Muzio Scevola

 

La città era sempre sotto l'assedio dei soldati di Porsenna. Già mancavano i viveri alla popolazione, quando si fece avanti un coraggioso comandante romano, Muzio Cordo, pronto a morire per la patria nel compimento di memorabili imprese. Dotato di una impareggiabile forza d'animo e di una intelligenza superiore, annoverava nella propria famiglia antenati illustri. Muzio si fece avanti in un giorno assai triste. Il sole era velato di viola. Il giovane chiese di parlare ai senatori. «Padri» disse loro quando ebbero preso posto nel la Curia «ho in animo di tentare un'impresa che potrà liberare Roma dai presenti mali. Ho una grande fiducia nel successo del mio piano e penso che riuscirò a condurlo a termine. Per quanto riguarda invece la mia vita ho poche speranze di sopravvivere, o meglio, per essere sincero, non ne ho alcuna. So no perciò pronto a cambiare questo mio corpo mortale con una gloria imperitura.» Poi aggiunse: «Voglio fingermi disertore e penetrare nell'accampamento nemico al di là del Tevere. Se, scoperto, venissi ucciso non perdereste che un solo uomo. Ma se riuscissi a confondermi fra gli etruschi, vi giuro che sarò capace di uccidere Porsenna. Morto lui, la guerra avrà fine. Per me sia quel che sia!». Partì senza neppure ascoltare i senatori che, impietositi, volevano trattenerlo, mentre lui allontanandosi diceva di conoscere la lingua del nemico per averla imparata da una nutrice etrusca.

Riuscì a penetrare nel campo nemico senza destare sospetti, e si trovò alla presenza di un personaggio che egli scambiò per Porsenna perché avvolto nella porpora. D'impeto trasse dal mantello un corto pugnale e colpì l'uomo alla gola. In quello stesso istante intuì di aver sbagliato bersaglio. Difatti, catturato in un lampo dalle guardie, fu trascinato al cospetto di Porsenna che si trovava sotto una grande e sontuosa tenda i cuoio. L’uomo da lui pugnalato non era il re, come aveva erroneamente immaginato, ma soltanto un suo segretario. Porsenna era su tutte le furie. Rosso in volto, con gli occhi iniettati di sangue, appariva in quel momento più imponente di quanto in realtà fosse: un ometto dagli occhi a mandorla che di maestoso aveva soltanto la pancia.

Muzio Cordo era calmo. Senza tradire il minimo tremore ammise spavaldamente di essere penetrato nel campo nemico Con il proposito di uccidere Porsenna che tentava una restaurazione etrusca in Roma. E aggiunse: «Sono romano e illustre. Mi ha spinto qui il desiderio di liberare la mia patria. Ma poiché la mia mano ha sbagliato il colpo, io stesso ora la punisco». Impassibile, così dicendo mise la mano destra sul fuoco

dell'altare dei sacrifici e ve la tenne fino a quando le fiamme on l'ebbero consumata completamente. Il gesto straordinario Impressionò enormemente il re, il quale mostrò interesse a quanto quell'uomo, che si rivelava più forte del fuoco, si accingeva ancora a dire: «Non intendo sfuggire al mio destino di morte, ma voglio rivelarti, o Porsenna, qualcosa che, se mi salverai dalle torture, potrà servire alla tua sicurezza». Nessuno poteva sospettare che queste parole nascondessero in Muzio l’astuzia che segnava il carattere dei romani.

Eccitato e incuriosito, Porsenna giurò che le torture gli sarebbero state risparmiate. Allora Muzio incalzò: «O re, sono ammirato dalla tua generosità. Mi hai salvato la vita, e io per riconoscenza ti svelerò una cosa che sotto tortura non ti avrei mai detto. Devi sapere che trecento romani, tutti della mia stessa giovanile età e tutti patrizi, si sono segretamente riuniti. Anch'io ero fra i trecento. Tutti insieme abbiamo solennemente giurato di ucciderti, scambiandoci un pegno d'onore. Tirammo a sorte, e il mio nome fu estratto per primo. Ecco perché ora mi trovo davanti a te nel tuo accampamento. Io ho sbagliato bersaglio, ma altri avranno certamente più fortuna di me. Non so se potrai guardarti da tutti quei giovani i quali quanto me sono pronti a ucciderti per salvare la patria. Qualcuno dei rimanenti duecentonovantanove congiurati riuscirà certamente nel proposito di penetrare nel tuo campo e di sopprimerti».

Il piano svelato esisteva soltanto nella fantasia di Muzio, ma la falsa rivelazione avrebbe dovuto far tremare di spavento il re. Così avvenne. Porsenna, avendo peraltro ammirato quel giovane per il sacrificio personale compiuto alla sua presenza con grande forza d'animo, lo restituì alla libertà. Muzio Cordo tornò a Roma come un eroe, e da quel giorno i romani per onorarlo lo chiamarono Scevola, cioè mancino, e non più Cordo.

Il figlio di Porsenna, a sua volta assai impressionato, disse che a quel punto bisognava preoccuparsi più della sorte del re di Chiusi che della restaurazione degli etruschi nell'Urbe. Andava perciò cercata una via di accomodamento. Si intavolarono trattative che prevedevano la consegna di ostaggi romani, comprese dieci fanciulle, a garanzia degli accordi raggiunti. Una di quelle ragazze, la vergine Clelia, progettò un ardito piano di fuga. Si avvicinò alle guardie pregandole di consentire a lei e alle compagne di bagnarsi brevemente nelle acque del fiume per liberarsi dalla polvere che da giorni le abbrutiva. Le guardie dettero l'assenso e si allontanarono, ma non molto, perché le ragazze potessero svestirsi e immergersi non viste nel fiume. Il campo etrusco si trovava sulla destra del Tevere, e di lì le ragazze appena libere si gettarono nelle acque burrascose. Attraversarono il fiume a nuoto sfidando la morte che si annidava in ogni gorgo

I senatori romani, e soprattutto il console Publicola, vollero fare però il bel gesto di restituire le fuggitive fanciulle a Porsenna. Ciò era particolarmente doloroso per Publicola, poiché tra le giovani riconsegnate al nemico c'era anche una sua figliola, Valeria. Porsenna, conquistandosi la generale ammirazione, decise di liberarle. Roma accolse con solenni festeggiamenti l'eroica patriota Clelia, e in suo onore elevò una

bronzea statua equestre sulla via Sacra, a spese dei padri del le fanciulle da lei salvate. Terminava così onorevolmente per entrambi i contendenti la guerra che aveva contrapposto i romani agli etruschi di Porsenna. Se leale e generoso era stato il

re, i romani non vollero essere da meno, e difatti inviarono in maggio al vecchio nemico un trono d'avorio, una corona d'oro e una tunica trionfale.