Attilio Regolo


A sette anni dall'inizio della prima guerra punica (264 a.c.) il Senato decise di affrontare direttamente il nemico in territorio africano.

In previsione dello sbarco i romani avevano approntato una nuova flotta. Per fornirsi del legname avevano disboscato le foreste della Sila, e per la costruzione delle quinqueremi ave vano preso a modello una nave nemica che si era arenata sulle coste dei bruzii. Questa improvvisata ma forte squadra navale romana fu affidata ai consoli Lucio Manlio Vulsone Longo e Marco Attilio Regolo. Regolo era già stato console undici anni prima e si era coperto di gloria nella conquista di Brindisi.

 La flotta comprendeva duecentotrenta navi da battaglia e ottanta da trasporto, con un equipaggio complessivo di centomila uomini. Altrettanto imponenti erano le proporzioni della squadra navale punica, per cui si fronteggiavano più di duecento mila uomini. Lo scontro avvenne nel 256 al largo di capo Ecnomo, un promontorio sulla costa meridionale della Sicilia, e segnò una bruciante sconfitta per i Cartaginesi più che mai disorientati dall'impiego delle famose «mani di ferro». Nella cruenta battaglia navale i romani persero ventiquattro vascelli, i cartaginesi novantatré, di cui trenta affondati e sessantatré catturati con i soldati a bordo.

I romani, e la cosa appariva inverosimile ai loro stessi occhi, avendo nuovamente battuto una grande potenza marinara tanto da avviarla alla decadenza, potevano spadroneggiare sul Mediterraneo. La vittoria dell'Ecnomo si rivelava di primaria importanza. Avevano via libera sicché, dopo aver riparato i guasti e rinnovate le scorte, poterono finalmente salpare per l'Africa, guidati da Regolo.

 

Il console Regolo stabilì la sua prima base militare a Clupea. Intanto si chiedevano istruzioni al Senato. Nelle lunghe notti libiche, Regolo si sorprendeva a guardare intensamente le stelle, lui, il generale tanto fortunato da trovarsi alle porte della città che da tempo immemore costituiva l'altra metà del mondo, l'unica città che potesse rivaleggiare in potenza con Roma. Agi tate erano le notti di Regolo. I soldati le trascorrevano fra grandi risate e bagordi, mentre lui rifletteva sulla storia di Roma e sulle profezie di Romolo che avevano preannunciato al primitivo villaggio di pastori e masnadieri un glorioso avvenire.

 

Regolo cominciò a marciare a occidente verso la non lontana Cartagine, per accamparsi a poca distanza dalla città. I punici avevano creduto che i cento elefanti da loro immessi nella mischia avrebbero potuto mettere in fuga il nemico, ma i romani ormai sapevano come affrontarli. I cartaginesi, sfiduciati, chiesero di trattare la pace. Regolo però imponeva condizioni in realtà inaccettabili, tanto erano dure e ultimative. «Consegnateci tutte le vostre navi, pagateci tutte le spese di guerra, cedeteci la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, le Baleari», questo chiedeva rigidamente Regolo, come non desiderasse altro che farsi rispondere di no.

Difatti i cartaginesi risposero di no. Si erano nel frattempo preparati a nuovi scontri, rinforzando l'esercito con cavalieri numidi - popolo nomade di origine berbera sempre votati alla morte che si trovavano nei dintorni di Cartagine - e con soldati sia iberici sia greci. Affidarono il comando a un generale assai esperto, Santippo, mercenario spartano. Anche lui mise in campo gli elefanti - ne schierò un centinaio -, e quella volta i romani al loro cospetto si diedero alla fuga.

 

Nel 255 Regolo, rimasto da solo in Africa poiché il collega Lucio Manuo Vulsone Longo si era allontanato per mettere al sicuro la flotta, cadde lui stesso prigioniero, catturato da Santippo. Con la sua vittoria, l'abile generale spartano suggellava il fallimento della spedizione africana dei romani.

Trascorsero cinque anni prima che i punici rinviassero Regolo a Roma sulla parola perché fosse lui a riproporre le condizioni di resa. Ma davanti al Senato, Regolo non fece altro che esortare i concittadini a proseguire nella guerra. Svolta la sua missione, non nel senso voluto dai Cartaginesi, egli, sciogliendosi dalle suppliche del Senato e dall'abbraccio dei familiari, se ne tornò con animo sereno in Africa, per mantenere la parola data al nemico, dicendo: "Ora sono uno schiavo di Cartagine, ma conservo ancora il senso del dovere di un Romano". 

I Cartaginesi lo ripagarono barbaramente con una straziante morte: lo fecero rotolare giù per una china rinchiuso in una botte irta di chiodi; molte inoltre sono le storie sulle tante torture che dovette subire. 

A Roma il Senato manteneva la calma, sicché in breve volgere di tempo poté inviare una nuova flotta in Africa, se non altro per recuperare i superstiti.

Roma dovette aspettare però fino al 241 per battere definitivamente Cartagine in una grande battaglia navale.

 

 
Zona non formale Immaginatevi Attilio Regolo romano di oggi che, fatto prigioniero dal nemico, venga mandato a Roma a patto che esorti i concittadini a fare la pace con Cartagine, e con l'intesa che, se la missione fallisse, torni in prigionia dove l'aspettano atroci torture.

Lui va, sa che ai romani non conviene fare la pace e allora, contrariamente ai suoi patti col nemico, invece di esortarli a deporre le armi, li esorta a continuare la guerra. E fin qui passi. Fino a questo ci arriverebbe anche uno dei giorni nostri. Sarebbe un comune caso di doppio gioco. Lo straordinario comincia quando Attilio Regolo, sapendo appunto di aver mancato ai patti, invece di restare a Roma in barba al nemico, torna lealmente a riconsegnarsi ad esso, a Cartagine, dove sa e del resto ci voleva poco a indovinarlo - che sarà oggetto di spietate rappresaglie per la sua defezione.

Difatti, appena arrivato, i nemici gliene fanno di tutti colori. Per prima cosa pare - lo espongono nudo al sole, dopo avergli spalmato il corpo di miele e avergli strappato le palpebre; ciò per procurargli la tortura dell'abbacinamento e delle mosche; e in quell'averlo spalmato di miele per attirare le mosche bisogna notare la raffinata crudeltà insieme col non badare a spese. Perché ce ne sarà voluto di miele per spalmarlo tutto! Tanto più che non è detto che questo supplizio fosse stato inventato proprio per Attilio Regolo. Forse rientrava negli usi bellici dei Cartaginesi, che tra le varie armi e munizioni ave- vano, per questo, reparti interi pieni di barili di miele. Miele da guerra, insomma. Scatolame per uso esterno. E la crudeltà di quel potente popolo non si fermò qui. Dopo il supplizio delle mosche, chiusero Attilio Regolo in una botte irta di chiodi all'interno e fecero rotolare questa per una discesa. Osservate, pur nel carattere primitivo di questi strumenti di tortura, quanta ingegnosità. E notate le strane armi degli antichi: miele, mosche, botti, chiodi, oltre l'olio e la pece bollenti. Si rileva una certa preponderanza negl'ingredienti e utensili domestici. Roba di cucina, in gran parte. La stessa botte, più che pensieri di tortura, suscita pensieri di simposi.

Suvvia, quale romano di oggi - e non soltanto romano, ma anche di altre nazioni - dopo essersi regolato nell'ambasceria come Attilio Regolo (cosa tutt'altro che improbabile) tornerebbe presso il nemico per ricevere il dovuto castigo? Un personaggio dei nostri giorni - quale che fosse la sua nazionalità - si guarderebbe bene dal tornare, non soltanto per sottrarsi alla tortura e alle vendette del nemico, ma soprattutto per non esporsi al ridicolo da parte dei propri concittadini, degli amici, dei contemporanei in genere, compresi per sino i nemici stessi, i quali non mancherebbero di dire di lui:  «Che fesso, a tornare!».

(Da Achille Campanile: "Vite degli uomini illustri")