare un paniere, ve li mise dentro, pensando
che era quello il modo migliore di restituire i pani che aveva trovati presso
la croce di san Dionigi, nell’altra sua entrata in Milano. Poi domandò alla
donna dove fosse la casa di don Ferrante, ma questa non gli seppe dare un’indicazione
precisa.
La macchina della tortura e il triste convoglio dei carri
funebri. – Proseguendo il cammino, giunse nella pizza di san Marco, dove
la prima cosa che gli diede nell’occhio fu l’abbominevole macchina della
tortura, che era stata rizzata in quel luogo, e in tutte le piazze e le strade
più spaziose, affinché i deputati d’ogni quartiere potessero punire nel
modo più sbrigativo chiunque paresse loro meritevole di pena. Mentre guardava
quello strumento, vide spuntare dalla cantonata un uomo che scuoteva un
campanello, e dietro a lui un triste convoglio di carri carichi di cadaveri,
guidati e scortati da monatti. Il giovane pregò per quei morti sconosciuti,
mentre gli balenò per la mente l’atroce pensiero che tra quei morti potesse
trovarsi Lucia.
Il prete in farsetto. – Proseguendo ancora il
cammino, riuscì in Borgo Nuovo, dove notò un prete in farsetto, che, ritto
vicino a un uscio socchiuso, finiva di confessare qualcuno. Pensò che quello
fosse l’uomo che facesse per lui, e, quando gli fu vicino, si levò il
cappello e gli accennò che desiderava parlargli, fermandosi nello stesso
tempo in modo da fargli intendere che non si sarebbe accostato di più. Anche
quello si fermò, puntando però in terra un bastoncino davanti a sé, come
per farsene un baluardo. Renzo espose la sua domanda, e il prete non solo gli
disse il nome della strada dove la casa era situata, ma gli diede anche un po’
d’itinerario. Poi il giovane gli raccomandò la povera donna dimenticata.
Lo spettacolo di Milano appestata. – Inoltrandosi
sempre più nella città, giunse al carrobio di Porta Nuova, che, per la furia
del contagio, era stato abbandonato da tutti gli abitanti; e poco oltre
riuscì in un luogo che poteva dirsi città di viventi, ma quale città ancora
e quali viventi! Serrati, per sospetto e per terrore, tutti gli usci di
strada; altri inchiodati, per esser nelle case morta o ammalata gente di
peste: altri segnati con una croce fatta col carbone, per indicare ai monatti
che vi erano dei morti da portar via. Per tutto cenci, e, più ributtanti dei
cenci, fascie marciose, strame ammorbato, talvolta cadaveri lasciati lì fin
che passasse un carro da portarli via. Ovunque un silenzio di morte,
interrotto all’alba, a mezzogiorno, a sera, da una campana del duomo, che
dava il segno di recitar certe preci assegnate dall’arcivescovo.
Inutili precauzioni contro la peste. – Morti a quell’ora
forse i due terzi dei cittadini, andati via o ammalati una buona parte del
resto, non si sarebbe incontrato uno, dei pochi che andavano in giro, in cui
non si vedesse qualcosa di strano. Si vedevano gli uomini più ragguardevoli
senza cappa né mantello, i preti senza sottana e anche i religiosi in
farsetto, per timore che gli svolazzi toccassero zone infette o dessero agio
agli untori. Lunghe le barbe, e lunghe e arruffate le capigliature, perché
erano divenuti sospetti i barbieri, dopo che uno di loro, Giangiacomo Mora,
era stato preso e condannato come un untore. I più tenevano in una mano un
bastone, alcuni anche una pistola, per avvertimento minaccioso a chi avesse
voluto avvicinarsi troppo; altri portavano spugne inzuppate d’aceti
medicati, che di tanto in tanto avvicinavano al naso o ce lo tenevano di
continuo; altri portavano al collo una boccetta con dentro un po’ d’argento
vivo, persuasi che avesse la virtù d’assorbire ogni esalazione
pestilenziale.
La madre di Cecilia. – Renzo aveva già fatto una
buona parte del cammino, quando, in mezzo a una strada, vide quattro carri,
sui quali i monatti non facevano che ammucchiar cadaveri. Egli allungò il
passo, cercando di scansar quegli ingombri; quando il suo sguardo s’incontrò
in una scena di singolare pietà.
Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva
verso il convoglio, una donna, ancor giovane e bella, ma di una bellezza
velata e offuscata da una grande passione e da un languore mortale. I suoi
occhi non davano lacrime, ma portavano segno di averne sparse tante. C’era
nel suo dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima
tutta consapevole e presente a sentirlo. Portava essa in collo una bambina di
forse nove anni, morta; ma tutta ben accomodata, coi capelli divisi sulla
fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata
per una festa promessa da tanto tempo e data in premio.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle
braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione
involontaria; ma quella, tirandosi indietro, lasciò cadere una borsa nella
mano del monatto, e, dato un bacio in fronte alla morticina, la volle
accomodare essa stessa sul carro, dicendole le ultime parole di addio. Poi si
rivolse al monatto, e lo pregò di passare verso sera per prendere anche le, e
non lei sola. Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò
alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi
segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie
della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere, poi
disparve.
Una moltitudine di ammalati condotti al lazzaretto. – Renzo
si era appena riavuto da quella commozione straordinaria, quando gli si
presentò un altro triste spettacolo. Era una moltitudine di ammalati, che
venivano condotti al lazzaretto: alcuni, spinti a forza, resistevano invano,
gridando che volevano morire sul loro letto; altri camminavano in silenzio,
senza mostrare dolore, né alcun altro sentimento.
Passata tutta la comitiva, Renzo domandò a un monatto
della strada e della casa di don Ferrante, ma ebbe per risposta «In malora,
tanghero»; si rivolse allora a un commissario, che veniva in coda al
convoglio, ed ebbe l’indicazione desiderata.
Renzo alla casa di Don Ferrante. – Renzo prese da
quella parte e in breve fu alla casa di don Ferrante. Si accostò al portone,
che era chiuso, mise la mano sul martello, e, dopo un momento di esitazione,
diede un picchio risoluto. Una donna, affacciatasi alla finestra, gli disse
che Lucia si trovava al lazzaretto con la peste, e, a più precise richieste,
gli chiuse la finestra in faccia.
E’ preso un’altra volta per un untore. – Il
giovane, afflitto per quella notizia, e arrabbiato per la maniera con cui era
stato accolto, afferrò allora il martello per picchiar di nuovo alla
disperata; ma una vecchia, distante da lui forse un venti passi, lo prese per
un untore e cominciò a gridare: «L’untore! dagli! dagli! dagli all’untore!».
Allo strillar della vecchia, accorse gente di qua e di là; e anche la donna
sgarbata di prima, riaffacciatasi alla finestra, si mise a gridare:
«Pigliatelo, pigliatelo; che dev’essere uno di que’ birboni che vanno in
giro a unger le porte de’ galantuomini».
Si salva saltando su un carro funebre. – Renzo non
istette lì a pensare: si aprì la strada a urtoni e punzoni, e via di galoppo
col pugno in aria, pronto per qualunque gli fosse venuto tra i piedi. La
strada avanti era libera, ma dietro le spalle sentiva il calpestio e, più
forti del calpestio, quelle grida amare: «Dagli! dagli! all’untore!». Si
fermò allora sui due piedi, mise mano al suo coltellaccio, e col braccio teso
gridò: «Chi ha cuore, venga avanti, canaglia! che l’ungerò io davvero con
questo». Ma, con meraviglia, vide che i persecutori si erano già fermati, e,
pur seguitando ad urlare, facevano con le mani per aria certi cenni da
spiritati e gente che veniva dall’altro capo della strada, e che avrebbe
anch’essa voluto dare addosso all’untore, ma era impedita da un convoglio
di carri funebri, che si avanzava.
Renzo, vistosi tra due fuochi, pensò che ciò che era di
terrore a coloro, poteva essere a lui di salvezza, e, rimesso il coltellaccio
nel fodero, prese la rincorsa verso i cari, passò il primo, e, adocchiato nel
secondo un buon spazio vuoto, spiccò un salto su di esso, tra le esclamazioni
di «bravo! bravo!» dei monatti. Gli inseguitori, all’avvicinarsi del
convoglio, voltarono le spalle; ma poiché qualcuno si ritirava più adagio,
facendo versacci e gesti di minaccia, uno dei monatti, strappato da un
cadavere un laido cencio, fece l’atto di scagliarlo, provocando una foga
generale. Poi i compagni, passandosi un gran fiasco di mano in mano, fecero un
brindisi alla morìa e intonarono una canzonaccia.
Giunge al lazzaretto. – Renzo, frattanto, stava all’erta
per liberarsi dei suoi liberatori. Tutt’a un tratto riconobbe il corso di
Porta Orientale, che, come ricordava dalla sua prima venuta a Milano, portava
diritto al lazzaretto. In quel punto venne incontro ai carri un commissario,
che gridò ai monatti di fermare, iniziando un diverbio rumoroso. Renzo,
approfittando della fermata, si buttò giù dal carro, ringraziando i monatti,
mentre uno di essi gli diceva: «Và, và, povero untorello, non sarai tu
quello che spianti Milano».
Il giovane si trovò in breve dinanzi al lazzaretto, che
già all’esterno brulicava di ammalati: un meschino, seduto tranquillamente
in fondo al fossato, cantava una canzone contadinesca d’amore gaio e
scherzevole; un frenetico, balzato in groppa a un cavallaccio non guardato,
passò di gran carriera, inseguito da monatti urlanti.
Così, già sbalordito e stanco di veder miserie, il
giovane arrivò alla porta di quel luogo, dove ce n’erano adunate forse più
che non ne fossero sparse in tutto lo spazio che gli era toccato di
percorrere.
CAPITOLO XXXV
Renzo al lazzaretto. – Il lazzaretto era un recinto
popolato da sedicimila appestati e pieno di capanne, di baracche, di carri, di
gente, Renzo, dalla porta dove s’era fermato, fino alla cappella del mezzo,
vide un viale sgombro di capanne, e in quello un tramenìo di carri, un portar
via roba per far luogo; e cappuccini e secolari che dirigevano quell’operazione,
e insieme mandavano via chi non ci avesse che fare. Il giovane, temendo d’esser
anche lui messo fuori in quella maniera, si cacciò tra le capanne, facendo
capolino in ognuna, se mai gli venisse fatto di trovare Lucia, ma, non vedendo
nessuna donna, s’immaginò che le donne dovessero essere in un luogo
separato, e si dispose a cercarlo.
L’aria e il cielo accrescono l’orrore del luogo. – L’aria
e il cielo accrescevano, se qualche cosa poteva accrescerlo, l’orrore del
luogo. La nebbia s’era a poco a poco addensata e accavallata in nuvolosi,
tra i quali la sfera del sole spargeva un barlume fioco e sfumato. Ogni tanto
si sentiva un borbottar di tuoni profondo, come tronco e irresoluto. Nelle
campagne d’intorno non si vedeva muoversi un ramo d’albero, né uccello
andarvisi a posare o staccarsene. Era uno di quei tempi forieri della
burrasca, in cui la natura, come immota al di fuori, e agitata da un travaglio
interno, par che opprima ogni vivente. L’uomo, già alle prese col male,
soccombeva alla nuova oppressione; si vedevano centinaia e centinaia peggiorar
precipitosamente; né forse su quel luogo di miserie era ancora passata un’ora
crudele al par di questa.
Bimbi, balie e capre. – Già aveva il giovane girato
un bel pezzo, e senza frutto, quando arrivò a un assito scheggiato e
sconnesso, dal quale veniva un misto singolare di vagiti e di belati. Mise l’occhio
a un largo spiraglio, e vide un recinto di capanne sparse, e dentro ad esse
bambinelli che giacevano sopra materassini o guanciali, e balie e altre donne
in faccende, e, ciò che più di tutto attraeva lo sguardo, capre mescolate
con quelle e fatte loro aiutanti. Era una cosa singolare vedere alcune di
quelle bestie, ritte e quiete sopra questo o quel bambino, dargli la poppa; e
qualche altra accorrere a un vagito, come con senso materno, e fermarsi presso
il piccolo allievo, e procurar d’accomodarcisi sopra, e belare e dimenarsi,
quasi chiamando chi venisse in aiuto a tutt’e due. Qua e là erano sedute
balie con bambini al petto; alcune in tal atto d’amore, da far nascere il
dubbio se fossero state attirate in quel luogo dalla paga o dalla carità.
Renzo incontra padre Cristoforo. – Mentre Renzo
guardava innanzi per studiare la strada, vide, a un cento passi di distanza,
un cappuccino che aveva tutto l’andare, tutto il fare, tutta la forma di
padre Cristoforo. Corse verso quella parte, e lo rivide che, scostandosi da
una caldaia, andava con una scodella in mano, verso una capanna; poi lo vide
sedersi sull’uscio di quella, fare un segno di croce sulla scodella che
teneva dinanzi, e mettersi a mangiare.
Era proprio il padre Cristoforo, che da Rimini, scoppiata
la peste, aveva richiesto di venire a Milano per assistere e servire gli
appestati. Il conte zio era morto; e del resto c’era più bisogno di
infermieri che di politici, cosicché fu esaudito senza difficoltà.
Ma la consolazione di Renzo nel ritrovare il suo buon frate
fu amareggiata dal vederlo tanto mutato. Il portamento curvo e stentato; il
viso scarno e smorto; in tutto si vedeva una natura esausta, una carne rotta e
cadente, che si aiutava e si sorreggeva, ogni momento, con uno sforzo d’animo.
Soltanto l’occhio era quello di prima, come se la carità, esultante di
sentirsi vicina al suo principio, ci rimettesse un fuoco più ardente e più
puro di e quello che l’infermità andava a poco a poco spegnendo.
Renzo si fece riconoscere e fu accolto con molto affetto.
Il frate pregò un giovane cappuccino, padre Vittore, di sostituirlo per
qualche istante; offrì a Renzo una scodella di minestra e un bicchiere di
vino; poi riprese la sua scodella e si pose a sedere accanto a lui.
Renzo, tra una cucchiaiata e l’altra, si mise a
raccontare la storia di Lucia, poi la propria, ed espose il motivo che lo
aveva sospinto in quel luogo. Il buon padre, a sua volta, gli indicò il
reparto che era destinato alle donne, ma, poiché era proibito di entrare agli
uomini che non vi avessero qualche incombenza, consigliò al giovane di
recarsi prima alla chiesa, che sorgeva nel centro dell’edificio, dove il
padre Felice, che era il presidente del lazzaretto, avrebbe radunato tra poco
i pochi guariti per uscire in processione. Se non avesse tra essi trovato
Lucia, avrebbe potuto recarsi in quel reparto, dichiarando, se qualcuno gli
avesse fatto ostacolo, che padre Cristoforo lo conosceva e avrebbe reso conto
per lui. Gli raccomandò infine fiducia e….. rassegnazione, poiché non era
poco quello che egli era venuto a cercare: una persona viva al lazzaretto.
Renzo vuol farsi giustizia da sé. – Renzo, a quest’ultime
parole, si cambiò in viso, e, stravolgendo gli occhi per la rabbia, dichiarò
che, se non avesse trovato Lucia, avrebbe trovato anche a casa del diavolo
quel furfante che li aveva separati, e l’avrebbe fatta lui giustizia.
Padre Cristoforo, udendo queste parole di odio e di
vendetta, lo rimproverò aspramente, e, mentre con una mano gli stringeva e
scuoteva forte il braccio, gli additava con l’altra la dolorosa scena all’intorno,
che esprimeva la terribile potenza di Dio, che solo può castigare o
perdonare. Poi respinse il giovane, movendo verso una capanna d’infermi.
Renzo allora, subitamente pentito, dichiarò di aver
parlato da bestia e non da cristiano, e di perdonare di cuore.
Renzo dinanzi a don Rodrigo morente. – Padre
Cristoforo, accertatosi che quel pentimento era proprio sincero, afferrò la
mano del giovane e lo condusse entro una capanna, che sorgeva lì presso.
Renzo, tra gli altri infermi, ne vide uno su una materassa, con una cappa
signorile indosso, a guisa di coperta, e riconobbe don Rodrigo.
Stava l’infelice immoto; spalancati gli occhi, ma senza
sguardo; pallido il viso e sparso di macchie nere; nere ed enfiate le labbra:
si sarebbe detto il viso di un cadavere, se una contrazione violenta non
avesse reso testimonio d’una vita tenace.
Il frate, dopo aver dichiarato, con voce bassa e grave, che
l’agonia di don Rodrigo poteva essere un castigo o una misericordia di Dio,
esortò Renzo a pregare per quell’infelice, e, giunte le mani, chinò il
viso sopra di esse e pregò. Renzo fece lo stesso.
I due si separarono: uno tornò donde era venuto, l’altro
si avviò alla cappella, che non era lontana più d’un cento passi.
CAPITOLO XXXVI
Renzo assiste alla predica di padre Felice. – Renzo s’avviò
verso la cappella del lazzaretto, che sorgeva al centro di esso, e che era
aperta da tutti i lati, in modo che l’altare, eretto nel centro, poteva
essere veduto da ogni punto del campo. Egli vide il padre Felice, che aveva
cominciato la predica, e dinanzi a lui un folto, quasi un selciato di teste.
Nel mezzo ce n’era un certo numero coperto di fazzoletti o di veli; ma, per
quanto ficcasse in quella parte più attentamente lo sguardo, non arrivò a
scoprire Lucia. Alzò allora anch’egli gli occhi, dove tutti tenevano fissi
i loro, ed ascoltò commosso il solenne sermone del padre, che esortava i suoi
uditori a ringraziare il Signore, a far buon uso della vita così
miracolosamente serbata, a non abbandonarsi a una gioia rumorosa, a iniziare
subito un’esistenza tutta di carità. Infine il mirabile frate, dopo aver
chiesto umilmente perdono, per sé e per i suoi compagni, se non avevano
degnamente adempiuto al gran ministero d’amore, benedisse la folla, prese
una gran croce e s’avviò per mettersi alla testa della processione.
Renzo, postosi di fianco a una capanna, stette a guardare
la sfilata; ma, per quanto osservasse attentamente il gruppo delle donne, non
trovò Lucia. Svanita quella cara speranza, non ci poteva ormai esser di
meglio che trovare Lucia ammalata. Il poverino si attaccò con tutte le forze
dell’animo a quel tristo e debole filo, andò a inginocchiarsi sull’ultimo
scalino della cappella, e fece a Dio una preghiera, o, per dir meglio, una
confusione di parole arruffate, di frasi interrotte, d’esclamazioni, d’istanze,
di lamenti, di promesse. S’alzò quindi più rincuorato ed entrò nel
quartiere delle donne.
Renzo entra nel quartiere delle donne: il campanello. – Quasi
al primo passo che fece, vide in terra un campanello, di quelli che i monatti
portavano a un piede, e, pensando che un tale strumento avrebbe potuto
servirgli come di passaporto là dentro, lo prese e se lo legò come usavano
quelli. Aveva già fatta molta strada senza frutto e senza accidenti, quando
un commissario, avendolo scambiato per un monatto, gli gridò di andare ad
aiutare in certe stanze; ma Renzo, dopo aver fatto replicatamene e in fretta
un cenno del capo, come per dire che aveva inteso si levò dalla sua vista,
cacciandosi tra le capanne.
Renzo trova Lucia, ma ne è respinto. – Si chinò per
levarsi il campanello, ma mentre stava col capo appoggiato alla parete di
paglia d’una delle capanne, gli venne da quella all’orecchio una voce……
quella di Lucia! In tre salti girò la capanna, fu sull’uscio, e vide Lucia
chinata sopra un lettuccio. Dopo le prime rotte esclamazioni di Renzo, e le
parole di sorpresa di Lucia, che ricordò il voto fatto alla Vergine, Renzo le
disse apertamente che egli non credeva alla legittimità del voto, perché la
Madonna non poteva voler promesse in danno del prossimo, e perché esso poteva
benissimo essere sostituito con la promessa di metter nome Maria alla prima
figlia che sarebbe nata dal loro matrimonio. Ma Lucia, per quanto sentisse di
amare ancora quel giovane, si scostò impetuosamente da lui, tornando verso il
lettuccio, in cui si trovava ammalata una brava donna. Renzo, vedendo che essa
tentava di sfuggirgli, le parlò allora di padre Cristoforo, che aveva
incontrato al lazzaretto e che aveva trovato così malandato in salute; le
descrisse la visita fatta a don Rodrigo e le comunicò l’esortazione del
frate affinché pregassero insieme («Insieme! avete inteso?») per l’anima
di quel meschino; e aggiunse che questi non sarebbe stato bene nel mondo di
là, se di qua non si fosse accomodata la cosa, se non si fosse disfatto il
male che egli aveva fatto. Ma Lucia lo esortò nuovamente a dimenticarla, a
recarsi dal padre Cristoforo, perché gli mettesse il cuore in pace.
Renzo, dopo aver esclamato che il cuore in pace non l’avrebbe
messo mai, e che sarebbe tornato anche se si fosse trovato in capo al mondo,
si allontanò dalla capanna; mentre Lucia andò a sedersi accanto all’inferma,
piangendo dirottamente.
La mercantessa. – La donna che stava nel lettuccio
era un’agiata mercantessa, di forse trent’anni, che nello spazio di pochi
giorni si era vista morire in casa il marito e tutti i figliuoli, e che di lì
a poco, venuta la peste anche a lei, era stata trasportata al lazzaretto e
messa in quella capannuccia, nel tempo che Lucia, dopo aver superato la furia
del male, cominciava a riaversi. Essa era stata perciò amorosamente assistita
e aiutata da Lucia, in modo che le due donne erano in poco tempo divenute
intrinseche ed avevano stabilito di vivere insieme.
Renzo torna da padre Cristoforo. – Renzo intanto
trottava verso il quartiere del buon frate. Lo trovò in una capanna che,
piegato a terra, stava confortando un moribondo. Il giovane gli disse di aver
trovato Lucia e lo mise al corrente dell’imbroglio del voto; e il frate,
dopo essersi fatto nuovamente sostituire da padre Vittore, si fece
accompagnare alla capanna di Lucia. Essa, appena vide il suo antico
confessore, gli corse incontro, non nascondendo la sua meraviglia di trovarlo
in pessime condizioni di salute.
Padre Cristoforo scioglie Lucia dal voto. – Padre
Cristoforo, tratta Lucia in un canto, la interrogò sul voto, osservando che
essa non avrebbe potuto offrire la volontà di un altro, al quale si era già
obbligata, e che, se non ci fosse stato un altro motivo per mantenere la
promessa, egli avrebbe potuto scioglierla da ogni obbligazione che avesse
potuto contrarre. Lucia allora, con un volto non turbato più che di pudore,
chiese di essere sciolta dal voto, e il padre Cristoforo la esaudì all’istante.
Poi il buon frate, dopo aver esortato i due giovani a
ringraziare il cielo, che li aveva condotti in quello stato, non per mezzo
delle allegrezze turbolente e passeggere, ma coi travagli e tra le miserie,
per disporli a un’allegrezza raccolta e tranquilla, diede a Lucia una
scatoletta di legno, che conteneva il resto di quel pane che aveva chiesto per
carità alla famiglia dell’ucciso, raccomandando ad entrambi di serbarlo e
di farlo vedere ai figli che sarebbero nati da loro, affinché perdonassero
sempre e pregassero per lui. Fu infine lieto di apprendere che la mercantessa,
uscendo dal lazzaretto, avrebbe presa con sé Lucia, e avrebbe pensato lei ad
accompagnarla dalla madre e a prepararle il corredo per le prossime nozze.
Il congedo di padre Cristoforo. – Padre Cristoforo si
congedò quindi da Lucia, che non sapeva rassegnarsi all’idea di doversi
staccare per sempre da lui, e uscì con Renzo dalla capanna. Il frate offrì
al giovane di ospitarlo per quella notte presso di sé, ma questi, che voleva
andare il più presto possibile in cerca di Agnese, rifiutò cortesemente l’offerta.
Il padre Cristoforo lo benedisse, e poiché il giovane gli
domandò, con animo angosciato quando si sarebbero rivisti, rispose
serenamente «Lassù, spero», e si staccò da lui, che stette lì a guardarlo
finché non l’ebbe perso di vista.
CAPITOLO XXXVII
La pioggia purificatrice. – Appena Renzo ebbe varcata
la soglia del lazzaretto, cominciò una grandine di goccioloni radi e
impetuosi, che preso si tramutò in una pioggia dirotta. Renzo, invece di
inquietarsene, ci guazzava dentro allegramente, sentendo quasi in quel
risolvimento della natura quel che s’era fatto nel suo destino; e ancor più
se ne sarebbe rallegrato, se avesse potuto prevedere che quell’acqua avrebbe
portato via, come di fatto avvenne, il contagio.
Renzo verso il suo paese sotto la pioggia. – Andava
dunque il nostro viaggiatore allegramente, senza aver disegnato né dove, né
come, né quando si sarebbe fermato, col solo pensiero di arrivar presto al
suo paese e di rimettersi poi in cammino per Pasturo, in cerca di Agnese.
Mentre andava, veniva sempre a galla un pensiero: l’ho trovata; è guarita;
è mia! E allora faceva uno sgambetto o si fregava le mani.
Arrivò a Sesto, sulla sera, ma non si fermò; e poiché la
sola cosa che l’incomodasse era un grande appetito, comprò due pani da un
fornaio, e avanti. Quando passò per Monza era notte fatta; e benché la
strada, affondata tra due rive, si fosse quasi trasformata in un letto di
fiume, continuò ad andar sempre, finché sull’alba si trovò alla riva dell’Adda.
Vide all’intorno i suoi monti, il Resegone vicino, il territorio di Lecco, e
quel che sentì a quella vista non si potrebbe spiegare. Giunse a Pescate,
costeggiò quell’ultimo tratto dell’Adda, dando però un’occhiata
malinconica a Pescarenico; passò il ponte, e, attraverso strade e campi,
arrivò alla casa dell’ospite amico.
A casa dell’ospite amico. – L’amico, che s’era
levato allora allora, e stava sull’uscio a guardare il tempo, fu sorpreso di
vedere quella figura così infangata, ma così viva e disinvolta; e fu lieto
di apprendere che Lucia era stata trovata e che era guarita. Poi accese una
bella fiammata, mentre Renzo toglieva i panni, fradici di pioggia, e si
rivestiva con quelli che aveva lasciati nel fagottino, quando si era recato a
Milano; preparò una buona polenta, mentre Renzo incominciava a raccontare le
gran cose che aveva viste a Milano; e, poiché tutto quel giorno continuò a
piovigginare, stette sempre accanto all’amico, attendendo a certi lavoracci
in preparazione della vendemmia. Renzo non poté però tenersi di fare una
scappatine alla casa di Agnese, per rivedere una certa finestra, e per darsi
anche lì una fregatina di mani.
A Pasturo, dove trova Agnese. – Il mattino seguente s’alzò
prima che facesse giorno, e, vedendo cessata l’acqua, si mise in cammino per
Pasturo. Era ancor presto quando ci arrivò. Cercò di Agnese, sentì che
stava bene, e gli fu indicata una cosuccia isolata. Ci andò la chiamò dalla
strada, essa s’affacciò di corsa alla finestra, e, prima che potesse aprir
bocca, il giovane le gridò che Lucia era guarita e che presto sarebbe venuta.
Renzo, per timore del contagio, non volle che Agnese lo
accogliesse in casa, e perciò entrambi si recarono in un orto che era dietro
la casa, dove erano due panche, una di fronte all’altra. Il lettore,
informato com’è delle cose antecedenti, può indovinare da sé la loro
conversazione. La conclusione fu che si sarebbe messa su casa tutti insieme in
quel paese del bergamasco, dove Renzo aveva già un buon avviamento; appena
cessato il pericolo, Agnese tornerebbe a casa, ad aspettarvi Lucia, o Lucia ve
l’aspetterebbe; intanto Renzo farebbe qualche altra corsa a Pasturo per
tenere informata Agnese di quel che potesse accadere.
Nel paese adottivo. – Renzo tornò poi al paese,
passò la notte in casa dell’amico, e il giorno dopo si mise nuovamente in
viaggio verso il paese adottivo. Trovò Bortolo in buona salute e la peste
quasi scomparsa; gli promise di rimettersi al lavoro quando si sarebbe
stabilito con Lucia nel paese; e intanto prese in affitto una casa più
grande, e la fornì di mobili e di attrezzi, intaccando questa volta il
tesoro, ma senza farci un gran buco, perché tutto era a buon mercato,
essendoci molta più roba che gente che la comprasse.
Ancora nel paese nativo, insieme ad Agnese. – Dopo
alquanti giorni ritornò al paese nativo, e poi subito trottò a Pasturo per
riportare Agnese a casa. La buona donna, lieta di trovare ogni cosa come l’aveva
lasciata, si preoccupò di preparare alla mercantessa e a Lucia l’alloggio
il più decente che potesse; mentre Renzo, dal canto suo, parte aiutava il suo
ospite nei lavori di campagna, parte coltivata, anzi dissodava l’orticello
di Agnese, del tutto trasandato nell’assenza di lei. In quanto al suo
podere, non se ne occupava punto, dicendo che era una parrucca troppo
arruffata, e già aveva preso il partito di disfarsi di ogni cosa, e di
impiegare nella nuova patria quel tanto che ne potrebbe ricavare.
Lucia e la mercantessa escono dal lazzaretto. – Qualche
girono dopo la visita di Renzo al lazzaretto, Lucia ne uscì con la buona
vedova; fece la quarantina nella casa di lei, attendendo ad allestire il suo
corredo; e, terminata la quarantina, si fecero i preparativi per il viaggio.
In questo tempo, essendo caduto il discorso sulla signora
di Monza, Lucia apprese dalla vedova che la sciagurata, caduta in sospetto di
atrocissimi fatti, era stata, per ordine del cardinale, trasportata in un
monastero di Milano, dove si era ravveduta e aveva iniziato una vita di severa
espiazione. Apprese anche, dai cappuccini del lazzaretto, che padre Cristoforo
era morto di peste; e infine che donna Prassede e don Ferrante erano stati
anch’essi portati via dal contagio.
Il destino di don Ferrante. – Anzi per don Ferrante,
che era stato un dotto, l’anonimo ha creduto bene di dare qualche
particolare. Egli dice che, al primo parlar che si fece di peste, quel brav’uomo
fu uno dei più risoluti a negarla, sostenendo la sua opinione con
ragionamenti, ai quali non mancava la concatenazione. Diceva che in natura non
vi possono essere che sostanze o accidenti. Ma la peste non poteva essere
sostanza, perché le sostanze sono quattro: aerea, acquea, ignea e terrea; e
la peste non è sostanza aerea, perché, se fosse tale, invece di passare da
un corpo all’altro, volerebbe alla sua sfera; non è sostanza acquea,
perché bagnerebbe e verrebbe asciugata dai venti; non è sostanza ignea,
perché brucerebbe; non è sostanza terrea, perché sarebbe visibile. D’altra
parte la peste non può essere accidente, perché un accidente non può
passare da un soggetto all’altro. La vera cagione della peste si doveva
invece cercare in una maligna congiunzione di Saturno con Giove, contro la
quale non c’era rimedio alcuno.
His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese
alcuna precauzione contro la peste, ed andò a letto a morire, come un eroe di
Metastasio, prendendosela con le stelle.
CAPITOLO XXXVIII
Lucia ritorna al paese. – Una sera, Agnese sentì
fermarsi un legno all’uscio. Era Lucia, con la buona vedova, che ritornava
al paese, e il lettore può facilmente immaginare le vicendevoli accoglienze.
Il mattino seguente capitò anche Renzo, che non sapeva
nulla, e anche qui è facile immaginare la gioia del giovane. Unica nota
triste fu l’annuncio della morte di padre Cristoforo, morte che non era nota
né ad Agnese, né a Renzo.
Renzo si reca da don Abbondio, che si rifiuta nuovamente di
celebrare le nozze. – Renzo, dopo essersi intrattenuto con le donne, si
recò da don Abbondio, a prendere gli accordi per la celebrazione delle nozze.
Don Abbondio non disse di no, ma cominciò a tentennare, a trovare altre
scuse, insinuando che non era prudente mettersi in piazza con quella cattura
addosso, e la cosa poteva farsi ugualmente dove sarebbero andati a stabilirsi.
Renzo, comprendendo che don Abbondio aveva sempre il timore di don Rodrigo, lo
rassicurò che aveva visto costui in condizioni disperate, ma il curato gli
rispose che fin che c’è fiato c’è speranza.
Dopo qualche altra botta e risposta, né più né meno
concludenti, Renzo, per non perdere la pazienza e per non mancargli di
rispetto, strisciò una bella riverenza e se ne tornò alla sua compagnia.
Le donne rinnovano il tentativo, ma inutilmente. – Le donne, su
proposta della vedova, decisero allora di fare esse un’altra prova, per
vedere se ad esse riuscisse meglio. Dopo aver desinato, mentre Renzo se n’andò
senza dir dove, esse mossero all’assalto del curato.
Don Abbondio, intuendo il motivo della visita, fece faccia tosta: gran
congratulazioni a Lucia, saluti ad Agnese, complimenti alla forestiera,
tirando le cose in lungo. Finalmente, quando una d’esse ruppe il ghiaccio,
venne di nuovo fuori col pretesto della cattura, ripetendo le stesse cose che
aveva già dette a Renzo.
Renzo annuncia l’arrivo del marchese, erede di don
Rodrigo. – Mentre ferveva la discussione, entrò Renzo, con passo
risoluto, annunciando che era arrivato il signor marchese, erede di don
Rodrigo, e bravo signore davvero. Don Abbondio non depose per questo i suoi
dubbi («Ma che sia proprio vero….?»); e solo quando Ambrogio, il
sagrestano, confermò la cosa in tutto e per tutto, tirò un gran respiro,
ringraziò la provvidenza, che arrivava alla fine certa gente; benedisse la
peste, che era stata un gran flagello, ma anche una scopa per spazzar via i
cattivi soggetti; si rallegrò di esser vivo, mentre quello non avrebbe più
ormai mandato certe ambasciate ai galantuomini. Dichiarò poi che era disposto
a fare gli annunzi in chiesa per la prossima domenica, e voleva darne parte
subito a Sua Eminenza (e lì a spiegare come il papa avesse ordinato di dare
ai cardinali dell’eminenza e non più dell’illustrissimo), e che voleva
chiedere dispensa dalle altre due pubblicazioni matrimoniali per fare più in
fretta. Si mise poi a scherzare sul gran numero di matrimoni che si
celebravano in quei tempi, dicendo che Perpetua aveva fatto uno sproposito a
morire, poiché era il momento che avrebbe trovato l’avventore anche lei;
domandò alla vedova se anche a lei non avessero principiato a ronzare intorno
dei mosconi; e aggiunse che anche Agnese avrebbe potuto trovare da
rimaritarsi. Insomma quella notizia gli aveva dato una disinvoltura, una
parlantina insolita da gran tempo, tanto che più di una volta ritenne la
compagnia che voleva andarsene, e la fermò poi ancora un pochino sull’uscio
di strada, sempre a parlar di bubbole.
Il marchese acquista la casetta di Agnese e quella di
Renzo. – Il giorno seguente il marchese, di cui s’era parlato, si
recò a far visita a don Abbondio, gli portò i saluti del cardinale
arcivescovo, e gli disse che, avendogli questi parlato di due fidanzati, che
avevano sofferto per causa di don Rodrigo, desiderava far loro del bene. Don
Abbondio gli propose di acquistare le case di quei poverini, che volevano
trasferirsi altrove, e che avrebbero certo dovuto dare quella roba a qualche
furbo per un pezzo di pane. Il marchese lodò molto il suggerimento, e pregò
il curato di essere arbitro del prezzo e di fissarlo alto bene, proponendo di
andar subito insieme a casa della sposa.
Per la strada don Abbondio, tutto gongolante, ne pensò un’altra.
Pregò il marchese di interessarsi perché a Renzo fosse tolta di dosso la
cattura; e il marchese, sentito che non c’erano impegni forti contro il
giovane, promise di interessarsi.
A casa di Lucia trovarono le tre donne e Renzo, che, come
rimanessero, si può facilmente immaginare. Il marchese stesso avviò la
conversazione, e, venuto alla proposta dell’acquisto, pregò nuovamente don
Abbondio di fissare il prezzo. Questi proferì, a parer suo, uno sproposito;
ma il compratore, come se avesse frainteso, ripeté il doppio, non volle
sentir rettificazioni, e concluse ogni discorso invitando la compagnia a
desinare, per il giorno dopo le nozze, al suo palazzo, dove si farebbe l’istrumento
in regola.
Renzo e Lucia sposi per bocca di don Abbondio. – Venne
la dispensa, venne l’assolutoria, venne quel benedetto giorno: i due
promessi andarono, con sicurezza trionfale, proprio a quella chiesa, dove,
proprio per bocca di don Abbondio, furono sposi.
Un altro trionfo fu l’andare a quel palazzotto, dove il
marchese fece loro gran festa, li condusse in un bel tinello, mise a tavola
gli sposi con Agnese e la mercantessa; e prima di ritirarsi a pranzare altrove
con don Abbondio, volle star lì un poco a far compagnia agli invitati; e
aiutò anche a servirli.
Dopo il pranzo, fu steso il contratto per mano di un
dottore, che non fu l’Azzecca-garbugli, morto anch’egli di peste.
Gli sposi nel nuovo paese. – Non si pensò ormai più
che a fare i fagotti e a mettersi in viaggio. Tenero fu il distacco dalla
vedova, e tenero anche quello da don Abbondio, perché quelle buone creature
avevano sempre conservato un certo attaccamento rispettoso per il loro curato,
e questo, in fondo, aveva sempre voluto bene a loro. Sono quei benedetti
affari, che imbrogliano gli affetti.
Purtroppo, arrivati nel nuovo paese, Renzo ci trovò dei
disgusti bell’e preparati. Tutti, avendo sentito parlare della giovane sposa
e delle vicende di Renzo, credevano di veder arrivare un miracolo di bellezza;
ma quando l’ebbero vista, cominciarono a dire che non c’era nulla di
straordinario e che era una contadina come tante altre. Ci furono perfino di
quelli che la trovarono brutta. Renzo, venuto a conoscenza di queste critiche,
ne fu tocco sul viso, e cominciò ad essere sgarbato con tutti.
Renzo acquista un filatoio alle porte di Bergamo. – Ma
una buona occasione accomodò ogni cosa. La peste aveva portato via il padrone
di un filatoio, quasi alle porte di Bergamo; e l’erede, giovane scapestrato,
aveva deciso di venderlo, anche a metà presso. Bortolo, venuto a conoscenza
di ciò, ne contrattò l’acquisto, ma, non avendo i denari sufficienti,
propose a Renzo di fare l’affare a mezzo. Il giovane fu ben lieto di
accettare e si trasferì con Lucia nella nuova località. Qui, non essendo
Lucia aspettata, non andò soggetta a critiche, e anzi più d’uno ebbe a
dire: «Avete veduto quella bella baggiana che c’è venuta?».
Vita agiata e tranquilla degli sposi. – Non si creda
però che non ci fosse qualche fastidiuccio anche lì, perché l’uomo,
finché sia in questo mondo, è un infermo che si trova in un letto più o
meno scomodo, e che, vedendo attorno a sé altri letti, ben rifatti al di
fuori, si figura che ci si deve star benone; ma poi, se gli riesce di
cambiare, si trova a un dipresso nelle condizioni di prima.
Gli affari tuttavia andarono d’incanto. Prima che finisse
l’anno del matrimonio, venne alla luce una bella bambina, a cui fu posto il
nome di Maria. Ne vennero poi col tempo non so quanti altri, dell’uno e dell’altro
sesso. Agnese era tutta affaccendata a portarli in qua e là, chiamandoli
cattivacci, e stampando loro in viso certi bacioni, che vi lasciavano il
bianco per qualche tempo. Renzo, dal canto suo, volle che tutti imparassero a
leggere e scrivere, dicendo che, giacché vi era questa birberia, dovevano
almeno profittarne anche loro.
Renzo racconta le cose che ha imparato nelle sue avventure.
– Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure, e finiva sempre
col dire le gran cose che aveva imparate, per governarsi meglio nella vita: a
non mettersi nei tumulti, a non predicare in piazza, a non alzar troppo il
gomito, a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è intorno
gente che ha la testa calda, a non attaccarsi un campanello al piede prima d’aver
pensato quel che ne possa nascere.
Lucia però, a forza di sentir ripetere la stessa canzone,
disse un giorno al suo moralista: «E io, cosa volete che abbia imparato? Io
non sono andata a cercare i guai, sono loro che sono venuti a cercare me».
Il sugo di tutta la storia. – Renzo alla prima rimase
impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai
vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più
cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o
per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per
una vita migliore.
Questa conclusione, benché trovata da povera gente,
sembrò al Manzoni così giusta che la volle porre alla fine del romanzo, come
il sugo di tutta la storia. |