MAL Dl
MEMORIA
Genio e sregolatezza nella vita del
grande matematico
QUEL DIAVOLO
DI CACCIOPPOLI
di Antonio Scavone
Pianista, musicologo,
esperto di letteratura, conferenziere, comunista. Fra le sue multiformi
attività ci fu il suo amore per il cinema che lo portò a via Nisco a dirigere
un club molto attivo. Ora la sua vita
sarà raccontata in un film e in una “pièce” teatrale.
A |
trentadue anni dalla tragica scomparsa Renato Caccioppoli torna a far parlare di sé. All’insigne matematico, morto suicida nel 1959 all’età di cinquantacinque anni, sono stati dedicati convegni, studi, commemorazioni. La Normale di Pisa, l’Istituto Italiano di Studi Filosofici, l’Università Federiciana hanno fatto lievitare il peso e il senso di una figura che travalicava con una felicissima e naturale complessità di argomenti i confini di un magistero, quello matematico, ritenuto dai più esclusivo ed elitario.
Eclettico, bizzarro, incontenibile, Caccioppoli era un uomo dalle risorse infinite, dagli interessi mai circoscritti. Si occupava di cinema (fu il direttore del Circolo del Cinema qui a Napoli che a quei tempi era molto attivo in via Nisco), dell’attualità politica e del dibattito ideologico (innumerevoli le sue conferenze sulla pace negli anni della guerra fredda nonché le accese diatribe della sinistra italiana dopo i fatti d’Ungheria del ’56). Era inoltre un ottimo pianista, finissimo musicologo, conoscitore attento e acuto di letteratura ed esercitava questa sorta di impegno sartriano in un ambito talmente vasto da far impensierire i benpensanti di allora.
Fosse vissuto oggi gli avrebbero chiesto
un’autobiografia spudorata come si conviene, lo avrebbero invitato al talk-show
di moda, lo avrebbero celebrato per una mondanità più o meno scandalosa, ma
Caccioppoli non era uomo di lusinghe e di compiacimenti. Era una bestia nera
per tutti: per gli studenti che ne temevano l’inappellabile giudizio, per le
autorità che faticavano a seguirne il genio e le “sregolatezze”, per le
giovani generazioni che pur alla ricerca di personaggi forti e positivi dopo i
grigiori del ventennio, ne soffrivano poi le liberalità, paventandone il pericolo,
la sovrabbondanza.
E fu senz’altro un uomo “esagerato”, vittima della sua stessa smania di vivere e di agire, soffocata dalla disperazione dell’essere in un mondo che cominciava a predicare il nulla. Nondimeno si imponeva e si impone tuttora per una qualità molto rara (oggi addirittura utopica): ai clamori suscitati dal suo impegno e dalla sua dolente avventura esistenziale, Caccioppoli opponeva una propria personalissima volontà di fuga, una tensione accorata nella tragressione dei codici, una lucida ed eretica pratica dell’assenza che sconfinava spesso in una disarmante auto-negazione, come un’impronta secca e tagliente di tetra follia.
Di sé ha lasciato due ponderosi volumi d’analisi, null’altro: nessuna memoria biografica, nessun diario, niente che lo raccontasse, che potesse restituire della sua vita di uomo e di scienziato quell’ordito illuminante che di solito ci si aspetta da uomini così “presenti”.
Forse per questo autori napoletani di oggi hanno cominciato a raccontare tanto l’uomo quanto il milieu culturale che egli animava. Il cinema gli dedicherà un film e chi scrive ne ha ricostruito le due ultime giornate di vita in un testo teatrale che si prefigge di ricomporre quell’immagine scomposta, di ricostruire un racconto interrotto. E non sembri strano che un personaggio così inafferrabile, così esaltante, abbia detto tanto o tutto senza lasciare una sola parola scritta del suo immenso repertorio: il suo tumultuoso essere-nel-mondo è stato più eloquente di un destino. L’ultima lezione di Caccioppoli è tuttora in corso.
Da NAPOLI Guide,
Giugno 1991
20
Agosto 1799. Dal nostro inviato a Piazza Mercato
INDOVINA CHI SALE SUL PATIBOLO
di Antonio Scavone
Ecco la fine ingloriosa dei nobili che hanno
“pazziato” a fare i giacobini, tra lazzari, venditrici di carne cotta, brodo di
polipo e cantanti “di giacca”. Mentre dai fondaci della marina si diffondono
cori di musici campagnoli, richiami di imbonitori, appelli di predicatori da
Villaggio Globale, arriva il coro degli infelici. Ad attenderli c’è il boia dal
nome celestiale, Tommaso Paradiso. E a gremire la piazza si scopre che ci sono…
I |
l direttore è stato, come si dice oggi, ondivago: “Un pezzo di colore, ma non troppo; con una forza dentro; tre cartelle, non di più. Vai!”. E siamo andati. Ci siamo pazientemente armati di un’apprezzabile forza interiore, di un intrigante spirito d’osservazione, nonché delle canoniche tre cartelle, ed eccoci qui, inviati a Piazza Mercato, a riferire di una di quelle giornate che resteranno, speriamo, memorabili nella storia della città e forse anche della nazione.
L’approccio con la piazza, in questo pomeriggio
afoso del 20 agosto 1799, è di quelli soliti in tempi come questi: una folla festante e tumultuosa attende
trepidante la celebrazione della quattordicesima esecuzione capitale che segna
il ritorno della monarchia dopo la parentesi repubblicana e che avrà luogo a
momenti per ordine del re Ferdinando IV e del suo primo ministro, il barone
Acton.
Per il colore, diciamolo subito, non ci
possiamo lamentare: siamo già immersi e risucchiati nelle tinte forti, nei contrasti
accesi, negli assordanti clamori di un popolo
in delirio. Ovunque, per la piazza, è gioia, tripudio, esaltazione: la
plebe chiede sangue e sangue le sarà dato pur di liberarsi dall’incubo
rivoluzionario, da una tirannide senza tiranno. Superata la porta di
Sant’Eligio, veniamo instradati da una fiumana di invasati fin sotto il patibolo
per assistere, come ci suggerisce un
barbiere salassatore del Carmine, alla fine ingloriosa di nobili che hanno
pazziato a fare i giacobini. Tra i condannati a morte figurano elementi di
spicco della Repubblica Partenopea prematuramente decaduta, quali il duca di
Cassano, il ventisettenne Gennaro Serra, e la direttrice del “Monitore
Napolitano”, Eleonora Pimentel Fonseca. “Ma jòca dint’’o Napule?” ci
chiede uno scugnizzo rosicchiando una carruba, equivocando sul cognome famoso
della giornalista. “Stàtte zitto, strunzo. Chella è ’na femmena e
pirciò ’na zoc…”.
Sfumiamo per decoro il lepido commento del
lazzaro di turno e ci avviciniamo al palco, dopo aver evitato lo sbarramento
delle venditrici di carne cotta e brodo di polipo, accompagnati dai cantanti
“di giacca” che gorgheggiano Brigadie’, ’na sigaretta. Eccoci al
cospetto della forca, tra i seguaci del cardinale Ruffo, che gridano le
abituali parole d’ordine: Viva il Re e muojano i giacobini!
Il calore della piazza gremita fa esalare
spasimi e affanni, soffocando tutti in una calca da girone dantesco. Ci spingono
e ci soverchiano giovanotti dalle zimarre gialle, madri che allattano bambini
esangui, caporioni che fanno toletta col mignolo all’orecchio, sfaccendati che
si appoggiano ai muri per orinare fischiettando, prostitute laide che smuovono
le gonne invitanti a mo’ di bandiere. Dai fondaci della marina arrivano a
squarciagola cori di musici campagnoli, richiami di imbonitori, appelli di
predicatori come nei migliori mercati televisivi. Sulle bancarelle fanno mostra
di sé mercanzie colorate e di ogni specie: cocomeri, spighe, fichi, pomodori.
Sembra il presepe del Cuciniello.
Dal Ponte dei Granili giungono quadriglie di
danzatrici, di fujenti, di restauratori dell’autorità
monarchica. Le voci si confondono, si mescolano, si rincorrono: agli schiamazzi
dei balordi fanno da eco le invettive dei sanfedisti ma più cupo si leva
nell’aria un retorico e retrivo proclama: “La Religione! Il Re!
L’onore delle donne, la vita e la roba!”, strillato dai balconi dei
bottegai che si affacciano sulla piazza. Le prostitute ironizzano sull’onore
delle donne sollevandosi le gonne e mostrando i culi come ballerine di can-can.
Ma è davvero un can-can, “No, è ’nu
burdello!”, mi corregge un vecchio gottoso, “’Na zarzuela”
aggiunge un giovane di notaio dai capelli bianchi, sdegnandosi poi con uno
sputo su una crocchia di giocatori che accetta scommesse sull’ordine di esecuzione
dei condannati. “Chi mòre pe’ primmo? ’O marchese o ’a signora?”. Ma
ecco che tutti tacciono attoniti: ha fatto il suo ingresso nella piazza il
carro degli infelici, preceduto da un plotone di guardie, delegati della Vicaria,
spie del barone Guidobaldi, capo della polizia segreta, fra i quali spicca
Vincenzo Speciale, detto ’O Siciliano, tristemente distintosi,
come scriverà il Cuoco, per il “macello di carne umana in Procida”, appena un
mese e mezzo fa.
Il ronzìo delle telecamere,
pubbliche e private, fa da contrappunto macabro alla lentezza del corteo: una
guardia straccia la bandiera gialla e rossa della Repubblica che ancora
resisteva come provocatorio festone sull’arco di una congrega. Ecco il boia dal
nome celestiale, Tommaso Paradiso: sale sul patibolo con lo stesso ieratico
distacco che si dice sia il miglior pregio del suo più celebre e meglio
pagato collega romano, il solenne Mastro Titta. I sette condannati non hanno
espressione sui loro volti, sembrano addirittura infastiditi da tanto apparato.
Pare che la Pimentel abbia sorbito un caffè prima di pronunciare le ultime
parole: “Forsan haec olim meminisse iuvabit”… “E che cancaro vuleva
dìcere?”. All’incolto stagnaro si premura di rispondere col suo solito zelo
ridondante Luciano De Crescenzo, mentre Marisa Laurito, un po’ defilata, si
abbandona a un paio di lacrime estemporanee. Chi non piange, ma stringe i
denti, è il gruppo dei radicali confuso tra la folla: riconosciamo tra gli
altri la Barracco Stampa con le bozze dei manifesti di “Napoli ’99”, la Salvato
di “Rifondazione” che copre uno smarrito Bassolino, che a sua volta copre uno
smunto Biagio De Giovanni. Poi c’è il gruppo capeggiato da Carlo Fermariello
con Boris Ulianich, e la Cortese Ardias in visita d’ossequio.
Accanto al banco dell’acquafrescaio
scorgiamo Carlo Ciliberto, Maurizio Cotrufo, e Mimmo Jodice già pronto al clic
fatale. Tra lazzari e strozzini girano le spalle i direttori dei quotidiani con
i loro vice, con o senza telefoni controllati.
È presente l’editoria di punta, Guida e
Liguori, e di mezza punta, Pironti e Colonnese. C’è Renato de Falco coi suoi
alfabeti, Luigi Necco, pingue e sfasato che litiga col TG5, Ciaravolo
l’inventore delle sciocchezze, il prima e il dopo terremoto, il prima e il dopo
Eduardo, il British, il Goethe, il Grenoble, il console misconosciuto della
Repubblica delle Banane, i fratelli Abbagnale, Careca e Ferlaino. Sperduti ed
emarginati notiamo don Riboldi e Gerardo Marotta: l’uno prega, l’altro
singulta, da nessuno consolato.
Renzo Arbore intona Còre ’ngrato. Insomma,
ci sono tutti e il popolo chiede pure autografi, autografi e sangue. Manca
solo la classe dirigente, quella che ha voluto la restaurazione: evidentemente
è alle prese con le mazzette di Tangentopoli. Il momento è arrivato, c’è
silenzio, attesa: un filo di vento freddo agghiaccia questa caldissima giornata
di agosto.
Ecco il cappio che strozza il collo della
Pimentel, la Repubblica è morta un po’ di più e la plebe può finalmente sfogare
la gioia e cantare i suoi mottetti di scherno alla “Signora donna Lionora”. Un
rullo di tamburi chiude non solo l’esecuzione ma anche il colore di questa
cronaca e l’ultima cartella. Peccato per la forza interiore: non siamo riusciti
a esternarla, era troppo profonda ed è rimasta per cautela fin troppo dentro,
anche questa volta.
Da NAPOLI
Guide, Giugno 1993
PALAZZO REALE
Dialogo
surreale tra re in una notte di mezza estate
UNA
PARATA DA G8
di Antonio Scavone
Diciamoci la verità: ne sentiremmo di
tutti i colori se le otto statue della facciata diPalazzo Reale potessero parlare.
Ma guardatele: stanno gomito a gomito otto fra i re più autorevoli che Napoli
abbia avuto e infatti rappresntano quanto
di più disarmonico e discontinuo si sia mai potuto combinare nei secoli tra i
sovrani che hanno dominato la città e il Sud.
C |
hi le ha sistemate queste statue tanto incompatibili fra di loro? Chi le ha volute così, l’una accanto all’altra, pompose e sproporzionate, ciclopiche e inquietanti? Oh bella! Il mio Umberto, il mio fjeul!… Chi ha parlato? Ci giriamo intorno guardinghi: è tardi, la piazza è deserta, attraversata solo dalle macchine lucide dei nottambuli da discoteca e da qualche sparuto autobus che sfreccia spedito e senza passeggeri. Si può sapere di chi è questa parlata piemontese? Ma di un piemontese, perbacco! Anzi di un Savoia! No, non ci troviamo in un film di Zemeckis: che lo crediate o no, a parlare è stata l’ultima statua in fondo, quella con la spada sguainata, quella di Vittorio Emanuele II.
Ci avviciniamo con cautela, poi ci fermiamo: la statua ha fatto scintillare la spada sotto i riflessi della luna, si è protesa in avanti mostrando i baffoni e il pizzo di Vittorio Emanuele che accenna pure una smorfia, come di richiamo, come il professor Unrat de “L’Angelo azzurro”. Ah, è lei, maestà... Unrat-Emanuele annuisce gongolando. Quindi è stato suo figlio, Umberto I a volere che le nicchie fossero occupate dalle statue dei re di Napoli? “Sì, amico mio, nel 1888 o nell’’89, c’era il Crispi al governo, conosce?”. Sì, certo, il Crispi. “Cosa vuole, noi siamo una dinastia dedita all’arte e alla cosa, come si chiama?”... Azzardiamo: alla cultura? “Ecco, bravo, quella! Lo sa lei che il mio ragazzo ti ha inaugurato anche il monumento a tale Giordano Bruno in quel di Roma?” Ma davvero? “Altroché!”. E mi dica, sire... “Altroché un corno!” replica da sinistra con voce cavernosa la prima statua: “La cultura vera l’abbiamo portata noialtri Normanni! Abbiamo creato noi tolleranza e integrazione, diritto e salute, giustizia e sapienza!” e salta giù dalla nicchia sbattendo lo spadone sul selciato, mostrandosi nella sua altissima statura da vichingo.
L’apparizione di Ruggero il
Normanno ci ha sbigottiti, ammutoliti, affascinati, ma ecco che si anima
anche la terza statua, quella di Carlo d’Angiò, che apostrofa il rivale e
predecessore con toni pungenti da ciambellano: “Cultura! Fate presto
voi a riempirvi la bocca di
questa parola, come se bastasse dirla per far prosperare un regno! Ci vuole ben
altro! Dare lavoro e fornire giudizio, creare negozi e costruire case!”. “Quelle non sono case - ribatte
Ruggero - ma conventi, chiese, monasteri
e ospizi!”. Sta per avventarsi sull’angioino ma viene bloccato dalla
quarta statua, il solenne Alfonso d’Aragona, che ci fa pensare chissà perché
all’autoritratto di Dürer. “Fèrmati, normanno e recita una
litania di continenza”. “Chètati tu, chierico!” risponde infuriato
Ruggero vibrando poi un fendente che per fortuna si sgretola sul piperno del
piedistallo. La scena è emozionante: sembra di stare in Highlander o, tutt’al più, in Brancaleone. Dalla sesta nicchia,
suonando un campanellino da maggiordomo, attira su di sé l’attenzione Carlo
III, piccolo di statura, con i denti cariati e il naso foruncoloso. Riesce a
sedare la disputa fra i due illustrando il suo onusto cursus honorum di
re: dal teatro San Carlo al palazzo Fuga, dal ponte sul Volturno agli scavi di
Pompei. Il monologo di Carlo III, lezioso ed estenuante, viene interrotto
dalla settima statua, da Gioacchino Murat che inveisce contro i re
conservatori e dispotici, rivendicando l’etichetta di sovrano autentico
perché nato dal popolo, quindi citoyen. “Ladro e opportunista!” è
l’accusa di Ruggero, “Borghese e
traditore!” quella di Carlo d’Angiò, “Rozzo
e senza Dio” deplora
Alfonso stracciandosi le vesti. Ci corre l’obbligo di stemperare la rissa: “Ma via, sovrani, litigare per la cultura non è il caso, non è da voi. Avete ciascuno operato per lo
splendore della città”.
Ma nessuno si irrita per la strisciante ipocrisia delle nostre parole: sono talmente avvezzi ai leccapiedi che non se ne adontano più di tanto. Ci accorgiamo solo adesso che né Federico II né Carlo V sono intervenuti nel dibattito. “Quelli sono imperatori - rileva Carlo d’Angio - uno è occupato col regno dove non tramonta il sole e l’altro fa le Crociate”. “Sì, le parole crociate” aggiunge mestamente Ruggero. Si guardano, rinfoderano le sciabole e se ne risalgono nelle nicchie: depressi, delusi, tristi. Riprendono le loro pose statuarie, in quella parata da G 8 che non c’è mai stata ma che dura dal 1888 o dall’’89: governo Crispi, conoscete?
Da NAPOLI Guide,
Luglio 1993
IL PORTO DELLA LETTERATURA DELL’ARTE E DELLA CITTA’
Aspettando che sbarchino
scrittori mondiali, romanzieri epocali, maestri da “writing school” e saggisti da “best seller”. E al porto
succede che...
ARRIVA UN BASTIMENTO CARICO DI...
“PENNE”
di Antonio Scavone
F |
orse è stata solo una voce di corridoio o
l’esagerazione di qualche cronista affamato di “scoop” eppure, tentati anche
noi dal fascino del grande evento, ci ritroviamo al porto, al molo angioino,
alle sei di mattina e con un freddo cane, ad attendere l’arrivo di una nave.
C’è
poca animazione stamattina al porto: gli ormeggiatori guardano attoniti il
mulinello delle cartacce aizzate dallo scirocco, i gabbiani tagliano l’aria
come bighellonando e i rimorchiatori bofonchiano il solito rantolo da motore
ingolfato: come se fosse un giorno qualunque e non dovesse succedere nulla. E
invece noi stiamo in trepida attesa di una nave speciale, una raffinatissima boat-people:
niente meno che un bastimento carico di penne. Sì, di penne o, se volete, di
invenzioni, di intuizioni, di stili. Insomma tra poco sbarcheranno a Napoli
scrittori mondiali, romanzieri epocali, maestri da writing school,
saggisti da best sellers.
Ognuno di loro risponderà, da par suo,
all’invito lanciato dal sindaco Bassolino di raccontare Napoli, di farla
vivere o rivivere con le loro storie, con i loro occhi. A fare gli onori di
casa, ci hanno detto, sarà Raffaele La Capria, ambasciatore e anfitrione
dell’iniziativa, mentre gli scrittori nostrani (da Luigi Compagnone a Enzo
Moscato, da Erri De Luca alla Ramondino), un po’ defilati per lasciar spazio
agli stranieri, faranno come si dice “rappresentanza”. Sono febbrilmente
attesi, a quanto si è saputo, Gabriel Garcia Marquez, Osvaldo Soriano, Philippe
Sollers, la Sontag, la Gordimer, José Saramago, lsmail Kadaré e, se gli
integralisti islamici lo consentiranno, vedremo la faccia assonnata di Salman
Rushdie e quella paffuta di Taslima Nasreen.
Ha disertato purtroppo l’egiziano Mahfouz,
ancora convalescente, ma sarà presente invece l’ultimo Nobel, il giapponese
Kenzaburo Oe, accompagnato da Naipaul e Mo Jan. Ma ecco che appare non una, ma
un’intera f1otta di navi: tutte colorate, tutte letterarie. Lo intuiamo dai
pavesi delle alberature, da fiocchi orlati, da variopinte bandierine, da gale
e nastrini che garriscono allegri a trinchetto e a maestra. Un momento, ma che
navi sono? Non fanno né fumo né rumore, scivolano sull’acqua come velieri
d’altri tempi, quasi caracollando, beccheggiando come mascheroni di Carnevale,
affossando dolcemente tra le onde le gomene d’ottone sulle quali leggiamo nomi
come “Pequod”, “Indomita”, “Hispaniola”, “Nan-Shan”, “Antilope”. Ma queste sono
le navi di “Moby Dick”, di “Bill Budd”,
dell’“Isola del Tesoro”, di “Tifone”, cioè sono le navi dei romanzi di Melville,
di Stevenson, di Conrad, di Swift.
Questa sì che è una notizia! Nel
porto di Napoli sono arrivate le navi degli scrittori marinari: un omaggio alla
città, al suo mare, al suo golfo. Ma ancora altre ne arrivano: la “Nellie” di
“Cuore di tenebra” con la “Melita” di “Linea d’ombra” e poi ancora
“Oedipus-Tyrannus” di “Ultramarina” di Malcolm Lawry, la scalcagnata “Alción”
descritta da Àlvaro Mutis nell’“Ultimo scalo del Tramp Steamer”, la tenebrosa
“Gloria N.”, che Fellini inventò per “E la nave va”, la “Victoria” che riportò
in salvo Antonio Pigafetta dalla sfortunata spedizione di Magellano e dietro
queste sagome altissime scorgiamo pure la “Provvidenza”, la barca rattoppata ma
gagliarda che Verga creò per i “Malavoglia”. C’è di che stupirsi: nel porto di
Napoli sta attraccando la Letteratura!
Esaltati e intimoriti da tanta gloria,
troviamo il coraggio di avvicinarci alle navi, di sfiorarne il fasciame
incatramato e di chiamare per nome gli scrittori come si fa a scuola, tra
compagni di classe: Conrad! Melville! Verga! Swift!… Nessuno risponde: le navi
si dondolano mute e legnose. Proviamo allora a chiamare i personaggi: Mac
Whirr! Long John! Padron ’Ntoni! Gulliver! Achab!… Niente, il silenzio è
inquietante, da vascelli-fantasma. Ci accorgiamo solo adesso che le navi sono
venute da sé, senza equipaggi, spinte dal vento che sta spazzando ancora ogni
cosa, come in mare aperto quando prepara bunasche.
E
allora? Gli scrittori mondiali, la Letteratura? Qual è il messaggio di queste
navi romanzesche che si sono presentate senza i loro autori e che adesso
virano sinistre per riprendere il largo, per adempiere ai loro uragani e alle loro
avventure? Che cosa ci hanno voluto dire con questa visita breve e questo
congedo repentino? Il fruscìo delle vele, lo sciabordìo delle acque, il
tremolìo dei legni: le navi si allontanano con leggerezza, spariscono senza
risposte. E ora che facciamo? Aspettiamo un’altra fuga di notizie,
possibilmente più affidabili? Chiediamo lumi a Bassolino, a La Capria, magari a
Baricco, o aspettiamo un’altra nave, come l’aspetta invano l’“Almayer” di
Conrad?
Da NAPOLI Guide, Dicembre 1994
Antonio Scavone
Bluff o gioco al risparmio?
Relazione per il Convegno organizzato dal COLLETTIVO ACCA di
Pagani (SA)
sulla drammaturgia italiana contemporanea: “Un grande bluff?”
Alla domanda, retorica e senz’altro provocatoria, che dà il
titolo a questo Convegno, verrebbe
naturale rispondere di sì, che il teatro
italiano contemporaneo è davvero un grande bluff.
E verrebbe di rispondere positivamente, affermativamente, non tanto per
aderire ad una boutade, o per quella
sorta di premeditato malanimo che il teatrante italiano cova dentro di sé
persecutoriamente (prima contro gli altri e alla fine contro se stesso), quanto
per una dichiarazione di poetica raramente
richiesta, per un progetto di
praticabilità poetica, oltre che
scenica, sottilmente eluso.
Il
teatro contemporaneo è dato
- come qualsiasi altro apparato di
mercato - dal teatro che si scrive, da quello che si propone e da quello
che viene messo in scena. Non tutto il
teatro scritto viene proposto, come non tutto quello proposto arriva poi sulla
scena.
A
scegliere, produrre e
promuovere questa gran massa di novità italiane (l’IDI ne conta più di
trecento ogni anno), si candidano, come sappiamo, i Teatri Stabili (che subito si pentono delle scelte ma non
delle spese faraoniche) e quelli
privati (sempre attenti al richiamo di nomi e ditte secondo la logica del “testimonial” come per
la pubblicità). Tra questi,
oltre questi, ci
sono le cooperative,
le società per artisti, i gruppi spontanei, le nuove associazioni. Di
norma, nonché per statuto,
spetterebbe agli Stabili
reperire le novità, selezionarle e quindi produrle; per consuetudine, toccherebbe poi ai privati promuovere il
pubblico a teatro con proposte facilmente “digeribili” - quanto a testo e
messinscena - e notevolmente “godibili” per
gli interpreti chiamati a
realizzarle. Agli Enti istituzionali che fanno da supporto al teatro
d’autore si riconoscerebbero e di fatto
si riconoscono soltanto
i “buoni uffici”: segnalazioni,
indicazioni, suggerimenti. Sono funzioni minime, come si vede, quasi
assistenziali, virtuali ma, almeno, c’è da rallegrarsi se con le magagne di
Tangentopoli non siano stati scoperti padrini o “clientes” di dubbio favore.
Resterebbe così solo ai gruppi autonomi - che pure, nel frattempo, e con grandi fatiche,
si sono consolidati
- presentare le
vere novità, i nuovi messaggi, le nuove tecniche, desumendole dalle
avanguardie (o quel che di loro resta) e dalle sperimentazioni (di sintesi, di
transcodificazione).
Che
il teatro contemporaneo
sia un bluff -
più o meno deludente, o dolente - lo sostengono, da sempre, i Teatri Stabili (quei pochi che ancora riescono a tenere in
pareggio i bilanci della loro stabilità). Lo sostengono anche,
ma con i
toni dell’invettiva, i
teatri privati che diffidano
pregiudizialmente - quasi fosse
una disgrazia nazionale avere gente che scrive - di tutto ciò che riguarda
storie o racconti, personaggi o situazioni legati alla nostra storia politica e sociale, ai nostri personaggi di rilievo, alle nostre situazioni di costume, di vita, di esistenza. Non lo sostengono,
è chiaro, i gruppi di ricerca (non così folti e agguerriti come dieci o
quindici anni fa) ma, a modo loro, senza
volerlo e dedicando al problema un’attenzione che a molti sembra solo
accademica - di una nuova accademia degli Emarginati - anche questi gruppi
sottoscrivono un inquietante de profundis,
proprio loro che, dalle cantine
di una volta,
stentano sicuramente per
pudore a lasciare il sottosuolo,
ad affacciarsi orgogliosamente sulla realtà, a provare a staccarsi con
puntiglio da un’élite di habitués.
Non
sembra strano, pertanto,
che proprio la
forza per così dire deputata al
rinnovamento mostri poi segni di distacco e di scetticismo, tutta racchiusa,
gelosamente racchiusa, in una nuova
maniera, per messaggi che restano allusivi
e per allusioni
che non vanno
oltre un’etica nobile e altera,
dai tratti puritani. Ma è ancora più strano, per non dire
parossistico, che tutti poi chiedano
lucidità e spessore sempre e solo
al teatro di ricerca, come se a questo tipo di teatro
spettasse, ad libitum,
l’infame destino di
profeti inascoltati, di Cassandre
ridicolizzate, di Prometei
incatenati, di Filotteti feriti e abbandonati.
Quando questa lucidità o questo coraggio
vengono negati agli autori
italiani, vengono parimenti
conferiti agli autori stranieri: si
chiedono consigli e
copioni a Pinter,
a Grotowski, a Brook,
a Wilson. Il
repertorio (italiano, contemporaneo) viene composto e articolato
per somma di affinità sociologiche, di stilemi estetici, di archètipi culturali
da modelli ritenuti
più probanti o più
cospicui. Secondo questa
politica, il teatro italiano contemporaneo è
molto poco italiano
(e questo sarebbe
il difetto più labile e veniale)
ma è anche
molto poco contemporaneo: senza
cedere alla tentazione di
un protezionismo nazionale, bisogna tuttavia far notare come al
travaglio del mondo
attuale siano ammesse,
quando càpita, solo poche
voci “nostrane” e
di solito per
destinazioni di seconda o terza
istanza.
È
molto più rassicurante,
per tutti, rileggere Shakespeare (vero Colosseo senza
porte) o Pirandello
(da poco liberato
dai vincoli del diritto
d’autore) oppure innescare
processi di segmentazione testuale per raggiungere, sulla
stregua di stimolanti ibridismi (quelli che
gli inglesi chiamano puzzling), piattaforme
contestuali dallo spettro più
ampio, capaci di
sostenere le metafore
più intricate, le paraboli più
ardite, gli obiettivi più vicini ai progetti di partenza.
In
questo panorama conflittuale,
e talora inconciliabile, tra teatro
scritto e teatro
rappresentato, o tra testo e
spettacolo, anche la critica svolge un ruolo certamente ingrato ma
spesso apodittico, fuorviante. Posta di fronte a dei fatti compiuti (per es.
uno spettacolo brutto ma costato miliardi),
la critica tende a omologare i contributi più disparati,
passando da una
celebrazione improvvisa e imprevista ad
una stroncatura altrettanto
inspiegabile e inaffidabile.
È pur vero che i meriti della
critica (molto più apprezzabili dei loro metodi) sono poi
direttamente proporzionali alle
fatiche dei talenti
più rigorosi e
più disciplinati ma
chissà perché rigore
e disciplina vengono attestati e
conferiti più ad una missione etica dei teatranti (quelli che si sono fatti da
soli, quelli che hanno penato, ecc. ecc.), che
non ad una temperie
estetica dei loro lavori.
Tutti insorgono e chiedono di
essere sorpresi e
rapiti, illuminati e
rincuorati: o per l’impegno
ideologico o per la
necessità di “scosse” esistenziali.
Ed infatti siamo in tanti, sulla strada di
Damasco, a essere folgorati, a gridare
allo scandalo, alla noia, al lamento,
all’insufficienza dei messaggi proposti. Ma parliamo solo di folgorati,
quasi mai di pentiti.
Nel
vecchio teatro naturalista
si predicava la
contiguità tra teatro e vita,
teatro come specchio della vita: ora che la vita è infinitamente più
complessa delle metafore
che le vengono attribuite e che la realtà è molto
più misteriosa delle situazioni che da essa mimeticamente riproduciamo,
ci sentiamo tutti
privi o privati di qualcosa, tutti delusi,
come il giocatore che
si ritrova fra le
mani solo le carte ma non il
punto.
Si
tratta forse del
“senso tragico”, venuto
inesorabilmente a mancare (nel
teatro, non certo
nella vita)? Del quid
primordiale che, inafferrabile
all’origine, riconvertiamo in una struttura polisemica, in una griglia dalle molteplici
valenze, tale da farci riacquistare consapevolezza, presenza
storica, asciuttezza di
significati? Siamo dunque in un
vicolo cieco? Siamo incerti e indecisi proprio come chi tenta un bluff,
ma pure e sottilmente attratti e compiaciuti della nostra stessa
temerarietà? E, soprattutto,
è un gioco al rialzo o al ribasso? Fingiamo una combinazione superiore
(play) o
cerchiamo di sfruttarne una inferiore (plot)?
Le risposte sono complesse, difficili.
Sicuramente
ci troviamo a un
tavolo da gioco
ma per giocare, con l’artificio
del bluff, su qualcosa che non è né oscuro né medianico:
stiamo giocando a
risparmiare sulla drammaturgia,
a propiziarcela con dei fantasmi, con dei surrogati, come beni di consumo succedanei, surrettizî.
Quella
drammaturgia - che
nessuno va a scoprire
o a sfidare - è definita da
molti, per tornaconto, assente;
da altri viene praticata con intolleranza, con fastidio;
da pochi - i pochi che restano - viene regolarmente inventata
e difesa, portata
con coraggio finanche
a un tavolo da gioco.
Pagani (Salerno), 3 aprile 1993