I MESTIERI DI UNA VOLTA   


GLI ODORI DEI MESTIERI

Io so gli odori dei mestieri:
di noce moscata sanno i droghieri,
sa d'olio la tuta dell'operaio,
di farina il fornaio,
sanno di terra i contadini,
di vernice gli imbianchini,
sul camice bianco del dottore
di medicine c'è un buon odore.
I fannulloni, strano però
non sanno di nulla e puzzano un po'
G. RODARI



I COLORI DEI MESTIERI

Io so i colori dei mestieri:
sono bianchi i panettieri,
s’ alzano prima degli uccelli,
e han la farina nei capelli;
sono neri gli spazzacamini,
di sette colori son gl’ imbianchini;
gli operai dell’ officina
hanno una bella tuta azzurrina,
hanno le mani sporche di grasso
e i fannulloni vanno a spasso,
non si sporcano nemmeno un dito,
ma il loro mestiere non è pulito.
G. RODARI



'0 SANAPURCELLE

Il nonno dei veterinari lo potremmo definire... Provvisto di attrezzi quasi chirurgici ( un coltello affilatissimo, delle forbici, ago e filo per ricucire la ferita) passava per le campagne per castrare il maiale. L'animale, infatti, privato dei suoi nobilissimi attributi, diventava più grasso e quindi più utile alla gastronomia del tempo. Serviva anche per operare ( o castrare) il caprone che doveva fornire una ottima carne usata per il ragù. Non per niente questa carne si chiamava - e si chiama ancora oggi - carne di castrato!!! Naturalmente anche altri animali venivano sottoposti a questa operazione...loro malgrado.

Catello Nastro


'0 'MBRELLARO

Si tratta di un artigiano ambulante che riparava gli ombrelli rotti sia nella struttura reggitessuto della cappella, sia nei fili di acciaio che reggevano l'ombrello vero e proprio. I suoi attrezzi erano "portatili" e semplicissimi. Una pinza, un martello, una piccola incudine ricavata da una "fetta" di binario feroviario, ago, filo, qualche filo di ferro e tessuto per riparare la cappella dell'ombrello. Il parapioggia di quei tempi assumeva un aspetto molto curioso dopo varie riparazioni. Tessuti di vari colori, manici trapiantati da un ombrello all'altro, meccanismi per l'apertura rappezzati con filo di ferro sapientemente arrotolato e tante altre piccole astuzie che il buon artigiano ambulante doveva inventarsi a seconda dell'operazione da svolgere. Tenga conto il lettore che molto spesso veniva ripagato in natura. Pane, uova, un fiasco di vino, qualche mezza bottiglia di olio, un pezzo di lardo. Questo mestiere era in voga fino agli anni '60 ma è sopravvissuto anche oltre nei paesi interni della Campania.

Catello Nastro


LO SCRIVANO

Ai tempi dell'Unità d'Italia, la percentuale degli analfabeti nella Campania superava il 95%. Mentre nelle grandi città, che pure facevano la media, era inferiore, nei paesini interni arrivava in alcuni casi anche al 100%. Anche lo scrivano era un artigiano del tempo, ambulante ed anche questa figura si vedeva, con molte variazioni, fino ad una cinquantina di anni fa. Una cartella con dei figli di carta, una penna con calamaio, una bottiglietta di inchiostro ed un barattolo con della cenere passata al setaccio per asciugare rapidamente lo scritto. Solo dopo apparve tra questi artigiani la grande invenzione della carta assorgente. La donna che voleva scrivere una lettera al marito o al figlio al fronte, spiegava prima il suo messaggio allo scrivano e questi ne faceva una sintesi modellando il messaggio a suo piacimento. Molto spesso la risposta che veniva dal fronte ( quando raramente arrivava) era scritta non dallo scrivano militare ma dal cappellano che, per esercitare la sua missione, doveva per forza saper leggere e scrivere. Lo scrivano, una volta scritta la lettera, faceva apporre dalla donna una crocetta quasi a siglare l'originalità del messaggio, la infilava in una busta e molto spesso doveva anche provvedere alla spedizione postale che...figuriamoci quali garanzie potesse dare, specialmente in periodo bellico. Anche in questo caso il pagamento poteva avvenire in natura. Il baratto, nei paesi interni della Campania, fu in uso fino ad alcuni decenni fa.

Catello Nastro


LA VAMMANA (LEVATRICE)

Era l'ostetrica, quella che faceva nascere i bambini aiutando le mamme nel momento del parto. Di solito si trattava di una donna, sposata o meno, che aveva partorito molti figli e proprio per questo era ufficiosamente abilitata all'esercizio della nobile professione di ostetrica. Naturalmente non aveva uno studio e visitava direttamente al domicilio della richiedente. Veniva contattata alcuni mesi prima del parto ed al momento opportuno (alle doglie, per intenderci) veniva chiamata per l'intervento. La famiglia della partoriente già aveva preparato dei panni lavati e conservati per l'evento, una brocca con dell'acqua pura di fonte che veniva bollita e che doveva servire per l'intervento. Alla procedura assisteva la madre e la suocera della donna, mentre l'accesso alla stanza era vietato al marito, ai maschi di casa ed ai minori. Non appena il bambino veniva alla luce veniva mostrato al padre che lo accoglieva felicemente se era maschio, ed un po' meno se era femmina. I maschi servivano per i lavori nei campi e quindi erano utili all'economia della famiglie, le donne...un po' meno! Oggigiorno il mestiere della levatrice è stato addirittura vietato dalla legge. Chi esercita questo mestiere senza regolare diploma o autorizzazione rischia addirittura di essere arrestato. Queste donne hanno esercitato la loro professione fino agli anni '50. Nel periodo della guerra non si andava tanto per il sottile. Da tenere conto che allora la percentuale dei decessi era di gran lunga superiore a quella attuale. Ostetriche professioniste, cliniche private o convenzionate, ospedali pubblici hanno sostituito oggi la vammana che, come tutte le altre professioni del tempo sovente veniva pagata in natura. Spesso si sentiva, per il passato, dire ad un giovane o una giovinetta:"T'aggio pigliato io- cioè ti ho preso io". E costui doveva rispetto e grande riconoscenza alla vecchia vammana.

Catello Nastro


‘O PANNACCIARO

In italiano “lo straccivendolo” o anche raccoglitore di panni vecchi. Un piccolo imprenditore della Campania Felix che andava in giro per le case a raccogliere panni dismessi, estremamente consunti o sovente rattoppati da fare, oggigiorno, la gioia di un grande stilista. Urlava a squarciagola per le strade dei paesi “panne viecchie, cauzuni, mutande, vesti re li femmene ca’ songo ‘ngrassate troppo, vestiti re lu’ nonno ca’ se n’è gghiuto all’autu munno…”. In cambio di questi stracci offriva sovente un pezzo di sapone, di quelli fatti artigianalmente in laboratori di “saponari” che li ricavavano, se ben ricordo, facendo bolline grassi vegetali o animali (olio rancido, sugna, ecc) con la soda caustica. Veniva sparso su una tavola di marmo o di legno e poi veniva tagliato con un grosso coltello in maniera da ricavarne tanti piccoli parallepipedi (lu’ piezzo re sapone) che usava come merce di scambio. Tenga conto il lettore che a quei tempi il danaro, specialmente nei paesini dell’interno, di collina o addirittura di montagna, girava poco. Il baratto, al contrario, era in auge in particolare modo nelle fiere e nei mercati. “Tu dai una cosa a me, ed io do una cosa a te.” Gli imbrogli, quindi, erano quasi impossibili, anche perché il contadino (scarpe grosse, cervello fino) se truffato reagiva in maniera molto violenta: a schiaffi e pugni, a bastonate e talvolta poteva comparire anche un coltello… Insomma anche allora non scherzavano. Il riciclaggio dei “panni” durava all’infinito: anzi al panno finito!!! Oggi i giovani non ricordano più le toppe, sovente con stoffe diverse e pittoresche, di vari colori che si portavano ai gomiti o alle ginocchia. Questi, infatti, erano i punti dei vestiti che erano maggiormente esposti all’usura. Da tener conto che il contadino aveva un solo vestito: quello del matrimonio, che gli doveva servire per gli altri matrimoni, da mettere solo a Natale e Pasqua, e da usare, infine, quando se ne andava all’altro mondo. Era quasi un’usanza indossare il vestito del matrimonio quando arrivava l’ora estrema. I vestiti per il lavoro, invece, erano di due tipi: estivo ed invernale. Durante la primavera –estate - autunno, spesso lavorava nei campi a dorso nudo, naturalmente quando non faceva molto freddo. Da aggiungere che quando pioveva, non poteva recarsi a lavorare e si doveva accontentare di fare dei lavori in casa. L’abbigliamento notturno, invece, durante la stagione fredda consisteva in mutande di lana e maglia pure di lana con maniche lunghe. Sotto le coperte si poteva riscaldare ( e fare altre cose!!!) con la moglie, oppure con un buon fiasco di vino che spesso sostituiva il…termosifone. Ma chi acquistava questi stracci dai “pannacciari”? I sarti del paese,naturalmente…e li usavano come veri e propri pezzi di ricambio. Le lenzuola, infine, dovevano durare parecchi anni e solo quando erano piene di buchi come una fette di groviera, venivano sezionati in tanti rettangoli e se ne ricavavano delle tovaglie che si usavano prima per la faccia, poi per il bagno una volta usciti dalla tinozza di legno, poi per i piedi e poi per le donne perché a quei tempi non esisteva il “Lines Seta Ultra”. Insomma la vita del lenzuolo, sebbene con varie funzioni, poteva durare anche una ventina d’anni. Pensate un poco in venti anni, ai tempi d’oggi, quante lenzuola, quante tovaglie e quanti pannolini vengono usati e gettati via. Non chiedetemi se era meglio allora o meglio oggi, perché non saprei veramente rispondere. ‘O pannacciaro, quindi, era un commerciante ambulante che spesso faceva questo lavoro cercando di arrotondare il reddito familiare che nella maggior parte dei casi gli proveniva dal lavoro diretto nei campi propri o in quelli degli altri latifondisti: i padroni, i signorotti o i padroni. Nelle città, ma anche nei piccoli centri, oggi che viviamo nel terzo millennio, esistono dei contenitori che raccolgono gli indumenti usati. Basta raccoglierli in una busta di plastica ed infilarli in un’apposita fessura. Che fine facciano, non me lo chiedete perché non lo so. Al mercato del giovedì, ad Agropoli, in provincia di Salerno, dove abito da molti anni, ci sta ancora qualche ambulante che vende indumenti usati e le buone donne, pensionate o anche giovanissime, di buon mattino, fanno a gara per accaparrarsi il pezzo più bello ad un prezzo veramente irrisorio. Da pochi anni sono arrivati anche “i pannacciari” cinesi. Vestiti bellissimi ad un prezzo bassissimo. Come faranno, non si sa!!!


'O MUZZUNARO

Col munnezzaro non c’entra proprio! Anche questo personaggio è scomparso da circa mezzo secolo. Esercitava la sua attività quasi sempre nelle città o nei grossi centri abitati. Il suo strumento di lavoro era un normale bastone che portava all’estremità inferiore un ferro appuntito, quasi sempre un chiodo sottile, lungo tre o quattro centimetri e, passeggiando disinvolto per le strade più affollate del centro, non appena incontrava un mozzicone di sigari o di sigarette, lo infilzava, con una certa indifferenza, e poi lo riponeva o in tasca o in una sacca che portava a tracolla. Era un mestiere umile ed umiliante. Quando si diceva a qualcuno “ma a coglie muzzuni!!!” si voleva indicare che il tizio non era buono a nulla. I muzzunari erano divisi in due categorie: quelli che raccoglievano mozziconi per poi sbriciolarli, privarli della cartina e spesso della parte bruciacchiata, e poi rivenderli ai fumatori o addirittura a coloro che costruivano le sigarette con le cartine in una microscopica azienda casalinga, oppure per farne uso proprio. Anche allora il fumo era un vizio. Uno dei pochi vizi della povera gente. “’O muzzunaro”, va detto, era un invalido, un anziano, oppure una persona che non aveva voglia di lavorare nei campi. Un fannullone, insomma. E non era nemmeno tanto ben visto. Infatti, tra costoro si nascondevano sovente i borseggiatori. Specialmente nei mercati e nelle fiere quando abbondavano i mozziconi, ma anche i soldini nei portafogli dei commercianti. Da annotare ancora che questo tipo di bastone veniva anche usato come arma di difesa o di offesa. Anzi, già da secoli veniva costruito il “bastone animato”. Bastava premere un bottone all’impugnatura che nello spazio di due o tre secondi appariva una grossa lama di pugnale dalla parte estrema. In tale maniera il bastone, fatto di legno leggero, ma nello stesso tempo flessibile e durissimo, assumeva l’aspetto di una vera e propria spada. Quindi un’arma da difesa e da offesa. Chi non poteva permettersi il lusso di comperare le cartine ( una specie di carta di riso, sottilissima che si leccava ai lembi per farla congiungere), poteva usare una “sgoglia” secca ricavata da una pannocchia di granoturco. Sovente questa sgoglia veniva tolta dal “saccone” che era una specie di materasso riempito di questi involucri delle pannocchie debitamente essiccate al sole per molti giorni. Oggi “’o muzzunaro” non esiste più. Le sigarette non si vendono più sfuse, come fino agli anni 60 – 70. Sul pacchetto avvisano che chi fuma muore prima. I distributori parlanti, automatici, elettronici, a moneta cartacea, ringraziano il “consumatore” e lo salutano anche!!! Più di questo…Una curiosità: queste sigarette riciclate vennero battezzate con un nome strano: le “tum tum”.


'O MUNNEZZARO

Penso che tra gli antichi mestieri, quello che forse, a mio avviso, è più di interesse attuale è quello del “munnezzare”, oppure lo spazzino, o, come si chiama oggi, “operatore ecolonico”. Nella prima metà del secolo scorso, non esisteva la plastica e non esisteva il cartone ed il vetro era talmente raro e costoso che difficilmente una bottiglia o un “buccaccio” si buttava via dopo l’uso. Questi recipienti, infatti, potevano durare anche per varie generazioni. In parole povere il figlio poteva usare la bottiglia o “Lu peretto” oppure “Lu perettieddo”, usato dal padre o addirittura dal nonno. In tale maniera si comprende che quello che oggi produce una famiglia di cinque o sei persone in un giorno, cinquanta anni fa veniva prodotto in non meno di un mese. E questo perché? Solamente perché nella civiltà contadina dell’ottocento e della prima metà del 900 esisteva un “riciclaggio” spontaneo. La mamma o la nonna pulivano la verdura per la minestra: gli scarti andavano alle galline o al maiale. Ammazzava un pollo per fare il brodo: le penne andavano come concime e le ossa al cane. Rimaneva il piatto di fusilli fatti in casa: non si buttavano perché servivano per la cena. Insomma, se nel mondo contadino di cento anni fa poco si produceva, era anche vero che poco si buttava nella spazzatura. Il “munnezzaro” quindi, assumeva un ruolo ed un aspetto diverso. Lu “mmerdaiuolo” era un tizio che andava a svuotare i pozzi neri, oppure raccoglieva il contenuto de “Li pisciuaturi”, in italiano vasi da notte che contenevano la naturale orina di tutta la famiglia di campagna, oppure “lu cantaro” che era una specie di vasetto, in terracotta verniciata, che serviva per la nobile cacca di tutta la famiglia. Poiché a quei tempi le famiglie erano numerose, il recipiente, di buon mattino, già era saturo, fino all’orlo di genuini escrementi con relativa orina. Di solito “lu pisciaturo” conteneva tre o quattro litri di liquido, mentre “lu cantaro” poteva anche superare i dieci litri. Dipendeva dal numero dei familiari ed anche dalla capacità dello stomaco dei componenti la famiglia. Tenga conto il lettore che ai miei tempi, ricordo, un mio zio divorava oltre mezzo chilo di “zituni cu’ lu’ rraù” e si scolava oltre due litri di vino: la domenica anche tre. E’ ovvio che, in tale caso, più che le capacità numerica dei componenti erano le capacità dello stomaco a fare la quantità. E dove andava a finire tutta questa roba? A concimare i campi, assieme al letame degli animali, dopo una accurata fermentazione a cielo aperto che…profumava l’aria di escrementi umani ed animali!!! Eppure a quei tempi, spesso, si viveva felici e contenti. Proprio come nelle favole. La raccolta differenziata? Non esisteva! Le discariche? Non esistevano! Il problema dello smaltimento rifiuti solidi urbani? Non esisteva! La tanto vituperata iperproduzione partenopea? Non esisteva!!! Oggi, specialmente in Campania, abbiamo fatto un passo avanti. Solo che ne abbiamo fatto anche parecchi indietro!!!

'O MOLLAFUORBICI

Anche l'arrotino era un artigiano spesso ambulante che passava per i paesi di provincia due o tre volte l'anno. Si vedono ancora oggi in giro per alcuni paesi meno evoluti della nostra regione. Ma hanno ammodernato la loro impresa ambulante riportandola su bici o tricicli e muovendo la mola con la forza delle gambe sui pedali collegati sia alla forza motrice delle ruote e quando occorreva alla mola che doveva servire ad affilare le forbici. Sia ben chiaro che questo artigiano non affilava solo le forbici ma arrotava anche coltelli, mannaie, attrezzi per tosare le pecore e tutti gli altri attrezzi per uccidere e poi macellare il maiale. Operazione questa che avveniva, nella vecchia civiltà contadina della Campania, molto spesso prima delle vacanze natalizie, quando l'uccisione del suino ( più grasso era meglio era perchè doveva fornire molte calorie per l'inverno) diventava un vero e proprio rito con la partecipazione di tutti i componenti della famiglia. Fatto curioso era che tutte le donne di campagna dovevano tenere le forbici sempre affilate, perchè esse dovevano servire anche per scacciare il malocchio. Un paio di forbici sguainato su un mobile all'ingresso della casa scacciavano tutti gli invidiosi o quelli che volevano male a qualche componente della famiglia. Ancora oggi esistono solo nei paesi dell'entroterra campano. Al mio paese se ne vede uno, ma solo una volta l'anno, che viaggia sun un Mercedes un poco antiquato e dal potente motore ricava l'energia per far girare il meccanismo della mola.

Catello Nastro


'O MASTURASCIO

Il maestro d'ascia era pure lui un artigiano del tempo che esercitava la sua nobile professione con attrezzi che oggigiorno farebbero davvero ridere. Ma tenga conto l'attento lettore che allora non esisteva l'elettricità e nemmeno tutti gli atttrezzi elettrici del fai da te...per non parlare poi di quelli a batteria che ti permettono di operare anche dove non esiste la corrente elettrica. 'O masturascio, oggi falegname, costruiva gli attrezzi che servivano nel mondo della civiltà contadina della Campania del tempo che fu. L'ascia, da cui il nome del suo mestiere, era l'attrezzo più usato. Ma non mancavano il martello, spesso di legno, scalpelli, chiodi, di ferro o anche di legno, rasoi per affinare, raspe e "chianozze" o pialle per affinare ulteriormente l'oggetto che costruiva. Si andava dagli arnesi di cucina ( cucchiai per girare la polenta, fagioli, ceci, verdura e paste nel paiolo appeso nel camino), taglieri per affettare il salame o la carne in genere, manici dei coltellacci ed ancora appendi attrezzi, scanni, sgabelli, panche, buffette, tavoli ed altre arnesi dai più svariati usi). Ma questo artigiano poteva produrre anche mobili per l'arredamento della casa di campagna che andavano dalla sedia alla panca, dallo sgabello per mungere le pecore e le capre, al forcone in legno per smuovere il fieno o la paglia,dalla pala per infornare il pane, alla madia per farlo lievitare, dai gioghi dei buoi per andare a finire di poi agli attrezzi più importanti come gli aratri, i carretti, le catose, le madie, i vassoi di legno e le culle per i bambini, basse, a dondolo in maniera tale che la nonna con il piede poteva dondolare i neonati mentre con le mani poteva preparare il corredino per i bambini. Nelle zone più interne e montuose della Campania, molti di questi attrezzi venivano costruiti dai nonni che, durante l'inverno, quando pioveva o faceva molto freddo, non potevano andare nei campi e dovevano dedicarsi a lavori che potevano svolgere in casa. Ho visto molte "zane" o culle per bambini, e vi posso assicurare che molto spesso ci troviamo di fronte a vere e proprie opere d'arte. L'amore dei nonni per i nipotini, anche allora era grande, e tutti questi mobili erano il segno dell'affetto che essi provavano per i loro discendenti. Oggi il falegname opera sovente a livello industriale con apparecchiature elettriche e spesso elettroniche. Forse fa prima, ma il "masturascio" aveva un'altra poesia....

Catello Nastro


'O SCARPARO

Fino ad una ventina di anni fa, il calzolaio era un artigiano di primo piano nel proprio paese. Non solo riusciva a costruire delle scarpe su misura, anche per piedi un poco deformati o fuori misura, ma riusciva a riparare anche le scarpe usate. Oggigiorno sembra assurdo che un artigiano sprechi il proprio tempo per riparare le suole delle scarpe o magari sostituirle. Con l'attuale tecnologia le tomaie sono fatte a macchina, le cuciture sono fatte a macchina, il montaggio viene fatto a macchina... Ma a quei tempi le macchine come oggi, spesso cumputerizzate, non esistevano, per cui bisognava farre tutto a mano. Tagliare le suole, togliere i residui di quelle vecchie e consumate, incollare quelle nuove, cucirle, magari inchiodarle, ma sempre tutto fatto a mano. Pensate che oggi se un calzolaio dovesse costruire un paio di scarpe " a mano" ci vorrebbero due o trecento euro per ripagarlo. Un paio di scarpe, secondo la vecchia tradizione, occuperebbero senza dubbio una settimana di lavoro. Le parti che si consumavano anzitempo erano le suole, il tacco, i lacci e le fascie laterali delle pelli in particolare modo dove toccava il mignolo. Il calzolaio (detto anche nel passato solachianiello). é una figura storica che dovrebbe quasi quasi rientrare in un'area museale. Quindi quando andate da un artigiano calzolaio per farvi riparare le scarpe, pagate quello che vi chiede senza discutere. Il giorno dopo potreste non trovarlo...

Catello Nastro


'O LUPINARO

Il lupino è una pianta erbacea della famiglia delle Rosali che produce grappoli di fiori bianchi. Viene usato come foraggio per mucche, cavalli, pecore, capre eccetera. Il seme, da alcuni secoli, viene usato anche come alimento umano. Oggi viene usato per di più come passatempo (‘o spassatiempo), come i semi di zucca e i ceci essiccati, infornati e salati, come il pop corn, che poi non è altro che un tipo di granoturco importato dalle Americhe dopo la scoperta di Cristoforo Colombo. Anche le castagne, arrostite o lesse rientrano nella categoria di prodotti alimentari della terra che un tempo erano il cibo dei poveri, mentre oggi sono diventate cose ricercate nelle fiere, nelle sagre dei paesi interni, di collina o di montagna. Vale a dire che fino ad una cinquantina di anni fa si mangiavano per fame (specialmente durante la guerra!) ed oggi si gustano per sollecitare lo stomaco e per propiziare un bicchiere di vino o la più moderna birra se non addirittura la recentissima Coca Cola. Mi raccontava un mio coetaneo, che per lunghi anni, emigrato in Svizzera faceva il tagliaboschi (anche questo un mestiere quasi scomparso), che per far ammollire i semi secchi, dopo la bollitura, si riempiva un sacco di due o tre chili, o anche di più se la famiglia era numerosa, lo si legava con uno spago robusto e lo si immergeva in un ruscello o fiume, per alcuni giorni nell’acqua corrente…naturalmente. Se veniva conservato per alcuni giorni bisognava tenerlo sempre all’acqua corrente. Ancora oggi, specialmente durante l’estate, va conservato in frigorifero, ma bisogna sostituire l’acqua almeno una volta al giorno. Una volta ammollato, il lupino veniva salato abbondantemente. Se i lupini venivano dimenticati, in particolare modo nella stagione calda nella stessa acqua senza cambiarla, per alcuni giorni, incominciavano a puzzare. Da questo il vecchio detto “fieti cumm’à ‘nu lupino fracito!!!”. Negli anni ’50, ed io lo ricordo, il lupinaio passava per le vie facendosi la pubblicità urlando la bontà del suo prodotto. Cosa curiosa, “’o cuppetiello”, a forma di cono ricavato da una giornale vecchio stretto nella parte più piccola per non farlo aprire facendo in tale maniera cadere il contenuto a terra. Nei giorni di fiera il lupinaio, prevedendo molti clienti, preparava molti “cuppetielli per tempo: piccoli, medi, e grandi. Oggi i lupini al mercato del giovedì me li porta un venditore di Battipaglia, con la sua Ape vetrata per proteggere il prodotto dalla polvere e dagli insetti. Non li compero per fame o appetito che dir si voglia, ma per una certa rivalsa psicologica che risale a circa 60 anni fa, al primo dopoguerra, per intenderci. Allora c’era gente che si poteva permettere il “lusso” di comperare dei lupini, altri invece no. Da qui la vecchia metafora per indicare il povero che mangiava lupini e si lamentava della sua povertà. Voltandosi indietro, vide un vecchio che raccoglieva da terra le bucce dei lupini che lui mangiava e li portava alla bocca. Da quel giorno non si lamentò più perché capì che esistevano degli esseri umani che non potevano comperare nemmeno i lupini, talmente erano poveri, e si dovevano accontentare di mangiare le bucce. Il mio fornitore di lupini, edizione 2008, mi fornisce anche capperi, olive, “papaccielle”, pistacchi (altri parenti dei lupini), giardiniera, arachidi (altri parenti dall’America), cipolline e cedriolini sott’aceto, eccetera. Questo lo richiede la dieta mediterranea. Un’alimentazione vegetariana fa vivere a lungo…fa spendere di meno…è più digeribile e…credete a me, è anche più gradita allo stomaco. Per concludere il mio “lupinaio” è un assiduo lettore dei miei libri. Recentemente ha letto “Cilento: i nonni a tavola”, una guida all’enogastronomia cilentana degli inizi del 900 che, il mese scorso, nel Palazzo Vargas di Vatolla, nel salone che ospitò Gianbattista Vico, ha ricevuto il Premio “Giovanni Farzati” per la letteratura enogastronomia. Per la gioia di averlo letto, mi ha dato anche del baccalà…non nel senso metaforico che potrebbe capire qualche lettore, ma nel senso ittico - gastronomico: da fare alla pizzaiola! E vi pare poco!!!


'A SCOSAMAGLIA

Questa terminologia, a dire la verità, è alquanto impropria, perché l’operatrice non scuciva la maglia ma, piuttosto, faceva il lavoro inverso della “magliara”. Cioè, inizialmente, le donne, per la maggior parte anziane, che lavoravano a maglia, nelle giornate d’inverno quando non potevano recarsi nei campi o almeno all’esterno della casa per fare altri lavori, confezionavano, con i ferri o con l’uncinetto, il maglione che doveva servire per le feste per il figlio o la figlia ma maggiormente per nipoti e nipote. Le attempate donne di casa, prendevano un maglione dismesso, magari con toppe, magari strappato in più parti, con buchi, con lana di vario colore, e riportavano i fili allo stato originale che avvolgevano sapientemente in gomitoli “’e gliommare”. I colori della lana, tinti naturalmente, come il rosso, il giallo, il rosa o il celeste, oppure il nero per quelli che dovevano portare il lutto per un caro defunto (ed il lutto, cioè il vestito nero completo, si portava anche per alcuni anni dopo la morte del genitore o del coniuge), venivano selezionati anche dopo la smagliatura di una dozzina di indumenti. In tale maniera la buona donna di casa, dopo un lavoro durato magari tutto un inverno, si trovava ad avere alcuni gomitoli di vario colore e da questi ne poteva ricavare dei maglioni o di un solo colore o di varie tinte. Quest’ultimo si chiamava “a fantasia”, proprio perché era la vecchietta che riusciva, con la sua fantasia, a creare maglioni quasi artistici e policromi usando lana di diverso colore. A questo punto qualche lettore potrà chiedere: ma le giunture tra un filo spezzato ed un altro, come si facevano. Si annodavano i fili, naturalmente. E questi nodi erano facilmente individuabili. Ma a quei tempi erano fatti naturali. Oggi invece farebbero la gioia di stilisti internazionali. Aggiungiamo che “’A scosamaglia” non era un mestiere vero e proprio, perché nella civiltà contadina del secolo scorso, anzi fino alla seconda guerra mondiale ed anche dopo, questi “interventi” avvenivano nella maggior parte delle abitazioni rurali dei non abbienti. Un altro fatto curioso “lu scagno re li gliommare”. Se una massaia aveva del filo rosso e gli serviva del filo giallo, bastava che spandesse la voce in giro e poteva fare uno scambio con una vicina di casa o della cascina accanto. In tale maniera si aveva la possibilità di fare un maglione a tinta unita. Una lo faceva rosso ed un'altra giallo. Tra la fine degli anni quaranta e gli inizi degli anni cinquanta era usuale vedere, nel mio paese d’origine, Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli, donne che “smagliavano” lana dalla mattina alla sera. In casa durante la stagione fredda e nel cortile o in mezzo alla strada, sul marciapiedi, durante le belle giornate di sole. Al tramonto bisognava smettere perché a quei tempi nella maggior parte delle case non c’era l’elettricità ed il petrolio…costava caro. Tenga conto il lettore che al tramonto, proprio perché non c’era la corrente, non esisteva nemmeno il televisore, verso le sei del pomeriggio già tutti dormivano. Magari protetti dal freddo solamente da un artigianale e casalingo maglione di lana…riciclata!!!


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