Indice del libro sui tumori

I N T R O D U Z I O N E

Una nota autobiografica che comprenda più di vent’anni della vita dell’autore, finalizzata ad introdurre un libro sul cancro, potrebbe apparire fuori luogo. Se i lettori - spero che siano un po’ più numerosi dei venticinque di manzoniana memoria - avranno la pazienza di seguirmi, capiranno ben presto perché l’argomento tumori viene esposto in maniera inconsueta, con una logica tutta particolare. Parlo di me stesso unicamente per chiarire come abbia maturato un certo modo di vedere le cose, che rappresenta la falsariga concettuale di questo volume: in altri termini, desidero fornirne, in via preliminare, una chiave interpretativa.
I medici della mia generazione (per intenderci, signori di mezza età o meglio di quasi tre quarti d'età) non sono molto propensi ad accettare la metafora del computer applicata ai fenomeni biologici. Quando il discorso si orienta su temi del tipo teoria della comunicazione, algebra di Boole, intelligenza artificiale, sistemi esperti e così via, storcono il muso. Lo stesso dicasi per la biochimica, di cui alcuni hanno soltanto una conoscenza sommaria ed approssimativa: insomma, è il vecchio concetto della medicina, intesa come arte e non come scienza, che purtroppo tarda a morire.
Un mio amico, Giorgio Lombardo, medico ed editore, mi ha raccontato che tempo addietro stava conversando con un collega della nostra età; a un certo punto, il discorso è scivolato sugli acidi nucleici. "Non ho ben capito - gli ha detto l'interlocutore - perché il Padreterno abbia creato l'RNA. Non sarebbe stato sufficiente il DNA? Se non altro, avrebbe reso le cose più semplici!".
A me è capitato di peggio, qualche anno fa. Mi ero assentato per alcuni giorni dal laboratorio, e quando vi ritornai un collega, che mi aveva cercato invano per dirmi non ricordo cosa, non appena mi vide mi domandò:
"Ma dove sei stato? Vai sempre in giro, invece di lavorare!".
"A risciacquare i panni in Arno, anzi nel Po"
"Come sarebbe, cosa hai fatto?"
"Sono andato all'Università di Pavia. Sto frequentando un corso di perfezionamento in biochimica"
"Ah, in biochimica. Interessante. Ma dimmi, questa nuova disciplina, esattamente, di che cosa si occupa?"
Mi caddero letteralmente le braccia, e gli risposi con la prima banalità che mi venne in mente.
Samuele Hahnemann era solito dire che compito essenziale del medico è mantenere la buona qualità di vita del proprio paziente. Ma come si fa, alle soglie del 2000, ad occupasi della vita senza approfondirne le basi, e senza inquadrarle correttamente in un contesto che preveda conoscenze almeno elementari di informatica?
Intendiamoci, non scrivo queste cose per malanimo nei confronti della categoria cui appartengo. E' vero il contrario: ho stima ed affetto per i colleghi, credo nei valori morali ed umani che ci ha trasmesso Ippocrate, pronunciai il suo Giuramento convinto della validità di ciò che leggevo. La questione è diversa, e per rendere più chiaro il mio pensiero, cito una frase di un vecchio articolo di Indro Montanelli, Amare la Patria sapendo dirne male, pubblicato sul Corriere della Sera del 16 luglio 1950: "Non è vero che la Patria la si difende senza discutere; la si difende discutendola, così come è discutendo la nostra società borghese, e denunziandone noi stessi i difetti e le debolezze, che la si puntella".
Né ho l’uzzolo di presentarmi come il primo della classe, ci mancherebbe altro! Piuttosto, alcune volte la vita imbocca, per conto proprio, strade non previste e non programmate in anticipo. Se ciò avviene, non vi è alcun merito, è semplicemente un caso fortuito.
Capisco qualcosa in campo informatico perché ho avuto la fortuna, alla fine degli anni sessanta, di imbattermi accidentalmente nei computer. Allora lavoravo, con l'incarico di Dirigente sanitario, presso il Servizio Attività Scientifiche dell'INAM, dove facevo ricerca, applicata alla Patologia Clinica. In quel periodo, presso il Karolinska Institute di Stoccolma, era stato messo a punto un programma di gestione computerizzata del laboratorio di analisi cliniche. I miei capi, i professori Ezio Masé ed Angelo Serìo, si interessarono a quest'innovazione, ma per approfondirla si rendeva necessario che uno di noi avesse qualche nozione in campo informatico. Decisero così di mandarmi all'IBM, dove frequentai un paio di corsi di diagrammazione a blocchi e di linguaggio Fortran. Nel frattempo, avevamo costituito un gruppo di studio, di cui facevano parte un matematico, Loreto Ventura, un ingegnere, Umberto Properzi, ed un patologo clinico, io.
Nel centro di calcolo dell'Istituto c'era quello che all'epoca veniva considerato il massimo, e che a noi appariva un sogno: un IBM 360/40, un gigante senza monitor, con cui si comunicava in input con la tastiera, ed in output con una specie di macchina per scrivere lentissima, a testina rotante. Formidabili quegli anni, direbbe Mario Capanna, ed effettivamente lo furono, almeno per quanto riguarda noi ed il nostro lavoro. Potevamo disporre del mostro solo per poche ore al giorno, perché era stato acquistato a scopi contabili e la ricerca scientifica non era ufficialmente prevista. La nostra presenza in sala macchine era poco gradita, anzi vi fu con i funzionari amministrativi dell'Istituto qualche momento di tensione, aggravato dal mio carattere non molto malleabile, ma attenuato dall'autorevolezza di Masé e dalla diplomazia di Serìo che, beato lui, era capace di andare d'accordo con tutti senza venire a compromessi con alcuno. Come facesse è rimasto per me sempre un mistero, ma comunque ci riusciva. In pochi mesi implementammo diversi programmi, tra cui uno, operante con modalità analoghe a quello di Stoccolma, rappresenta concettualmente il padre dei sistemi di gestione che attualmente girano in quasi tutti i laboratori di analisi cliniche d'Italia.
Un altro programma, oggetto del primo lavoro scientifico sull'argomento che porta anche il mio nome, era finalizzato alla determinazione dei valori normali dei parametri ematochimici. Lo presentammo con successo al Simposio Internazionale Technicon del 1971 (Roma Eur, 15-18 aprile) dedicato all'automazione nella chimica analitica. L'INAM assisteva 35 milioni di persone, disponevamo di una banca dati enorme, e le conoscenze specifiche di Serìo, libero docente in statistica sanitaria, erano di grande utilità per i nostri studi. Comunque, fummo premiati un po' tutti, non con soldi perché allora non si usava, ma con encomi e nomine varie. Io fui chiamato dal CNR, dove presi parte per un semestre al programma speciale TBM (tecnologie biomediche). Inoltre, un secondo lavoro, che aveva solo me come autore, dedicato al controllo di qualità dei risultati degli esami di Laboratorio mediante calcolatore elettronico, fu pubblicato sugli Annali dell'Istituto Superiore di Sanità (1004: 8, 1974).
Da allora ho continuato ad occuparmi di informatica in campo biologico e me ne occupo ancor oggi. E' una disciplina dotata, a mio avviso, di un inesauribile fascino. Per avere le basi necessarie ad approfondirla, e forse anche per conoscere un po' meglio me stesso, mi iscrissi di nuovo all'Università, e conseguii nel 1982 una seconda laurea, in psicologia con indirizzo sperimentale. Nel corso degli studi, e negli anni successivi, ho avuto modo di fare amicizia con diverse persone, che hanno contribuito ad arricchire il mio bagaglio culturale. Per brevità ne cito solo qualcuna: il prof. Eliano Pessa, che insegna Teorie e Sistemi dell'Intelligenza Artificiale all'Università di Roma, il dott. Fabio Altieri, ricercatore presso il Dipartimento di Biochimica della stessa Università, l'ing. Francesco Jovine, informatico: guarda caso, sono tutti più giovani, o per meglio dire meno anziani di me. Con il loro aiuto, nella prima metà degli anni ‘80, cominciai a scrivere dei programmi, finalizzati alla formulazione di enunciati diagnostici partendo dai valori di alcuni parametri ematologici.
Potrebbe quasi sembrare: vai in laboratorio, fai le analisi e lì ti dicono, interrogando il computer, di quale malattia soffri. Non è proprio così, ma questa fu l'impressione che suscitarono, in un primo momento, i nostri studi. Ne parlerò tra poco.
Si noti che le ricerche, compiute quando lavoravo all’INAM, interessavano o la gestione del laboratorio, o l’elaborazione dei dati per stabilire l’intervallo di normalità di alcune sostanze che si trovano nel sangue, come l'urea ed il glucosio. Non avevamo considerato la possibilità di trattare i risultati delle analisi, per trarne informazioni relative al quadro fisiopatologico del paziente. Sembra un assurdo, ma fummo costretti a constatare che le altre branche della medicina ci avevano nettamente sopravanzato. Infatti, i primi passi verso un orientamento non solo diagnostico, ma anche in alcuni casi terapeutico, gestito dal calcolatore, erano già stati compiuti, con risultati incoraggianti, dalla medicina interna e dall’oncologia. In queste discipline, superata con eleganti artifizi la scarsità di dati numerici, si era dato corpo ad una serie notevole di enunciati diagnostici ed orientamenti curativi, provenienti dall’analisi e dal confronto di differenti informazioni semeiologiche. Malgrado gli indiscutibili vantaggi derivanti dalle caratteristiche specifiche dei dati che possiede, la patologia clinica appariva, dal punto di vista informatico, un po’ come la Cenerentola della medicina. Allo scopo di colmare tale lacuna, cominciammo ad allestire un insieme di sistemi che, elaborando opportunamente i risultati di alcuni esami di laboratorio, consentivano di formulare un orientamento diagnostico.
Avemmo cura, nel corso dei nostri studi, se non di mantenere il segreto, cosa notoriamente impossibile in Italia, almeno di non spargere troppo la voce. Ma, incautamente, ne avevo parlato con alcuni ex colleghi dell’INAM, che dopo lo scioglimento degli Enti mutualistici rivestivano incarichi di rilievo al Ministero della Sanità. Naturalmente, ne venne a conoscenza il ministro, e fui molto sorpreso e contento di ricevere una sua telefonata, in cui chiedeva notizie delle nostre ricerche e le incoraggiava. Qualche giorno dopo mi spedì il seguente telegramma: "15/03/88 - Dott. Elio Rossi c/o Laboratorio Igea – Sunt lieto formulare migliori voti augurali per esito programma analisi computerizzata risultati di alcune determinazioni analitiche - Donat Cattin Ministro Sanità”.
All’interesse politico fece seguito quello della stampa. Luciano Ragno, che all’epoca lavorava al Messaggero, mi mandò un suo collaboratore, Francesco Piersanti, che il 30 marzo pubblicò un articolo intitolato “Diagnosi al computer”. Per stemperare un po’ l’argomento e non urtare troppo la suscettibilità dei medici, scrisse che l’elaboratore forniva loro solo un parere, di cui si poteva tener conto o meno, a seconda dei casi. Poi, sempre nel giro di pochi giorni, la televisione. Manuela Lucchini, giornalista del Tg1, venne a trovarmi con la sua équipe, registrò con me una breve intervista e fece riprendere dagli operatori un monitor, su cui comparivano alcuni enunciati diagnostici. La trasmissione andò in onda il 5 aprile 1988, dopo il Tg1 delle 13,30, come argomento della rubrica “Tre minuti di...”: per l’appunto, tre minuti di diagnosi al computer. Ricevetti molte telefonate, per la maggior parte da gente comune che chiedeva chiarimenti. La classe medica non reagì, e nessun collega, tranne un paio di amici, mi chiamò o si fece vedere.
Presentai questo programma, per la prima volta, al 38° Congresso Nazionale A.I.Pa.C (Vibo Valentia, 15-18 giugno 1988). La mia esposizione fu accolta da un gelo polare. Solo un collega chiese la parola, l'ottenne e con mal celata ironia mi domandò:
"Ma se il computer formula la diagnosi, il medico curante cosa fa?".
Gli risposi con una battuta:
"E' Vattimo il filosofo del pensiero debole, o mi inganno e si tratta di qualcun altro?".
Il collega impallidì e stava per controbattere, ma per fortuna il moderatore ci mise a tacere, ed invitò me a riprendere il mio posto e l'altro medico a restare seduto.
Col passare del tempo - tutto sommato, neanche troppo - le cose sono andate migliorando. Ho ripresentato l'argomento, ampliato ed arricchito, sia al 15° World Congress of Anatomic and Clinical Pathology (Firenze, 16-20 maggio 1989), sia al 40° Congresso Nazionale A.I.Pa.C (Bolzano, 29 maggio - 1° giugno 1990). Nella prima occasione vi furono scarsi consensi, ma senza polemiche; nella seconda ebbi il piacere dell'applauso. Non solo, ma dopo aver smesso di battere le mani, i colleghi mi sottoposero a una raffica di domande, per approfondire l'argomento.
Dopo questa trattazione, abbastanza lunga e spero altrettanto lineare, probabilmente sorge nel lettore una domanda: qual è il punto di aggancio fra la materia finora esposta, in prevalenza informatica, ed i tumori? Si intersecano i due insiemi? Si, almeno da un punto di vista dottrinario. In un intervallo di tempo non breve, ho cercato di costruirmi (se ci sono riuscito o meno, non spetta a me stabilirlo) un certo tipo di mentalità, che parafrasando Koiré, è partita dal mondo del pressappoco, con la speranza di raggiungere l'universo della precisione.
Con tale orientamento scientifico e culturale viene affrontato in questo libro il problema del cancro. Sono cinquant'anni che le neoplasie vengono trattate con chemioterapici. Non c'è nessun presupposto biologico secondo cui la cura dovrebbe far riscontrare risultati apprezzabili, anzi, considerato il meccanismo d'azione di questi farmaci, è molto probabile che il rimedio sia peggiore del male. Malgrado le evidenze cliniche confermino l'infondatezza teorica della terapia, e nonostante il fatto che il numero di morti per tumore aumenti progressivamente di anno in anno, si continua ad applicarla.
Nei capitoli che seguono, verrà attentamente analizzata la struttura degli acidi nucleici, in particolare del DNA, e si parlerà diffusamente delle modalità con cui tali molecole comunicano tra loro. A chi, come me ed altri colleghi (non siamo moltissimi, ma forse col tempo aumenteremo) considera i fenomeni biologici come l'effetto di messaggi che le varie strutture viventi scambiano tra loro, riesce difficile comprendere che a scopo curativo si sovverta, in modo permanente ed aspecifico, l'informazione contenuta negli acidi nucleici. Infatti, le conseguenze di tali modalità terapeutiche sono rappresentate da danni irreversibili, che non restano localizzati, ma si trasmettono, amplificandosi, fino a coinvolgere la sintesi proteica. A me appare ovvio e scontato il motivo per cui i chemioterapici non funzionano contro il cancro, anzi molte volte sortiscono effetti deleteri. Nelle pagine che seguono esporrò tale ipotesi, cercando di essere esauriente, sereno ed obiettivo.
Un discorso diverso - ma i presupposti teorici sono gli stessi - sarà fatto a proposito di altre modalità curative. La somatostatina, l'angiostatina, l'endostatina ed altri prodotti analoghi agiscono bloccando la crescita dei tumori con meccanismi che, per quanto attualmente ne sappiamo, non aggrediscono i tessuti sani. Ciò almeno in linea di principio, staremo poi a vedere cosa avverrà quando sarà stata portata a termine la sperimentazione sull'uomo. Resta comunque davanti a noi lo sconfinato universo della terapia genica, tutto da esplorare, che probabilmente ci riserverà non poche sorprese.



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