Che cos’è la drammaturgia? Come si riconosce una
drammaturgia? Comunque la si voglia intendere o definire (ideologia scenica,
struttura polisemica, poetica dell’atto teatrale, etc. etc.), la drammaturgia
(di un autore, principalmente, ma anche quella di un progetto registico) sfugge
a qualsiasi schematizzazione che abbia la presunzione, come tutte le
nomenclature, di essere esaustiva.
La drammaturgia tiene conto e talvolta privilegia la
personale costruzione di atti e dialoghi che un autore conferisce alle sue
opere ma può capitare, anche, che quello stile singolare e riconoscibile venga
sollecitato solo in parte dall’esigenza di strutturare atti e dialoghi.
Non a caso, a un commediografo esordiente gli si chiede se
sappia “scrivere i dialoghi” e tale competenza è da ritenersi coessenziale per
un progetto teatrale degno di questo nome. E tuttavia i dialoghi non bastano,
come non bastano le battute più o meno incisive: quello che serve (e diamo per
scontato che ci sia il talento originario di un autore) è l’idea generale che
un drammaturgo elabora e rielabora, sperimenta e arricchisce intorno ai temi
suoi propri (il suo io ideologico, il suo messaggio) e ai tempi propri del
pubblico (tempi storici ed esistenziali) cui si rivolge.
In questo senso si comprende come la drammaturgia sia
qualcosa in più e qualcosa in meno per il contesto culturale che promuove tra
autore e pubblico: si fa notare per la sua presenza o necessità allorché
sovraccarica delle sue regole, dei suoi modi e delle sue formule espressive
quella che è la fabula,
il fatto da raccontare e da rappresentare (il plot).
Se ne sente invece l’assenza (il play)
quando i fatti vengono rappresentati con linearità cronologica e causativa,
quando i dialoghi arieggiano un “parlato” non metaforico, quando infine lo
scopo dell’intera operazione teatrale è quello di essere più prossimo
all’evasione che al godimento, ad una rilassante partecipazione piuttosto che
ad una fruizione interattiva.
Nell’una e nell’altra fattispecie, la drammaturgia sconta i
suoi vizi originali, i suoi limiti teorici e le sue novità più o meno
trasgressive. Tanti scrivono di teatro, molti fanno teatro, pochi inventano drammaturgie
ma tutti, poi, sanno riconoscere le atmosfere alla Harold Pinter, i dialoghi
alla Ionesco, i tempi lenti e lunghi alla Beckett, le implicazioni ideologiche
di Heiner Müller o di Edward Bond, o quelle esistenziali di David Mamet.
Qual è, allora, il futuro o il destino di una drammaturgia?
Obbedire alle regole di un’epoca culturale o crearne delle nuove seguendo
l’evoluzione della società?
Difficile rispondere oppure è facile: basterebbe ritenere (o
aspettarsi da una drammaturgia) che dialoghi, atmosfere, moduli e quant’altro
un autore inventa (e un regista rielabora, un attore vivifica, uno scenografo
decodifica, un impresario razionalizza) siano modi e formule che la società
seduta in platea inconsapevolmente produce, tacitamente alimenta e
misteriosamente nasconde.
Questo lavoro incessante e spesso ingrato, che gli autori
compiono sulla propria drammaturgia, non contempla di solito un futuro ma solo
un divenire incerto e tuttavia ineludibile, un destino che non si prefigge una
fine.
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