Se il romanzo il grande senno vi intrigherà e vi interesserà sin da questo primo capitolo, scrivetemi per leggere i capitoli successivi.

          

 

 

 

 

     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I

 

            La mattina del 18 novembre il professor Ferri si fece sostituire a scuola, alla seconda  ora in Terza B, e si recò piuttosto furtivamente nell’ufficio di Giorgio Carafa, girandosi più volte dietro di sé, per controllare putacaso qualcuno che avesse intuito, per quel modo di correre a rilento, l’ansia che lo dominava. Nessuno, però, s’era accorto di nulla e nessuno badò alla sua agitazione…

 

 

            E potremmo fermarci tutti qui, all’avvìo, all’esordio, a quell’approccio furbastro che spesso romanzieri alla fine della carriera o affabulatori delle ultime leve sistemano all’inizio di un racconto con l’intento di ammiccare e invogliare la nostra sete, ansia o smania di lettura. Quanti romanzi, soprattutto gialli, cominciano con una cantilena come questa, già tante volte letta e riletta, oppure sentita nelle sale cinematografiche o davanti ai televisori: una cantilena più o meno costruita, riveduta, corretta, rimaneggiata, ma in ogni caso falsa e desolante. C’è quel tanto di realtà spicciola e intrigante, quel senso più o meno documentaristico dell’ambiente e delle azioni che andranno poi a svilupparsi, quel significato aleatorio e astratto che incombe sulla storia e sui personaggi come un’impronta, un sigillo di autenticità che non tarderà a disvelarsi come inadeguato, che non esiterà a conferire profondità e acume ad una serie non richiesta e non soddisfatta di atti e personaggi, fatti e luoghi che non sono né acuti né profondi. E allora cambiamo tono e stile e diciamo le cose come realmente stanno e, innanzi tutto, chi sono.

     Mi chiamo Vittorio Cufari, ho quarantatré anni, sono separato e senza figli e lavoro presso un’agenzia di assicurazioni, fondata da mio padre e, dopo la sua morte, diretta e usurpata da suo fratello, Ernesto Cufari, zio e faccendiere della specie più comune.

     Cosa ci faccio in un’agenzia di assicurazioni è presto detto: ci campo, nel senso che, come càpita sovente ai giovani pieni di idee, non erano propriamente questi i miei ideali,  ma, trovatomi non più giovane senz’arte né parte, allorché quel poco che aveva lasciato mio padre non poteva certo definirsi un’eredità, e dovendo peraltro risolvere il mio destino, accettai l’impiego in agenzia con l’intima convinzione che, prima o poi, palesandosi più fruttuose opportunità, l’avrei cambiato. Sono passati tredici anni - molti dei quali consumati nel miraggio di una laurea mai raggiunta – ma non ho cambiato gran che, sin da quando misi piede alla Futura Assicurazioni, né del mio destino né dei miei propositi. Sono rimasti gli stessi, è vero, ma col tempo hanno perso lo slancio e la fiducia che servono appunto a realizzarli. Li coltivo come si coltivano le piante grasse, che non hanno bisogno di grandi cure e di dedizione, giacché crescono, muoiono e resuscitano da sole.

     Anch’io, a modo mio, sono resuscitato per così dire da un periodo di abbandono e di apatia: ho superato negli anni la morte dei miei genitori, l’inevitabile distacco dagli amici della gioventù, dai colleghi di università e, per ultimo, ho dovuto allontanare, forse rimuovere, comunque oltrepassare la fine del mio matrimonio. Della mia ex-moglie sento parlare di tanto in tanto per le trasmissioni televisive che confeziona e dirige un po’ dovunque, guadagnando soldi e successo con una faciltà e un mestiere che non le ho mai invidiato ma che, è inutile nasconderlo, contribuivano a creare quanto meno una diversità tra il suo sfolgorante talento e la mia, come chiamarla?, provata monotonia. Poco dopo la mia assunzione nell’impresa familiare mia madre ne morì, forse per la gioia di vedere l’unico figlio finalmente occupato in un lavoro intellettuale e dignitoso: per affetto filiale, o per pigrizia, le ho sempre taciuto il pietoso inganno sul decoro e sulla sapienza del mio lavoro. D’altra parte, covando sogni di grandezza, non ritenevo giustificato, e tanto meno conveniente, svelare a lei come a me stesso l’opaca verità.

     Di tutto questo se n’è approfittato – e chi non l’avrebbe fatto? – il buon Ernesto, ricordandomi di volta in volta, quando ho dato segni di insofferenza, che se non era per lui, a quest’ora, sarei stato uno sbandato, un fallito o un depresso. Sarei finito comunque male.

     Che sia o no finito male, o che mi sia realizzato diversamente da quanto m’attendessi, è una circostanza del tutto personale, che riposa e ricade solo sulle mie spalle ma è facile intuire che il peso e l’obbligo della riconoscenza, inveleniti talora dagli inopportuni rimpianti giovanili, opprimono e soffocano più di qualsiasi altro disagio. Si resta, così, placidi e beati, appagati e acquiescenti pur senza volerlo, e si consuma un’esistenza tranquilla e rispettabile, votata alla rinuncia più che alla denuncia, densa di quella sciattezza e di quell’abbandono che rendono una vita passabile e quieta. Tutto il resto, si sa, è letteratura, cinema, finzione.

     Come le quattro righe dell’esordio, per esempio. Ne scrivo tante nei momenti di pausa, alcune le conservo, altre no, come càpita. Anche queste quattro righe del professor Ferri sarebbero finite nel cestino e invece giacciono ancora qui, sulla mia scrivania, tra le mie dita, per una ragione molto semplice: il professor Ferri è una persona in carne e ossa e sta parlando in questo momento nell’ufficio del principale, con Ernesto. Di solito i messaggi, gli spunti o le note che vado scrivendo a casaccio sono il risultato di quelle piccole nevrosi che ci assillano quando per esempio ascoltiamo qualcuno senza parlare, senza intervenire, magari al telefono o pensando ad altro. Oppure riguardano fatti e persone che invento, lì per lì, di sana pianta, tanto per non perdere il contatto con il mio impenetrabile e macchinoso microcosmo. Ma stamattina le cose si sono messe in un modo diverso: ho scribacchiato nomi e nomignoli, date e luoghi falsi e finti e poi, con naturalezza, ho scritto del professor Ferri che il 18 novembre, cioè oggi, si fa sostituire a scuola.

     Devo subito aggiungere che di Ferri e delle sue angustie non so nulla, nulla di interessante, voglio dire, nulla che possa costituire il motivo principale e assoluto delle mie giornate di lavoro. L’ho intravisto appena dieci minuti, in agenzia, quando è venuto a rinnovare la polizza per l’automobile, e non potevo conoscerlo giacché Ernesto mi adibisce alla ricerca esterna dei clienti per cui faccio fatica, dopo i primi contatti personali, a memorizzare e riconoscere a distanza di tempo quel professore, quel medico, quell’ingegnere, quel pezzo grosso e spesso anche quel pezzo di merda. E allora che c’entra Ferri? Già, è vero… Non c’è una risposta valida quando si gira attorno a un significato casuale e fittizio; vi può essere tutt’al più una ragione, altrettanto aleatoria e irreale, che alluderebbe a un piccolo mistero, un segreto o un sotterfugio, ma anche queste eventualità andrebbero poi verificate nei fatti: nei fatti, beninteso, che al momento non presentano alcuna fattualità.

     In altre parole, mi è capitato di ascoltare il dialogo tra Ernesto e Ferri: erano seduti nello studio, su due comode poltrone, davanti a un aperitivo giallastro e si dilungavano oziosamente in battute d’occasione, come succede quando la conversazione ufficiale è stata ultimata e restano da spendere due-tre minuti di convenevoli, prima del commiato.

     Ero entrato nello studio per controllare una pratica sulle assicurazioni marittime e già m’immaginavo, fantasticando, le vacanze da fare la prossima estate – quelle, per intenderci, che non si fanno mai – quando captai un silenzio più prolungato, una pausa premeditata, con la quale Ferri prendeva il tempo giusto aspettando che io uscissi dallo studio. Non certo per ripicca, ma per un puntiglio dovuto alla giornata umida e sciroccosa, diedi a intendere che non sarei uscito dalla stanza né in quel momento, né quando a lui fosse piaciuto. Ferri considerò brevemente quello che era il mio atteggiamento di puerile improntitudine e opinò che non dovesse essere poi tanto sconveniente parlare anche in mia presenza. Moderando il tono della voce, aiutandosi con le mani, che roteavano in volute aeree concentriche ma che si sgonfiavano subito, confidò a Ernesto che in quei giorni era preoccupato per…     

     Tutta quella manfrina per niente! Non mi fu possibile capire per cosa, di preciso, fosse preoccupato: Ferri s’era fatto scuro in volto, lasciava le parole incompiute, seminandole nell’aria, fino a perderle del tutto, come maglie di una catena che si sgrana, come per nascondere e soffocare l’angoscia molesta che quelle parole ridestavano. Compresi che si trattava della moglie, ma arguii, giudicando di sottecchi il tremulo monologo del professore, che il problema posto dalla moglie non era quello di una salute minacciata da un male senza rimedio, senza rimedio sembrava la condizione attuale della moglie: era scomparsa.

     Restai stupito: non già perché la moglie di Ferri fosse scomparsa, quanto perché il rapporto tra Ernesto e il professore non era poi così intimo e familiare da consentire uno sfogo, o una confessione, tanto personale. E difatti Ernesto, com’è solito agire in casi del genere, quando si tratta di scendere nei gangli di una questione emotiva o esistenziale, si tenne discretamente al di fuori di qualsiasi approfondimento, rispettando con un compunto silenzio il racconto del professore e reputando, anzi, che qualcosa non dovesse andare per il verso giusto nella mente del suo prolisso cliente.

     A dire il vero, anch’io avevo pensato che l’agitazione di Ferri nascondesse un’ansia più antica, morbosa e insana, solo accidentalmente provocata dalla scomparsa della moglie, ma ne dedussi che chiunque, al suo posto, avrebbe suscitato una simile valutazione.

     Quando Ferri andò via, Ernesto girò l’indice a mulinello accanto alla tempia, come a stabilire ineluttabilmente che, con la testa, il professore proprio non ci stava. Non feci nessun commento, mi limitai a guardare dalla finestra il professore, giù per via Marina, mentre aspettava il tram, confuso.

     “Scomparsa, come?”, mi chiesi per tutto il pomeriggio, con un’ossessiva e penetrante monotonia che mi ha fatto ricordare di quando, da ragazzo, mi ponevo la stessa domanda, leggendo per esempio sui giornali che una personalità, venuta meno all’affetto dei suoi cari e alla stima del mondo, fosse ‘scomparsa’ più che morta. Per me, in quegli anni, “scomparso” non era né tragico né irrimediabile. Speravo sempre che le persone “scomparse” potessero poi essere ritrovate, restituite non dico alla vita, ma almeno alla normalità, quasi che, scomparendo, avessero voluto, quelle persone, allontanarsi o semplicemente nascondersi. E attendevo, scorrendo i giornali, che venisse stampata nelle settimane successive la notizia tanto auspicata: che, per esempio, il Grand’Ufficiale Tal Dei Tali, prematuramente scomparso il quindici maggio a Posillipo, fosse stato pacificamente ritrovato il quindici giugno a Capri, a godersi il sole e le donne.

     Forse è per questa predisposizione di quegli anni che non ho creduto alla storia della moglie di Ferri scomparsa. O meglio: ci ho creduto con la convinzione di ritrovarla, come se la sua scomparsa fosse, né più né meno, che una singolare e innocente stravaganza.Quando sono tornato a casa, ieri sera, avrei voluto parlarne con Federico, l’altro mio zio, quello buono per così dire, il fratello di mia madre, ma Federico è un uomo di poche parole, di poca salute, di grande fumo. È con lui che vivo e col suo cane Caucciù nella casa che mia madre mi lasciò a patto che mi prendessi cura dell’abulico e sfortunato zio Federico che, peraltro, non ha mai chiesto di essere accudito o curato: vari postumi di interventi chirurgici all’intestino e alla prostata lo hanno spoetizzato e illanguidito, per cui passa il suo tempo a preparare i pasti, a fumare, guardare la tivvù o portare il cane a via Caracciolo e starsene lì per delle ore, su una panchina, a contemplare distrattamente il mare.

     Ho provato ad accennargli qualcosa ma non appena ha sentito che si trattava di Ernesto, si è portato l’indice al naso per bloccare i miei sfoghi e i miei racconti. Caucciù, un vecchio mastino nero alla fine degli anni, mi ha fissato con gli occhi rossi e cadenti e la bava pendula, come per dirmi di non insistere e di andarmene a dormire. E difatti quando mi sono addormentato, ho pensato che la moglie del professor Ferri poteva costituire degnamente il banco di prova delle mie aspirazioni non ancora compiute: che, cioè, ritrovandola, avrei reperito anche quello slancio e quella fiducia per realizzare decorosamente il mio destino. Come? Semplice: dimettendomi dall’agenzia Futura di Ernesto!

     Ma questo era un pensiero bislacco, velleitario, infantile e lo abbandonai rapidamente. In fondo, i proponimenti della sera servono soltanto a farti dormire, cullandoti fiabescamente intorno a un’idea che non sta né in cielo né in terra, ma che ti affascina per quella vacuità tanto insondabile quanto incantevole. Stamattina, quando mi sono svegliato e ho guardato il disordine che regna ormai intoccabile nella mia stanza, non ho pensato a Ferri o alla moglie: ho disfatto il letto, ho aperto la finestra, ho sbatacchiato le lenzuola, le ho riversate sul davanzale perché prendessero aria, ho raccolto la biancheria da lavare e sono andato in cucina, seguendo i fumi e l’aroma del caffè che zio Federico prepara impeccabilmente sempre alla stessa ora.

     Ci siamo appena salutati mentre lui versava il caffè nella mia tazza e abbiamo atteso che Caucciù, con un rantolo sordo, ci augurasse a suo modo la buona giornata. In realtà, è come se vivessi da solo: la presenza di Federico, reale e continua ma pure discreta e astratta, mi lascia sempre un po’ interdetto, come se non in una casa vivessimo ma in un ambiente provvisorio e rabberciato che solo per abitudine ci fa anche da residenza, da tetto, da riparo. Potrei contare le parole che ci scambiamo  nell’arco di una giornata: non arriviamo a cento: “Come va?”, “Stamattina è scirocco”, “Oggi mangeremo pesce”, “Non dimenticare di pagare le bollette” e via di questo passo. È come se vivessi in una pensione o fossi uno studente fuori-sede: come se ognuno di noi avesse già detto tutto di sé e non si aspetta né rivelazioni né conforto. Quando fui lasciato da mia moglie e gli chiesi se potevo stare con lui, la sua risposta lapidaria non ammetteva repliche: “Io ho bisogno di quiete”, riuscii solo ad annuire come chi entra in un convento e sa di doversi votare a fastidiose privazioni.

     E tuttavia stamattina abbiamo conversato, ci siamo lasciati andare. A dir la verità, mi ero preparato la considerazione che mi è servita da rompighiaccio ma Federico non si è trincerato, come al solito, dietro i suoi silenzi riflessivi e scostanti: ha partecipato quasi con interesse e mi ha sorpreso e forse anche incoraggiato. Ho esordito dicendo che oggi è il mio giorno libero, è giovedì. Lui ha confermato scuotendo lentamente la testa e mi ha offerto una delle sue sigarette – lunghe, sottili, bianche – come per chiedermi: “E poi?”. Ho acceso la sigaretta, ho creato una nuvola di fumo densa e calda, ho guardato oltre la finestra della cucina al cielo azzurrino e terso e ho continuato con queste parole: “L’uomo che vive da solo ha questo vantaggio rispetto a chi vive in seno a una famiglia: può stabilire che una giornata sia o no entusiasmante semplicemente volendolo, o credendoci, anche perché, se pure dovesse sbagliare, non avrebbe nessuno cui darne conto”. Ho atteso la risposta, sapevo che sarebbe venuta, ma so per esperienza che non bisogna invocarla e, difatti, dopo un po’, Federico ha sentenziato quasi con una smorfia di dolore, massaggiandosi il fianco sinistro: “È una consolazione”. Ho insistito: “E non sono forse le consolazioni deliberatamente insincere il pane quotidiano di chi vive da solo?”.

                 - Tu non vivi da solo, tu vivi qui con me.

                 - Sì, ma dovrei vivere con mia moglie.

                 - Se ti ha lasciato…

                 - Comunque con una donna.

                 - Tròvatela.

                 - Se me la trovo, dove la porto?

                 - Dove te le sei sempre portate, in camera tua.

                 - Sì, ma…

                 - Vittorio, ma perché ti svegli così complicato? Chi te la dà tanta forza inutile?

                 - D’accordo, vado a lavarmi. Che prepari per oggi?

                 - Non lo so, devo ancora pensarci.

     Non era il caso di continuare, avevamo detto più di quanto dovevamo e la mattinata ormai chiedeva altre azioni, altri proponimenti: l’avevo scosso, sì, ma anche un po’ stancato e quando Federico si stanca è meglio lasciarlo solo, perfino Caucciù si ritira nell’ingresso a dormicchiare, a non essergli di peso.

     Quando mi metto in macchina, so già quel che farò: andrò a trovare il professor Carlo Ferri nella scuola dove insegna, dalle parti di Corso Malta, e comincerò a vederci più chiaro nella storia della moglie scomparsa. Dimenticavo: ho esordito dicendo che Carlo Ferri, lasciata la scuola, raggiungeva segretamente l’ufficio di Giorgio Carafa: bene, Giorgio Carafa non esiste, è un’altra delle mie invenzioni occasionali. Non sapendo come iniziare questa storia, mi sono rifatto ad uno schema convenzionale, forse anche banale, ma che al momento mi è sembrato verosimile e quindi non artificioso. Perché abbia inventato questo “Giorgio Carafa” non saprei proprio dire: forse perché mi piace il nome oppure l’avrò sentito da qualche parte, o forse si è presentato da solo alla mia fantasia in una bizzarra credibilità. E nello stesso senso non saprei spiegare perché mai Carlo Ferri avrebbe dovuto recarsi da Giorgio Carafa “segretamente”: segretamente a chi o da chi? Ancora una precisazione: ho detto che l’invenzione di Giorgio Carafa risponde ad uno schema convenzionale: credo di essere andato oltre le parole: non c’è nessuno schema, né convenzionale né originale, al quale intenda riferirmi per costruire questa storia: ogni cosa è imprecisa e fortuita perché, con tutta franchezza, non devo cominciare “una storia”: devo soltanto iniziare questa giornata.

     Eccomi a Corso Malta, nel mercatino generale che si organizza a scadenza fissa sotto i piloni della tangenziale. Ci sono bancarelle per ogni tipo di merce, dai tessuti alla ferramenta, dalle scarpe ai cd-rom contraffatti o ricopiati, e ci sono, di conseguenza, vari tipi di compratori: impiegati che cercano globi di vetro opaco per illuminare l’ingresso delle loro case rinnovate, pensionati che acquistano pile e mollette per i panni, professori che rovistano tra libri antichi, aggeggi inutili e souvenir di pessimo gusto.

     Quando arrivo al cancello della scuola e chiedo del professor Ferri, il bidello mi risponde con un’altra domanda, se per caso non sia anch’io un professore, quello nuovo di meccanica che aspettavano per stamattina. Alla mia esitazione, il bidello mi soppesa e mi declassa di importanza: “Ho capito, siete un rappresentante di libri”, quando gli dico che sono il perito dell’assicurazione, si forma sul suo volto una smorfia di piacere e di curiosità. Mi conduce nella sala dei professori e mi invita ad attendere pochi minuti, giusto il tempo di andare a chiamare il professore. Il vocìo dei ragazzi, nei corridoi, si fa assordante: molti si fermano a sbirciare, oltre la porta, per arguire se sono o no il nuovo professore di meccanica e mi giudicano, come fanno gli studenti, dall’aspetto, dall’atteggiamento, per carpire sin dal primo approccio la benevolenza dell’insegnante così detto moderno oppure riceverne, con sofferenza, un’impressione odiosa di severità come si conviene ad un docente pignolo e inflessibile.

     La voce del bidello introduce la figura di Ferri, spaesato e interdetto quando, scrutandomi a fatica, non riesce a riconoscermi e, soprattutto, a intendere cosa ci faccia qui, nella sua scuola, un perito dell’assicurazione. Mi saluta con un breve cenno della testa, lasciando fluttuante e inevasa la stretta di mano che avevo sollecitamente preparato. Mi indica una sedia, continuando a fissarmi con un sospetto indignato, domandandosi probabilmente perché mai l’abbia importunato a scuola se, come lui teme, c’è da correggere qualche dettaglio nel rinnovo della polizza.

                 -  Non si preoccupi, professore, niente di grave, se è questo quello che pensa.

                 -  Io non sto pensando proprio niente, caro…

                 -  Cùfari, Vittorio  Cùfari. Sono della “Futura Assicurazioni”.

                 -  Sì, mi ricordo, ma cosa vuole?

     Il tono è tra l’apprensivo e l’irritato: è rimasto in piedi Carlo Ferri, come a ricordarmi che ha fretta e che devo sbrigarmi, solo che io non ho voglia di sbrigarmi.

                 -  Ho controllato la sua pratica, professore, e mi sono accorto che c’è un  errore.

                 -  Quale?

                 -  La pratica è intestata a Lidia Martucci…

                 -  Sì, mia moglie. E con questo?

                 -  La macchina di sua moglie è…

     - Senta, non mi faccia perdere tempo, ho la classe che mi aspetta. Ho rinnovato l’assicurazione per l’automobile di mia moglie, una Punto usata di color bianco. Adesso mi dica cosa vuole e cosa le serve!

     - Gliel’ho detto, niente di grave: lei non mi aveva indicato… - e qui devo inventare - …il numero di telaio dell’automobile.

                 -  Ah sì, può darsi, nella fretta…

     E stavolta si rinfranca, si siede, si passa una mano tra i capelli, si toglie gli occhiali, se li deterge col fazzoletto e mi guarda rincuorato, a tal punto che mi direbbe, se glielo chiedessi, che fine ha fatto Lidia Martucci. Da parte mia, superato quel momento di disagio, affondo il colpo, trascurando, come aveva fatto con la mia mano tesa, la sua improvvisa disponibilità. Qualcuno viene a chiamarlo ma Ferri fa un segno d’intesa, come per lasciar correre, e tira fuori dalla tasca un mucchio di foglietti, cercandovi quello sul quale ha trascritto il numero di telaio dell’automobile. Io, intanto, passo all’azione, allo svolgimento del proposito che mi ero prefisso: saperne un po’ di più.

     -  Come sta la signora? Bene?

                 -  Sì, grazie. Perché me lo chiede?

     Ma la parola si è divisa, distinta, spezzata tra l’impulso della risposta e il riserbo della reticenza, lasciando così spazio all’attesa di una minaccia, non ancora perpetrata ma sentita già pronta e presente. Mi guarda di sbieco, Ferri, cercando di scovare nel mio atteggiamento, come hanno tentato poco fa gli studenti, quell’inganno palese, quel punto d’intesa che lo rassicurerebbe sulle mie reali intenzioni, ma non lo trova, anche perché per puro puntiglio glielo nascondo abilmente.

                 - Per buona educazione.

     Mi consegna un foglietto, senza parlare, e poi si alza: frattanto mi accorgo che sul foglietto è segnato un numero di sette cifre, come quello di un telefono, ma non batto ciglio, ripiego il foglio, mi alzo, lo saluto fingendomi stupito della sua mano tesa abbandonata nell’aria mentre i suoi occhi spenti e delusi mi accompagnano fino alla porta.

     Quando esco dalla scuola, mi sento osservato, guardo alla finestra del primo piano ma non è il professore a spiarmi: è un ragazzo bruno, dai capelli ricci, che mastica stancamente la sua gomma americana, ruminandola come un bue che abbia trovato uno sterile pascolo.