MAL Dl  MEMORIA

 

            Genio e sregolatezza nella vita del grande matematico

 

 

 

QUEL DIAVOLO DI CACCIOPPOLI                         

 

di  Antonio Scavone

 

Pianista, musicologo, esperto di letteratura, conferenziere, comunista. Fra le sue multiformi attività ci fu il suo amore per il cinema che lo portò a via Nisco a dirigere un club molto attivo. Ora la sua vita  sarà raccontata in un film e in una “pièce” teatrale.

 

         


     A

trentadue anni dalla tragica scom­parsa Renato Caccioppoli torna a far parlare di sé. All’insigne matematico, morto suicida nel 1959 all’età di cinquantacinque anni, sono stati dedi­cati convegni, studi, commemorazioni. La Normale di Pisa, l’Istituto Italiano di Studi Filosofici, l’Università Federiciana hanno fatto lievitare il peso e il senso di una figura che travalicava con una feli­cissima e naturale complessità di argomenti i confini di un magistero, quello matematico, ritenuto dai più esclusivo ed elitario.

   Eclettico, bizzarro, incontenibile, Caccioppoli era un uomo dalle risorse infinite, dagli interessi mai circoscritti. Si occupava di cinema (fu il direttore del Circolo del Cinema qui a Napoli che a quei tempi era molto attivo in via Nisco), dell’attualità politica e del dibattito ide­ologico (innumerevoli le sue conferen­ze sulla pace negli anni della guerra fredda nonché le accese diatribe della sinistra italiana dopo i fatti d’Ungheria del ’56). Era inoltre un ottimo pianista, finissimo musicologo, conoscitore at­tento e acuto di letteratura ed esercitava questa sorta di impegno sartriano in un ambito talmente vasto da far impensierire i benpensanti di allora.

   Fosse vissuto oggi gli avrebbero chiesto un’autobiografia spudorata come si conviene, lo avrebbero invitato al talk-show di moda, lo avrebbero cele­brato per una mondanità più o meno scandalosa, ma Caccioppoli non era uomo di lusinghe e di compiacimenti. Era una bestia nera per tutti: per gli studenti che ne temevano l’inappellabi­le giudizio, per le autorità che faticava­no a seguirne il genio e le “sregolatezze”, per le giovani generazioni che pur alla ricerca di personaggi forti e positivi dopo i grigiori del ventennio, ne soffrivano poi le liberalità, paventandone il pericolo, la sovrabbondanza.

   E fu senz’altro un uomo “esage­rato”, vittima della sua stessa smania di vivere e di agire, soffocata dalla dispe­razione dell’essere in un mondo che cominciava a predicare il nulla. Nondi­meno si imponeva e si impone tuttora per una qualità molto rara (oggi addi­rittura utopica): ai clamori suscitati dal suo impegno e dalla sua dolente av­ventura esistenziale, Caccioppoli opponeva una propria personalissima volontà di fuga, una tensione accorata nella tragressione dei codici, una lucida ed eretica pratica dell’assenza che sconfinava spesso in una disarmante auto-negazione, come un’impronta secca e tagliente di tetra follia.

   Di sé ha lasciato due ponderosi volumi d’analisi, null’altro: nessuna memoria biografica, nessun diario, niente che lo raccontasse, che potesse restituire della sua vita di uomo e di scienziato quell’ordito illuminante che di solito ci si aspetta da uomini così “presenti”.

   Forse per questo autori napole­tani di oggi hanno cominciato a raccon­tare tanto l’uomo quanto il milieu culturale che egli animava. Il cinema gli dedicherà un film e chi scrive ne ha ricostruito le due ultime giornate di vita in un testo teatrale che si prefigge di ricomporre quell’immagine scomposta, di ricostruire un racconto interrotto. E non sembri strano che un personaggio così inafferrabile, così esaltante, abbia detto tanto o tutto senza lasciare una sola parola scritta del suo immenso repertorio: il suo tumultuoso essere-nel-mondo è stato più eloquente di un desti­no. L’ultima lezione di Caccioppoli è tuttora in corso.

                                                                                                              Da  NAPOLI Guide, Giugno 1991

 

                               

 

            20 Agosto 1799. Dal nostro inviato a Piazza Mercato

 

 

          INDOVINA CHI SALE SUL PATIBOLO

 

            di Antonio Scavone

 

 

 

  Ecco la fine ingloriosa dei nobili che hanno “pazziato” a fare i giacobini, tra lazzari, venditrici di carne cotta, brodo di polipo e cantanti “di giacca”. Mentre dai fondaci della marina si diffondono cori di musici campagnoli, richiami di imbonitori, appelli di predicatori da Villaggio Globale, arriva il coro degli infelici. Ad attenderli c’è il boia dal nome celestiale, Tommaso Paradiso. E a gremire la piazza si scopre che ci sono…

 

 

    I

l direttore è stato, come si dice oggi, ondivago: “Un pezzo di colo­re, ma non troppo; con una forza den­tro; tre cartelle, non di  più. Vai!”. E siamo andati. Ci siamo pazientemente armati di un’apprezzabile forza interiore, di un intrigante spirito d’osservazione, non­ché delle canoniche tre cartelle, ed eccoci qui, inviati a Piazza Mercato, a riferire di una di quelle giornate che resteranno, speriamo, memorabili nella storia della città e forse anche della nazione.

  L’approccio con la piazza, in questo pome­riggio afoso del 20 agosto 1799, è di quelli soliti in tempi come questi:  una folla festante e tumultuosa attende trepidante la celebrazione della quat­tordicesima esecuzione capitale che se­gna il ritorno della monarchia dopo la parentesi repubblicana e che avrà luogo a momenti per ordine del re Ferdinando IV e del suo primo ministro, il barone Acton.

  Per il colore, diciamolo subito, non ci possiamo lamentare: siamo già immersi e risucchiati nelle tinte forti, nei contrasti accesi, negli assordanti clamori di un popolo  in delirio. Ovunque, per la piazza, è gioia, tripudio, esaltazione: la plebe chiede sangue e sangue le sarà dato pur di liberarsi dall’incubo rivoluzionario, da una tirannide senza tiranno. Superata la porta di Sant’Eligio,  veniamo instradati da  una fiumana di invasati fin sotto il patibolo per assistere, come ci sugge­risce un  barbiere salassatore del Carmine,  alla fine ingloriosa di nobili che hanno pazziato a fare i giacobini. Tra i condannati a morte figurano elementi di spicco della Repubblica Partenopea prematuramente decaduta, quali il duca di Cassano, il ventisettenne Gennaro Serra, e la direttrice del “Monitore Napolitano”, Eleonora Pimentel Fonseca. “Ma jòca dint’’o Napule?” ci chiede uno scugnizzo rosicchiando una carruba, equivocando sul cognome famoso della giornalista. “Stàtte zitto, strunzo. Chella è ’na femmena e pirciò ’na zoc…”.

  Sfumiamo per decoro il lepido commento del lazzaro di turno e ci avviciniamo al palco, dopo aver evitato lo sbarramento delle venditrici di carne cotta e brodo di polipo, accompagnati dai cantanti “di giacca” che gorgheggiano Brigadie’, ’na sigaretta. Eccoci al cospetto della forca, tra i seguaci del cardinale Ruffo, che gridano le abituali parole d’ordine: Viva il Re e muojano i giacobini!

  Il calore della piazza gremita fa esalare spasimi e affanni, soffocando tutti in una calca da girone dantesco. Ci spingono e ci soverchiano giovanotti dalle zimarre gialle, madri che allattano bambini esangui, caporioni che fanno toletta col mignolo all’orecchio, sfac­cendati che si appoggiano ai muri per orinare fischiettando, prostitute laide che smuovono le gonne invitanti a mo’ di bandiere. Dai fondaci della marina arri­vano a squarciagola cori di musici cam­pagnoli, richiami di imbonitori, appelli di predicatori come nei migliori mercati televisivi. Sulle bancarelle fanno mostra di sé mercanzie colorate e di ogni spe­cie: cocomeri, spighe, fichi, pomodori. Sembra il presepe del Cuciniello.

  Dal Ponte dei Granili giungono quadriglie di danzatrici, di fujenti, di restauratori dell’autorità monarchica. Le voci si confondono, si mescolano, si rincorrono: agli schiamazzi dei balordi fanno da eco le invettive dei sanfedisti ma più cupo si leva nell’aria un retorico e retrivo proclama: “La Religione! Il Re! L’onore delle donne, la vita e la roba!”, strillato dai balconi dei bottegai che si affacciano sulla piazza. Le prostitute ironizzano sull’onore delle donne sol­levandosi le gonne e mostrando i culi come ballerine di can-can. Ma è davvero un can-can, “No, è ’nu  burdello!”, mi cor­regge un vecchio gottoso, “’Na zarzuela” aggiunge un giovane di notaio dai capelli bianchi, sdegnandosi poi con uno spu­to su una crocchia di giocatori che ac­cetta scommesse sull’ordine di esecu­zione dei condannati. “Chi mòre pe’ primmo? ’O marchese o ’a signora?”. Ma ecco che tutti tacciono attoniti: ha fatto il suo ingresso nella piazza il carro degli infelici, preceduto da un plotone di guardie, delegati della Vicaria, spie del barone Guidobaldi, capo della polizia segreta, fra i quali spicca Vincenzo Spe­ciale, detto ’O Siciliano, tristemente di­stintosi, come scriverà il Cuoco, per il “macello di carne umana in Procida”, appena un mese e mezzo fa.

   Il ronzìo delle telecamere, pub­bliche e private, fa da contrappunto macabro alla lentezza del corteo: una guardia straccia la bandiera gialla e ros­sa della Repubblica che ancora resisteva come provocatorio festone sull’arco di una congrega. Ecco il boia dal nome celestiale, Tommaso Paradiso: sale sul patibolo con lo stesso ieratico distacco che si dice sia il miglior pregio del suo più celebre e meglio pagato collega romano, il solenne Mastro Titta. I sette condannati non hanno espressione sui loro volti, sembrano addirittura infastiditi da tanto apparato. Pare che la Pimentel abbia sorbito un caffè prima di pronunciare le ultime parole: “Forsan haec olim meminisse iuvabit”… “E che cancaro vuleva dìcere?”. All’incolto stagnaro si premura di rispondere col suo solito zelo ridondante Luciano De Crescenzo, mentre Marisa Laurito, un po’ defilata, si abbandona a un paio di lacrime estemporanee. Chi non piange, ma stringe i denti, è il gruppo dei radica­li confuso tra la folla: riconosciamo tra gli altri la Barracco Stampa con le bozze dei manifesti di “Napoli ’99”, la Salvato di “Rifondazione” che copre uno smar­rito Bassolino, che a sua volta copre uno smunto Biagio De Giovanni. Poi c’è il gruppo capeggiato da Carlo Fermariello con Boris Ulianich, e la Cortese Ardias in visita d’ossequio.

   Accanto al banco dell’acqua­frescaio scorgiamo Carlo Ciliberto, Maurizio Cotrufo, e Mimmo Jodice già pronto al clic fatale. Tra lazzari e strozzini girano le spalle i direttori dei quotidiani con i loro vice, con o senza telefoni controllati.

   È presente l’editoria di punta, Guida e Liguori, e di mezza punta, Pironti e Colonnese. C’è Renato de Falco coi suoi alfabeti, Luigi Necco, pingue e sfasato che litiga col TG5, Ciaravolo l’inventore delle sciocchezze, il prima e il dopo terremoto, il prima e il dopo Eduardo, il British, il Goethe, il Grenoble, il console misconosciuto della Repub­blica delle Banane, i fratelli Abbagnale, Careca e Ferlaino. Sperduti ed emarginati notiamo don Riboldi e Gerardo Marotta: l’uno prega, l’altro singulta, da nessuno consolato.

  Renzo Arbore intona Còre ’ngrato. Insomma, ci sono tutti e il po­polo chiede pure autografi, autografi e sangue. Manca solo la classe dirigente, quella che ha voluto la restaurazione: evidentemente è alle prese con le mazzette di Tangentopoli. Il momento è arrivato, c’è silenzio, attesa: un filo di vento freddo agghiaccia questa caldissima giornata di agosto.

  Ecco il cappio che strozza il collo della Pimentel, la Repubblica è morta un po’ di più e la plebe può finalmente sfogare la gioia e cantare i suoi mottetti di scherno alla “Signora donna Lionora”. Un rullo di tamburi chiude non solo l’esecuzione ma anche il colore di questa cronaca e l’ultima cartella. Peccato per la forza interiore: non siamo riusciti a esternarla, era troppo profonda ed è rimasta per cautela fin troppo dentro, anche questa volta.

 

Da  NAPOLI Guide, Giugno 1993

               

                                   

                                                                     


                PALAZZO REALE

 

            Dialogo surreale tra re  in una notte di  mezza estate

 

 

          UNA PARATA DA G8

 

            di Antonio Scavone

 

 

   Diciamoci la verità: ne sentiremmo di tutti i colori se le otto statue della facciata diPalazzo Reale potessero parlare. Ma guardatele: stanno gomito a gomito otto fra i re più autorevoli che Napoli abbia avuto e infatti rappresntano quanto di più disarmonico e discontinuo si sia mai potuto combinare nei secoli tra i sovrani che hanno dominato la città e il Sud.

 

 

    C

hi le ha sistemate queste statue tanto incompatibili fra di loro? Chi le ha volute così, l’una accanto all’altra, pompose e sproporzionate, ciclopiche e inquietanti? Oh bella! Il mio Umberto, il mio fjeul!… Chi ha parlato? Ci giriamo intorno guardin­ghi: è tardi, la piazza è deserta, at­traversata solo dalle macchine luci­de dei nottambuli da discoteca e da qualche sparuto autobus che sfrec­cia spedito e senza passeggeri. Si può sapere di chi è questa  parlata piemontese? Ma di un piemontese, perbacco! Anzi di un Savoia! No, non ci troviamo in un film di Ze­meckis: che lo crediate o no, a par­lare è stata l’ultima statua in fondo, quella con la spada sguainata, quella di Vittorio Emanuele II.

   Ci avviciniamo con cautela, poi ci fermiamo: la statua ha fatto scintilla­re la spada sotto i riflessi della luna, si è protesa in avanti mostrando i baffoni e il pizzo di Vittorio Ema­nuele che accenna pure una smorfia, come di richiamo, come il pro­fessor Unrat de “L’Angelo azzurro”. Ah, è lei, maestà... Unrat-Emanuele annuisce gongolando. Quindi è sta­to suo figlio, Umberto I a volere che le nicchie fossero occupate dalle statue dei re di Napoli? “Sì, amico mio, nel 1888 o nell’’89, c’era il Crispi al governo, conosce?. Sì, certo, il Crispi. “Cosa vuole, noi siamo una dinastia dedita all’arte e alla cosa, come si chiama?”... Azzardiamo: alla cultura? “Ecco, bravo, quella! Lo sa lei che il mio ragazzo ti ha inaugurato anche il monumento a tale Giordano Bruno in quel di Roma?” Ma davve­ro? “Altroché!”. E mi dica, sire...Altro­ché un corno!” replica da sinistra con voce cavernosa la prima statua: “La cultura vera l’abbiamo portata noialtri Normanni! Abbiamo creato noi tolleranza e integrazione, dirit­to e salute, giustizia e sapienza!” e salta giù dalla nicchia sbattendo lo spadone sul selciato, mostrandosi nella sua altissima statura da vichingo.

         L’apparizione di Ruggero il Norman­no ci ha sbigottiti, ammutoliti, affasci­nati, ma ecco che si anima anche la terza statua, quella di Carlo d’Angiò, che apostrofa il rivale e predecessore con toni pungenti da ciambellano: “Cultura! Fate presto voi a riempirvi la bocca di questa parola, come se bastasse dirla per far prosperare un regno! Ci vuole ben altro! Dare lavo­ro e fornire giudizio, creare negozi e costruire case!”. “Quelle non sono ca­se - ribatte Ruggero - ma conventi, chiese, monasteri e ospizi!”. Sta per av­ventarsi sull’angioino ma viene bloc­cato dalla quarta statua, il solenne Alfonso d’Aragona, che ci fa pensare chissà perché all’autoritratto di Dürer. “Fèr­mati, normanno e recita una litania di continenza”. “Chètati tu, chierico!” risponde infuriato Ruggero vibrando poi un fendente che per fortuna si sgretola sul piperno del piedistallo. La scena è emozionante: sembra di stare in Highlander o, tutt’al più, in Brancaleone. Dalla sesta nicchia, suonando un campanellino da mag­giordomo, attira su di sé l’attenzione Carlo III, piccolo di statura, con i denti cariati e il naso foruncoloso. Riesce a sedare la disputa fra i due il­lustrando il suo onusto cursus hono­rum di re: dal teatro San Carlo al pa­lazzo Fuga, dal ponte sul Volturno agli scavi di Pompei. Il monologo di Carlo III, lezioso ed estenuante, vie­ne interrotto dalla settima statua, da Gioacchino Murat che inveisce con­tro i re conservatori e dispotici, riven­dicando l’etichetta di sovrano auten­tico perché nato dal popolo, quindi citoyen. “Ladro e opportunista!” è l’ac­cusa di Ruggero, “Borghese e traditore!” quella di Carlo d’Angiò, “Rozzo e sen­za Dio” deplora Alfonso stracciandosi le vesti. Ci corre l’obbligo di stem­perare la rissa: “Ma via, sovrani, liti­gare per la cultura non è il caso, non è da voi. Avete ciascuno operato per lo splendore della città”.

       Ma nessuno si irrita per la stri­sciante ipocrisia delle nostre parole: sono talmente avvezzi ai leccapiedi che non se ne adontano più di tanto. Ci accorgiamo solo adesso che né Federico II né Carlo V sono interve­nuti nel dibattito. “Quelli sono impe­ratori - rileva Carlo d’Angio - uno è occupato col regno dove non tra­monta il sole e l’altro fa le Crociate”. “Sì, le parole crociate” aggiunge mesta­mente Ruggero. Si guardano, rinfo­derano le sciabole e se ne risalgono nelle nicchie: depressi, delusi, tristi. Riprendono le loro pose statuarie, in quella parata da G 8 che non c’è mai stata ma che dura dal 1888 o dall’’89: governo Crispi, conoscete?


 

Da  NAPOLI Guide, Luglio 1993

 

                                

 

 

                  IL PORTO DELLA LETTERATURA DELL’ARTE E DELLA CITTA’

 

                Aspettando che sbarchino scrittori mondiali, romanzieri epocali, maestri da “writing school”     e saggisti da “best seller”. E al porto succede che...

 

 

            ARRIVA UN BASTIMENTO CARICO DI... “PENNE”

 

 

              di  Antonio Scavone

 

 


 

F

 

orse è stata solo una voce di corridoio o l’esagera­zione di qualche cronista affamato di “scoop” eppure, tentati anche noi dal fascino del grande evento, ci ritroviamo al porto, al molo angioino, alle sei di mattina e con un freddo cane, ad attendere l’arrivo di una nave.

   C’è poca animazione stamattina al porto: gli ormeggiatori guardano attoniti il mulinello delle cartacce aizzate dallo scirocco, i gabbiani tagliano l’aria come bighellonando e i rimorchiatori bofonchiano il solito ran­tolo da motore ingolfato: come se fosse un giorno qualunque e non dovesse succedere nulla. E invece noi stiamo in trepida attesa di una nave speciale, una raffinatissima boat-people: niente meno che un bastimento carico di penne. Sì, di penne o, se volete, di invenzioni, di intuizioni, di stili. Insomma tra poco sbarcheranno a Napoli scrittori mondiali, romanzieri epocali, maestri da writing school, saggisti da best sellers.

    Ognuno di loro risponderà, da par suo,  all’invito lanciato dal sindaco Bassolino di raccontare Napoli, di farla vivere o rivivere con le loro storie, con i loro occhi. A fare gli onori di casa, ci hanno detto, sarà Raffaele La Capria, ambasciatore e anfitrione dell’iniziativa, mentre gli scrittori nostrani (da Luigi Compagnone a Enzo Moscato, da Erri De Luca alla Ramondino), un po’ defilati per lasciar spazio agli stranieri, faranno come si dice “rappresentan­za”. Sono febbrilmente attesi, a quanto si è saputo, Gabriel Garcia Marquez, Osvaldo Soriano, Philippe Sollers, la Sontag, la Gordimer, José Saramago, lsmail Kadaré e, se gli integralisti islamici lo consentiranno, vedremo la faccia assonnata di Salman Rushdie e quella paffuta di Taslima Nasreen.

      Ha disertato purtroppo l’egiziano Mahfouz, ancora convalescente, ma sarà presente invece l’ultimo Nobel, il giapponese Kenzaburo Oe, accompagnato da Naipaul e Mo Jan. Ma ecco che appare non una, ma un’intera f1otta di navi: tutte colorate, tutte letterarie. Lo intuiamo dai pavesi delle alberature, da fiocchi orlati, da variopinte ban­dierine, da gale e nastrini che garriscono allegri a trinchet­to e a maestra. Un momento, ma che navi sono? Non fanno né fumo né rumore, scivolano sull’acqua come velieri d’altri tempi, quasi caracollando, beccheggiando come mascheroni di Carnevale, affossando dolcemente tra le onde le gomene d’ottone sulle quali leggiamo nomi come “Pequod”, “Indomita”, “Hispaniola”, “Nan-Shan”, “Antilope”. Ma queste sono le navi di “Moby Dick”, di “Bill  Budd”, dell’“Isola del Tesoro”, di “Tifone”, cioè sono le navi dei romanzi di Melville, di Stevenson, di Conrad, di Swift.

    Questa sì che è una notizia! Nel porto di Napoli sono arrivate le navi degli scrittori marinari: un omaggio alla città, al suo mare, al suo golfo. Ma ancora altre ne arriva­no: la “Nellie” di “Cuore di tenebra” con la “Melita” di “Linea d’ombra” e poi ancora “Oedipus-Tyrannus” di “Ultramarina” di Malcolm Lawry, la scalcagnata “Alción” descritta da Àlvaro Mutis nell’“Ultimo scalo del Tramp Steamer”, la tenebrosa “Gloria N.”, che Fellini inventò per “E la nave va”, la “Victoria” che riportò in salvo Antonio Pigafetta dalla sfortunata spedizione di Magellano e dietro queste sagome altissime scorgiamo pure la “Provvidenza”, la barca rattoppata ma gagliarda che Verga creò per i “Malavoglia”. C’è di che stupirsi: nel porto di Napoli sta attraccando la Letteratura!

     Esaltati e intimoriti da tanta gloria, troviamo il coraggio di avvicinarci alle navi, di sfiorarne il fasciame incatramato e di chiamare per nome gli scrittori come si fa a scuola, tra compagni di classe: Conrad! Melville! Verga! Swift!… Nessuno risponde: le navi si dondolano mute e legnose. Proviamo allora a chiamare i personaggi: Mac Whirr! Long John! Padron ’Ntoni! Gulliver! Achab!… Niente, il silenzio è inquietante, da vascelli-fantasma. Ci accorgia­mo solo adesso che le navi sono venute da sé, senza equi­paggi, spinte dal vento che sta spazzando ancora ogni cosa, come in mare aperto quando prepara bunasche.

      E allora? Gli scrittori mondiali, la Letteratura? Qual è il messaggio di queste navi romanzesche che si sono pre­sentate senza i loro autori e che adesso virano sinistre per riprendere il largo, per adempiere ai loro uragani e alle loro avventure? Che cosa ci hanno voluto dire con questa visita breve e questo congedo repentino? Il fruscìo delle vele, lo sciabordìo delle acque, il tremolìo dei legni: le navi si allontanano con leggerezza, spariscono senza risposte. E ora che facciamo? Aspettiamo un’altra fuga di notizie, possibilmente più affidabili? Chiediamo lumi a Bassolino, a La Capria, magari a Baricco, o aspettiamo un’altra nave, come l’aspetta invano l’“Almayer” di Conrad?                                                                             


                                                                                                                    

 

Da  NAPOLI Guide, Dicembre 1994

          

                                 

 

Antonio Scavone

Bluff o gioco al risparmio?

 

 

Relazione per il Convegno organizzato dal COLLETTIVO ACCA di Pagani (SA)

sulla drammaturgia italiana contemporanea: “Un grande bluff?”

 

 

 

    Alla domanda,  retorica e senz’altro provocatoria, che dà il titolo a questo Convegno,  verrebbe naturale rispondere di  sì, che il teatro italiano contemporaneo è davvero un grande bluff. E verrebbe di rispon­dere positivamente, affermativamente, non tanto per aderire ad una boutade, o per quella sorta di premeditato malanimo che il teatrante ita­liano cova dentro di sé persecutoriamente (prima contro gli altri e alla fine contro se stesso), quanto per una dichiarazione di poetica raramente  richiesta,  per un progetto di praticabilità poetica,  oltre che scenica, sottilmente eluso.

     Il  teatro  contemporaneo  è  dato - come  qualsiasi altro apparato di mercato - dal teatro che si scrive, da quello che si propone e da quello che  viene messo in scena. Non tutto il teatro scritto viene proposto, come non tutto quello proposto arriva poi sulla scena.

      A  scegliere,  produrre  e  promuovere questa gran massa di novità italiane (l’IDI ne conta più di trecento ogni anno), si candidano, come sappiamo, i Teatri Stabili  (che subito si pentono delle scelte ma non delle spese faraoniche)  e quelli privati  (sempre attenti al richiamo di  nomi  e  ditte  secondo la logica del “testimonial” come per la pubblicità).  Tra  questi,  oltre  questi,  ci  sono  le  cooperative,  le società per artisti, i gruppi spontanei, le nuove associazioni. Di norma, nonché  per  statuto,  spetterebbe  agli  Stabili  reperire  le  novità, selezionarle e  quindi produrle;  per consuetudine,  toccherebbe poi ai privati promuovere il pubblico a teatro con proposte facilmente “dige­ribili” - quanto a testo e messinscena - e notevolmente “godibili” per  gli  interpreti  chiamati a  realizzarle.  Agli Enti  istituzionali che fanno da supporto al teatro d’autore si riconoscerebbero e di  fatto si  riconoscono  soltanto  i  “buoni uffici”:  segnalazioni,  indicazioni, suggerimenti. Sono funzioni minime, come si vede, quasi assistenziali, virtuali ma, almeno, c’è da rallegrarsi se con le magagne di Tangentopoli non siano stati scoperti padrini o “clientes” di dubbio favore. Reste­rebbe così solo ai gruppi autonomi - che pure, nel frattempo, e con gran­di  fatiche,  si  sono  consolidati  -  presentare  le  vere  novità,  i nuovi messaggi,  le nuove tecniche, desumendole dalle avanguardie (o quel che di loro resta) e dalle sperimentazioni (di sintesi, di transcodificazione).

     Che  il  teatro  contemporaneo  sia  un  bluff -  più o meno deludente, o dolente - lo sostengono, da sempre,  i Teatri Stabili  (quei pochi che ancora riescono a tenere in pareggio i bilanci della loro stabilità). Lo sostengono  anche,  ma  con  i  toni  dell’invettiva,  i  teatri  privati che  diffidano  pregiudizialmente  - quasi fosse una disgrazia nazionale avere gente che scrive - di tutto ciò che riguarda storie o racconti, personaggi o situazioni legati alla nostra storia politica e sociale, ai nostri personaggi di rilievo, alle nostre situazioni di costume, di vita, di esistenza. Non lo sostengono, è chiaro, i gruppi di ricerca (non così folti e agguerriti come dieci o quindici anni fa) ma, a modo loro,  senza volerlo e dedicando al problema un’attenzione che a molti sembra solo accademica - di una nuova accademia degli Emarginati - anche questi gruppi sottoscrivono un inquietante de profundis, proprio loro che,  dalle  cantine  di  una  volta,  stentano  sicuramente  per  pudore a lasciare il sottosuolo,  ad affacciarsi orgogliosamente sulla realtà, a provare a staccarsi con puntiglio da un’élite di habitués.

     Non  sembra  strano,  pertanto,  che  proprio  la  forza per  così dire deputata al rinnovamento mostri poi segni di distacco e di scetticismo, tutta  racchiusa,  gelosamente  racchiusa,  in  una  nuova  maniera,  per messaggi  che  restano  allusivi  e  per  allusioni  che  non  vanno  oltre un’etica nobile e altera,  dai tratti puritani. Ma è ancora più strano, per non dire parossistico,  che tutti poi chiedano lucidità e spessore sempre  e  solo  al  teatro di ricerca,  come se a questo tipo di teatro spettasse,   ad  libitum,   l’infame  destino  di  profeti  inascoltati, di  Cassandre  ridicolizzate,   di  Prometei  incatenati,  di  Filotteti feriti e abbandonati.

     Quando questa lucidità o questo coraggio vengono negati  agli  autori  italiani,  vengono  parimenti  conferiti  agli  autori stranieri:  si  chiedono  consigli  e  copioni  a  Pinter,  a  Grotowski, a  Brook,  a  Wilson.  Il  repertorio  (italiano,  contemporaneo)  viene composto e  articolato  per  somma di  affinità sociologiche,  di stilemi estetici,  di  archètipi  culturali  da  modelli  ritenuti  più  probanti o  più  cospicui.  Secondo questa politica,  il teatro italiano contempo­raneo  è  molto  poco  italiano  (e  questo  sarebbe  il difetto più  labile e  veniale)  ma  è  anche  molto  poco  contemporaneo:  senza  cedere  alla tentazione  di  un  protezionismo nazionale,  bisogna tuttavia far notare come  al  travaglio  del  mondo  attuale  siano  ammesse,  quando  càpita, solo  poche  voci  “nostrane”  e  di  solito  per  destinazioni di  seconda o terza istanza.

   È  molto  più  rassicurante,  per  tutti,  rileggere Shakespeare  (vero Colosseo  senza  porte)  o  Pirandello  (da  poco  liberato  dai  vincoli del  diritto  d’autore)   oppure  innescare  processi  di  segmentazione testuale per raggiungere, sulla stregua di stimolanti ibridismi (quelli che  gli  inglesi  chiamano puzzling),  piattaforme  contestuali  dallo spettro  più  ampio,  capaci  di  sostenere  le  metafore  più  intricate, le paraboli più ardite, gli obiettivi più vicini ai progetti di partenza.

    In  questo  panorama  conflittuale,  e  talora  inconciliabile,  tra teatro  scritto  e  teatro  rappresentato,  o  tra  testo  e  spettacolo, anche la critica svolge un ruolo certamente ingrato ma spesso apodittico, fuorviante. Posta di fronte a dei fatti compiuti (per es. uno spettacolo brutto ma costato miliardi),  la critica tende a omologare i contributi più  disparati,  passando  da  una  celebrazione  improvvisa e  imprevista ad  una  stroncatura  altrettanto  inspiegabile  e  inaffidabile.  È  pur vero che i meriti della critica (molto più apprezzabili dei loro metodi) sono  poi  direttamente  proporzionali  alle  fatiche  dei  talenti  più  rigorosi  e  più  disciplinati  ma  chissà  perché  rigore  e  disciplina vengono attestati e conferiti più ad una missione etica dei teatranti (quelli che si sono fatti da soli, quelli che hanno penato, ecc. ecc.), che  non  ad  una temperie  estetica dei  loro  lavori.  Tutti  insorgono e chiedono  di  essere  sorpresi  e  rapiti,  illuminati  e  rincuorati:  o per  l’impegno  ideologico  o  per  la necessità di “scosse” esistenziali.

    Ed infatti siamo in tanti, sulla strada di Damasco, a essere folgorati,  a gridare allo scandalo,  alla noia,  al lamento,  all’insufficienza dei messaggi proposti. Ma parliamo solo di folgorati, quasi mai di pentiti.

    Nel  vecchio  teatro  naturalista  si  predicava  la  contiguità  tra teatro e vita, teatro come specchio della vita: ora che la vita è infini­tamente  più  complessa  delle  metafore  che  le  vengono attribuite e che la realtà è molto più misteriosa delle situazioni che da essa mimeticamente  riproduciamo,  ci  sentiamo  tutti  privi  o  privati di qualcosa, tutti  delusi,  come  il  giocatore  che  si  ritrova fra  le  mani  solo le carte ma non il punto.

     Si  tratta  forse  del  “senso  tragico”,  venuto  inesorabilmente  a mancare  (nel  teatro,  non  certo  nella  vita)?  Del  quid  primordiale che,  inafferrabile all’origine, riconvertiamo in una struttura polisemica, in una griglia dalle molteplici valenze, tale da farci riacquistare consapevolezza,  presenza  storica,  asciuttezza  di  significati?  Siamo dunque in un vicolo cieco? Siamo incerti e indecisi proprio come chi ten­ta un bluff,  ma pure e sottilmente attratti e compiaciuti della nostra stessa temerarietà?  E,  soprattutto,  è un gioco al rialzo o al ribasso? Fingiamo  una combinazione  superiore  (play)  o  cerchiamo  di  sfruttarne una inferiore  (plot)? Le risposte sono complesse, difficili.

    Sicuramente  ci  troviamo  a un  tavolo  da  gioco  ma per giocare,  con l’artificio del  bluff,  su qualcosa che non è né oscuro né medianico: stiamo  giocando  a  risparmiare  sulla  drammaturgia,  a  propiziarcela con dei fantasmi,  con dei surrogati,  come beni di consumo succedanei, surrettizî.

     Quella  drammaturgia  -  che  nessuno  va a  scoprire  o a  sfidare - è definita da molti, per  tornaconto,  assente;  da altri viene praticata con intolleranza,  con fastidio;  da pochi - i pochi che restano - viene regolarmente  inventata  e  difesa,  portata  con  coraggio  finanche  a un tavolo da gioco.

Pagani (Salerno), 3 aprile 1993