“A cagione de’ tumultuosi disordini
consumati nelle ultime settimane sulle piazze e nei quartieri della città si fa
solerte affidamento ai Signori Uffiziali
di Polizia Giudiziaria di volere
e dare per inteso di trasferire in
seconda istanza avvenimenti delittuosi che pure avessero a notarsi”… Dal
“Monitore” al monito, dalla franchezza ossessiva alla sottigliezza infìda! In
fondo, che poteva mai suggerire il barone Acton, capo della polizia del Re, se
non di lasciar perdere assassìni e ladri per consentire a chi di dovere la
restaurazione del sovrano?
I
tumultuosi disordini si stanno
tuttora consumando a Porta Sant’Eligio e a ridosso dei fondaci ma avvenimenti
meno éclatants, come avrebbe detto
Championnet fino a sei mesi fa, si susseguono nell’indifferenza generale un po’
dovunque e i morti che vengono giustiziati sulle forche sono soltanto più
famosi o politicamente necessari, secondo i casi, di quelli che vengono trovati
abbandonati nei cantoni del porto o nei decumani della Vicaria. Un “uffiziale”
di polizia, solerte e giusto, come vuole il barone Acton, non va a impegolarsi
in indagini fumose e indesiderate ma Gaetano Gnarro non ha nulla da perdere, né
dal barone né dal re, né dal passato regime né da quello che verrà. Quando
l’hanno chiamato, alle due di notte di ieri, 18 agosto, era già successo tutto
a Largo Ecce Homo: un carretto della frutta era rovesciato sul selciato, la
porta di un basso era stata trovata spalancata e scassinata, una macchia di
sangue grande come un pastrano indicava ovviamente il punto nel quale era stato
commesso l’assassinio, ma dell’assassino non c’erano tracce e, soprattutto,
mancava quel corpo che, ferito a morte, aveva procurato dissanguandosi quella
pozzanghera nerastra.
Non
è facile, di questi tempi, assicurare alla giustizia lazzaroni e farabutti – “Colpa della politica”, come sostiene
Ceriello, caporale della sezione – ma diventa addirittura impossibile – e la
politica non c’entra – scoprire gli autori di un crimine quando manca il corpo
del reato. “Per me hanno ammazzato un
cane o un porco, forse più un porco” ma Gnarro non considera le sortite
dispersive di Ceriello: non sa da dove cominciare, è vero, ma sa, ha capito, si
illude di poter trovare quel corpo di donna prima o poi. Già, è convinto che si
tratti del corpo di una donna, giovane per giunta, e le convinzioni hanno
spesso una sola virtù: quella di essere insostenibili quanto accattivanti.
Per
suffragare le sue tesi indimostrabili con qualche riscontro di sostanza, ma
anche per distaccarsi dal clima che si respira in città da stamattina – si
parla di un’esecuzione eccezionale a Piazza Mercato – Gnarro ha interrogato i
bottegai e le serve di Largo Ecce Homo e ne ha ottenuto indicazioni vaghe e
contraddittorie. Sembra che un tipaccio, un certo Ruggiero Rallo, che lavora
occasionalmente ai Banchi Nuovi come facchino, abbia la fama di uomo violento
con le donne che si porta in quel basso ma, confermato da tutti, quel basso non
è di nessuno, nel senso che ognuno lo occupa per il tempo che crede e per farci
ciò che più gli è comodo. Oltre tutto, Ruggiero Rallo è stato trovato a letto,
a casa della madre, in un supportico ai Vergini, con una spalla perforata dal
gancio di un argano, che gli era caduto addosso mentre lavorava allo
spostamento di una statua nella chiesa del Gesù.
A
giudicare dalla macchia di sangue, la donna morta non solo è scomparsa, ma
sembra addirittura svanita. Gnarro, infatti, non ha trovato tracce di
trascinamento, gocciolii che portassero a qualche direzione, pietre imbrattate
di sangue che di solito lasciano intendere di un movimento più che di un altro,
oppure di una pausa o di una fretta improvvisa e imprevista che abbia
modificato un percorso, un’intenzione, una via di fuga. Niente, c’è solo quella
macchia di sangue che ormai si è rassodato e scurito come una fetta di fegato e
alla luce del sole, mentre si fa mezzogiorno, quella pozzanghera sembra un fosso
nel selciato, un pozzo, una botola aperta sul nero.
“Tu che hai sentito l’altra notte?”
chiede Gnarro a una servetta di vico Donnalbina ma la ragazza – che rincasava a
quell’ora per una commissione dei suoi padroni – non gli fornisce risposte
illuminanti, era troppo occupata a tenere ben lontano da sé il pacco di carta
oleata che gli aveva confezionato il salassatore, per cui il timore di poter
essere attaccata dalle sanguisughe non le aveva fatto sentire nulla, tranne… “Che cosa?” e la ragazza dice di aver
udito, o che le è sembrato di udire, il rantolo di una donna anziana, come la
sua padrona per esempio, quando viene presa dall’asma e bisogna ricorrere al
salasso. Il particolare della donna anziana fa propendere Ceriello per la pista
buona e per screditare così la pomposa
intuizione di Gnarro sulla donna di giovane età, ma Gnarro non si lascia
convincere, si sbottona il colletto della camicia e minaccia la ragazza di
portarla in galera se non dice tutta la verità. La ragazza non ha bisogno di
essere minacciata, non ha nessuna verità da dire e inveisce contro l’ufficiale
di polizia con la volgarità che di solito si meritano gli sbirri da sei mesi a
questa parte.
Dai
venditori di frutta e verdura non ricava nulla di interessante: il carretto
rovesciato “è di uno”, così dicono,
di uno qualsiasi, quindi non appartiene a nessuno: viene di volta in volta
preso, usato e lasciato davanti a quel basso che, come si è visto, appartiene
un po’ a tutti. Si capisce, a questo punto, che Gnarro deve avere un’idea ben
precisa in testa: non si corre dietro a un delitto senza assassino, senza scopo
e senza vittima, solo per formalità. Gnarro deve sapere molto di più di quanto
dà a intendere, soprattutto a se stesso e non si tratta solo di mestiere o
abitudine; deve trattarsi di qualcosa di più importante, di diverso rispetto
all’abitudine e al mestiere. Sarà il cambiamento politico? Quest’ondata di
esecuzioni che sta travolgendo e dissanguando la città? Questo caldo di agosto
così stranamente pacato e primaverile? Che cosa illumina e conforta il fiuto,
la pazienza e la tenacia di un ufficiale di polizia come Gaetano Gnarro che non
ha molto da chiedere ai suoi cinquantasette anni?
Le
informazioni raccolte, anche se frammentarie e talora discordanti, inducono a
considerare il delitto di Ecce Homo come uno dei tanti episodi di malavita
corrente. Ammesso che a morire sia stata una donna e che quel tale Ruggiero
Rallo si sia conficcato da solo l’uncino nella spalla, resta da chiarire perché
sia stata montata questa farsa, da parte di Rallo, e, soprattutto, dove sia
stato occultato o gettato il cadavere della giovane vittima, sempre che sia
stata giovane e di sesso femminile… Tocca andare a casa di questo Ruggiero, ai
Vergini, tuffarsi nei profumi che i tigli di quel quartiere emanano e
assaporare l’incedere della sera con i suoi colori tenui e, come per incanto,
saperne di più, di tutta questa storia.
Lo
accoglie sulla porta la madre di Ruggiero e gli dice che il figlio sta di là,
sul balcone, a prendere un po’ di fresco. Gnarro s’aspettava la solita
lamentazione di una madre – che il figlio è innocente, che è stato rovinato
dagli amici – e invece questa vecchia donna dai capelli ben ordinati in una
crocchia bianca non batte ciglio, non indulge, non supplica; si pulisce le mani
con uno strofinaccio, apre la porta della stanza e se ne torna dov’era, a
sbucciare melanzane, allineandole sul tavolo come pani da infornare.
Ruggiero
sta seduto al balcone e guarda la folla dei Vergini che si accalca intorno a
una carrozza che porta alla forca giacobini e sovversivi dell’ordine reale.
Gnarro si avvicina al davanzale, osserva il clamore della piazza, poi si siede
accanto a Ruggiero e gli chiede seraficamente dove ha nascosto il cadavere.
Ruggiero è degno figlio di quella donna: non prende tempo a rispondere, non
ammicca, non divaga, offre a Gnarro acqua e anice e dice che dalle parti di
Ecce Homo non ci porta una donna da almeno sei mesi, da quando i giacobini
stanno al posto del re.
“E chi ti ha detto che si tratta di una
donna?”
“L’avete detto voi.”
“No, io ho parlato di un morto.”
“Maschio o femmina, se è morto, sempre morto
resta.”
Come
tutti gli uomini che svolgono lavori pesanti, anche Ruggiero Rallo è una specie
di armadio: alto, muscoloso, ben piantato sulle gambe, con le spalle larghe e…
e guarite, sì, non ha segni di ferite o di bende. “E la spalla non ti fa più male?”
ma la domanda di Gnarro non sorprende Ruggiero; dice che non gli ha
fatto mai male, che quell’argano l’aveva colpito solo di striscio e che
qualcuno aveva ingigantito la cosa per tirarci un po’ di soldi dai preti del
Gesù.
“E chi ti ha consigliato di fingere?”
“Queste cose le fanno bene le femmine.”
“Quella che hai ammazzato?!”
“Io non sono uno che va uccidendo la gente.”
“Tu sei uno che la gente la fa scomparire.”
“E dove?” e si guarda intorno, indicando
la stanza, lo squarcio della saletta e il profilo della madre che conserva in
un cesto le bucce delle melanzane per cavarne, come si usa, un’essenza
profumata.
Già,
l’avrebbe uccisa a Ecce Homo per portarla poi a casa della madre, ai Vergini, e
nasconderla da qualche parte, senza essere visto, notato, tradito… Gnarro
osserva la stanza, il balcone, il soffitto, come alla ricerca di un passaggio,
di un doppio fondo ma non trova niente che possa far pensare a un nascondiglio.
Si guardano senza parlarsi e senza aspettarsi né rivelazioni né accuse, come se
sapessero entrambi di essere reciprocamente debitori di niente. Ma una
differenza c’è: se Ruggiero può tranquillamente aspettare le mosse dello
sbirro, la pazienza di Gnarro è invece scoperta, finalizzata a un risultato che
al momento l’ufficiale superiore ha solo intuito, o per meglio dire ha solo accarezzato,
ma che risulta in ogni caso o troppo grande o troppo complesso per l’indagine
in corso. D’altra parte, convinto com’è che si tratti di una donna e che sia
Ruggiero l’assassino più probabile, Gnarro deve fare i conti con quello che gli
presenta la realtà: il corpo della donna non c’è e l’assassino non si dimostra
né turbato né confuso. E allora?
“Io ti metto una guardia giù al palazzo”
“Ma le guardie non vi servono per la
rivoluzione?!”
“Queste sono le mie guardie.”
Le
sue guardie… è una frase buttata lì, si capisce, per sorprendere, per
spaventare, ma un fondo di verità c’è, come sempre accade quando ci si lascia
andare a un impulso. Gaetano Gnarro è un ‘servitore di due padroni’ per dirla
con Goldoni: è stato ufficiale superiore con i Borboni e con la Repubblica e
non ha sofferto, come altri sbirri, quarantene o destituzione, forse perché è
stato sempre equo e discreto, il che farebbe pensare tanto ad una qualità che
ad una deficienza, ad un calcolo o una deprecabile mediocrità. Non c’è molto da
fare qui da Ruggiero: il facchino sembra protetto dalla reticenza di altri più
che dalla sua doppiezza, tanto vale lasciargli credere di essere sottoposto ad
una vigilanza particolare e personale e di sentirsi più o meno in trappola.
Quando Gnarro se ne va le melanzane della madre di Ruggiero si sono un po’
annerite.
Ed
eccolo per Via Foria ansimare in salita: a cosa sta pensando, Gaetano Gnarro?
Riuscirà davvero a incolpare Ruggiero Rallo della morte di quella giovane
donna? Riuscirà, in qualche modo, a dimostrare che la sua convinzione, il suo
intuito, o semplicemente la sua idea fissa avevano un capo e una coda, un
inizio e una fine? Probabilmente non se le pone neppure, queste domande; ci
gira intorno, è chiaro, ma per pudore non se le dice, non le pronuncia, le lascia
appese tra le sensazioni che sta vivendo dall’inizio di giugno, da quando
l’esercito del cardinale Ruffo ha, per così dire, “arruffato” di nuovo la
città. Se ne va solitario nel caldo serale che si stempera un poco e non ha
altre mete se non Largo Ecce Homo, quella pozzanghera di sangue, il segno
inattingibile di un delitto. Poi, giunto nei pressi dello Spirito Santo,
sballottato da gruppi variopinti di sanfedisti alla ricerca di giacobini
traditori, si ferma a considerare la successione di quello che avrebbe dovuto
essere l’omicidio della giovane donna.
Il
resoconto è lucido e ordinato, contrariamente a quanto accade intorno, con i
lazzari che issano sui pennoni teste di cartapesta con il cappello frigio. Ruggiero Rallo porta in quel
basso la sua amante, richiude la porta dall’interno e prepara un giaciglio sul
carretto della frutta: si spoglia, sta per spogliare anche la donna ma ne
ottiene un rifiuto. Probabilmente la donna ha chiesto questo incontro per
chiarire il loro rapporto, forse per troncarlo. Ruggiero, però, non ha
intenzione di parlare, se stanno lì non è per discutere e quindi non l’ascolta;
la stende sul carretto, la tiene ferma con una mano alla gola e con l’altra
instrada il suo… Il resoconto si ferma all’improvviso, si fa opaco, si blocca.
Gnarro si asciuga il sudore che gli cola dalla fronte e deve respirare a pieni
polmoni, anche il battito del cuore dev’essere aiutato a vibrare con
naturalezza e lo sguardo cerca, come disorientato, un’immagine, un volto, un
simbolo che non siano quelli di scalmanati sanguinari, di facce urlanti, di
uomini e donne che inneggiano ambiguamente alla Virtù e all’Onore.
Quando
arriva sul luogo del delitto è sera inoltrata e una brezza leggera gli ha
restituito un po’ di sollievo: il resoconto è ancora fermo alla scena
dell’accoppiamento ma è un po’ più docile la sensazione di disgusto che l’aveva
di fatto interrotto. È davvero strano che un uomo come Gnarro, abituato alle
crudeltà più atroci, abbia questo rispetto così decoroso per un assassinio come
questo, uguale a tanti altri, a tutti gli altri. Forse ha trovato le
indicazioni giuste per accusare Ruggiero o forse quel rispetto e quel decoro,
improvvisi e imprevedibili, sono l’esito di un sentimento che di solito stenta
a ricrearsi negli uomini cinici o delusi: la pietà, la compassione.
Gnarro
trova tutto come l’aveva lasciato: costeggia la macchia di sangue, passa di
lato accanto al carretto e spalanca la porta del basso lentamente come aprendo
la tela di un sipario. Osserva con attenzione le cose che solo in quel momento
sembrano saltargli agli occhi con il loro giusto peso, nel loro senso
intrinseco. Trova una ciocca di capelli di donna, di un rosso rame; trova un
brandello di stoffa, sicuramente del corpetto che indossava la giovane donna;
trova l’anello di ottone di un fodero per pugnale e trova infine il pugnale
usato per uccidere Agnese Micca…
“Chi va là?! Fatti riconoscere! Chi sei? Che
ci fai qua?”
“Sono un ufficiale della Guardia.”
“Ah, della Guardia. E quale Guardia? Quella del Re
o sei un…”
“Sono un ufficiale superiore. Sono Gaetano
Gnarro.”
“E se invece
sei un giacobino?!”
A
cacciarlo fuori dai guai interviene provvidenzialmente Ceriello che non si
lascia irritare dal sanfedista ottuso: gli spiega con modi falsi e cerimoniosi
che quel “poverocristo” è davvero un ufficiale superiore e che si trova in quel
basso perché comandato dal barone Acton in persona a svolgere attività di
repressione patriottica. Il sanfedista si sente lusingato dal racconto
puntiglioso di Ceriello, ma soprattutto dal fatto che quell’uomo di mezza età,
dal portamento cadente, dal volto flaccido e dai capelli radi non era altro che
un poverocristo e, come tale, inoffensivo e patetico. Il ragazzo chiama a
raccolta la soldataglia che lo accompagnava e si allontana sprezzante e
tronfio.
“Abbiamo trovato una donna ammazzata,
accoltellata…”
“Dove?”
“Vicino al Chiostro di Santa Chiara.”
“Aveva i capelli rossi e non portava il corpetto.”
“Sì, era quasi nuda, una bella femmina, giovane…”
“Molto giovane. Forse per questo è morta.”
“Voi l’avevate capito dal primo momento.”
“Si chiamava Agnese Micca…”
“Sapevate anche questo?!”
“Tu, il nome di tua moglie, te lo scordi?”
“Mia mo… Volete dire che quella donna era vostra…”
“Ti ho trovato pure l’arma dell’assassino.”
“Mamma del Carmine…”
“È un pugnale di valore, ci sono due lettere
incise.”
“Una doppia Gi…”
“Lo tenevo a casa,al sicuro.”
Lo
stupore e la sorpresa di Ceriello lo fanno somigliare a quella statuina del
presepe che viene chiamata “il pastore della meraviglia”: con gli occhi
smarriti nel vuoto, le mani e le braccia aperte come per contenere lo sbigottimento,
la bocca spalancata per rendere comprensibile la muta ammirazione di un
prodigio.
“Devo andare a Piazza Mercato. C’è
un’esecuzione, domani.”
“Ma allora… chi è stato?”
Già,
spetta all’ufficiale superiore sciogliere l’intrigo, dipanare la matassa, come
si dice. Che cosa può arguire il povero Ceriello, uno dei tanti caporali che
vengono comandati per i lavori più odiosi e più umilianti, anche se necessari?
Che cosa ne tirerebbe fuori un caporale che di solito raccoglie le confidenze
di ladruncoli o prostitute, che sollecita con qualche soldo le vendette di
guappi decaduti o decadenti? Direbbe che sono cose che capitano, argomenterebbe
sulla mutevolezza e varietà dell’animo umano, insomma non ne verrebbe a capo, o
non vorrebbe tirarne una conclusione unica e definitiva. E Gnarro, invece? Come
spiegherà lo svolgimento e i risultati dell’indagine? Quali verifiche presenterà
per giustificare la successione dei fatti sui quali depone e attestarne
pertanto la veridicità? Ma, innanzi tutto, a chi dovrebbe presentare questo
rendiconto? A quale autorità? A quelle che sono giustiziate sulle piazze, nei
cortili, davanti ai conventi oppure a quelle che si dànno da fare per imbandire
le piazze, approntare i cortili e schiudere i conventi? Ci sarebbe un’altra
autorità, ovviamente: quella morale, quella personale o culturale, che è di
sicuro la più affidabile di questi tempi, ma sarà sul serio contattata,
interrogata e richiamata ad agire, a giudicare, eventualmente a punire?
Gnarro
non va a Piazza Mercato, ritorna su ai Vergini, sotto il balcone di Ruggiero
Rallo, come se dovesse cantargli una serenata. Ruggiero è ancora lì, seduto a
fissare la calma momentanea di questa notte nel buio che ammanta il quartiere e
che è rotto solo dai deboli fanali del supportico. Ruggiero non può vedere
Gnarro ma sa che è lì, sa che si dovranno affrontare prima o poi, che dovranno
dirsi certe cose apertamente, senza
sotterfugi come hanno fatto finora, anche se, dopo la morte di Agnese Micca,
c’è davvero ben poco da aggiungere.
Un’ombra
si muove sullo sfondo e viene avanti rischiarandosi nel buio, aiutandosi con la
fiammella tremula di un lumino: è la madre di Ruggiero che cerca a tentoni
l’ospite incerto e furtivo.
“Ruggiero mi ha detto di chiedervi se volete
salire.”
“No, non voglio salire.”
“È preoccupato, l’ho capito subito. È per il fatto
della chiesa?”
“No, è un altro fatto.”
“Ma dovete portarlo da qualche parte?”
“È lui che mi ha portato da un’altra parte.”
“Non vi capisco.”
“Non tocca a voi capire.”
“Davvero non volete salire? C’è ancora acqua e
anice…”
“Non è il momento.”
“Allora vi saluto, ma… posso stare tranquilla per
Ruggiero?”
Gnarro
non risponde e fa intendere che non risponderà; la donna dalla crocchia bianca
annuisce come chi si illude di aver capito, torna sui suoi passi e scompare nel
buio. Sul balcone l’ombra di Ruggiero si staglia immobile eppure vivida, come
una statua di legno, una presenza innocua ma inquietante.
“Sapevo che eravate qua.”
“Sei bravo, Ceriello. Diventerai sergente, te lo
meriti.”
“Il vostro posto non è questo, voi siete un
ufficiale superiore.”
E
come ufficiale superiore Gaetano Gnarro deve dar conto innanzi tutto a se
stesso delle sue azioni e dei suoi metodi ma a quest’ora di notte, mentre si
preparano i festeggiamenti di domani a Piazza Mercato per l’esecuzione capitale
del Principe di Cassano e di Eleonora Pimentel, a quest’ora di notte, di questa
notte, Gnarro ha bisogno di qualcuno che lo ascolti, che riesca a dividere e a
interpretare l’aspetto personale, di vita comune, da quello pubblico, per non dire
giudiziario. Ceriello ha presagito che quella è una confessione ma non si sente
né risollevato né appagato: non se l’aspettava ma vorrebbe tanto risparmiarsi
il seguito, quelle conclusioni ovvie e purtroppo ineluttabili che ogni delitto
prepara e rivela.
“L’ho seguita quando è uscita di casa, fino
a quel basso…” Comincia così il
resoconto di Gnarro, il racconto stavolta autentico e integro della morte di
sua moglie. Il tono è fermo, la parlata è piana, l’emozione è contenuta: non ci
sono giustificazioni o moventi nella sua confessione, c’è piuttosto un’analisi
spietata di se stesso, del tipo di vita che ha svolto, della notevole
differenza di età che li divideva e che, in fondo, un tradimento se lo
aspettava ma si riteneva fortunato o immune perché, dice, “le ho sempre voluto molto bene”. Ma il bene non è bastato, né a
lei che cercava un altro tipo d’uomo, né a lui che non ha avuto pietà.
“E l’avete uccisa così?” chiede Ceriello
frenando a stento una sensazione di disagio e di malessere. Sì, l’ha uccisa
così: quando la vide distesa sul carretto, con le gambe aperte, pronta a
ricevere il suo amante: “ho spinto lui da
un lato, l’ho fatto cadere, poi mi sono girato verso di lei che mi guardava
spaventata ma non si immaginava quello che mi passava per la testa, ho tirato
fuori il pugnale e ho colpito, non so quante volte ho colpito, ma era già senza
vita”. Ceriello non osa chiedere altro ma spetta a Gnarro concludere il
racconto: “Quello che è successo dopo non
lo so, so che me ne sono andato, che lui mi chiedeva cosa fare, che non si
poteva lasciare Agnese così.”
“Allora è stato lui, Ruggiero, a portarsela via?”
“Questo lo devi appurare tu.”
“Ma perché l’ha lasciata in mezzo alla strada?!”
“E io dove l’avevo lasciata?”
“Forse non ce la faceva a trasportarla,
oppure l’hanno scoperto, l’avranno scambiato per qualcuno del cardinale, in
ogni caso è stata una carogna…”
“Certo,
come no!” sta pensando Gaetano Gnarro: è stato davvero una carogna Ruggiero
Rallo a non trovare una decorosa sepoltura alla donna che amava, l’ha
abbandonata sulla strada tra le immondizie, i topi, i sanfedisti che saccheggiano
e uccidono. Che coraggio, che cuore! Che uomo è uno che si comporta così?
“Vostra moglie, ora, starà al camposanto,
nella fossa comune.”
“Lo so.”
“E lui, Ruggiero, che dice?”
“Ruggiero se la ricorda e non dice niente.”
“Ma voi che cosa mi consigliate? Che
provvedimenti devo prendere con questo facchino?”
“Non è con lui che devi fare il tuo dovere, non è
con lui.”
“E adesso dove andate?”
E
stavolta Ceriello non ottiene risposte: Gnarro si allontana di qualche passo,
poi si ferma, si lascia cadere sui gradini di un portone, incrocia le mani in
grembo, guarda davanti a sé il nulla e attende che il suo caporale adempia fino
in fondo al suo dovere.
cliccate qui
Pangrafìa DRAMMATURGO © di
Antonio Scavone, 1999
Con i tempi che
corrono…
[frammento sul tempo]
Le sensazioni
sono state molteplici (di sorpresa, di sconcerto) ma sono state tutte
cortesemente rimosse o semplicemente accantonate, forse per non alimentare
ulteriormente quella fisiologica inclinazione allo sgomento e all’ansia che
l’attesa di un evento memorabile solitamente solleva. Molti, qui a Boston, al
Convegno dell’American Geophisical Union, non hanno
fornito risposte esaurienti sulle conseguenze fisiche e climatiche che dovremo
affrontare nei prossimi anni, o addirittura nei prossimi mesi, per le
modificazioni geofisiche perpetrate, per così dire, dalla perturbazione chiamata
EI Niño.
Lo stesso John
Gipson della NASA, che denunciò per primo la diminuzione della velocità di
rotazione del pianeta nell’ordine di 800 microsecondi, si è limitato ad esporre
piuttosto gelidamente quelle che sono le condizioni oggettive sullo stato di
salute della Terra, rinunciando con spartano distacco a qualsiasi indicazione o
allarme di breve periodo. Ma al convegno bostoniano non erano presenti solo
fisici e matematici; attenti e, come al solito, discreti hanno preso parte alle
sessione dei lavori filosofi ed epistemologi prevalentemente di scuola europea
(allievi di Baudrillard, Liotard), impegnati negli stages interdisciplinari
che le università del New England organizzano alla fine della primavera.
Professori ordinari di “Logica delle associazioni” come
George McHew e Bradford Stone sono intervenuti con un’accurata relazione sugli
esiti cognitivi e morali che un evento del genere potrebbe scatenare nelle
coscienze di uomini e donne alla fine del secondo millennio. Le loro
dichiarazioni hanno raggelato l’uditorio quando hanno indicato nel rallentamento
della velocità di rotazione del pianeta una corrispondente flessione - se non
un decadimento inesorabile - della “sostanza” tragica di quello che è il
pensare attuale. La flessione della “sostanza” tragica del pensiero si sarebbe
concretizzata grossomodo, secondo i filosofi americani, a partire dalle “guerre
perdute o fittizie” che gli Stati Uniti hanno combattuto o imbastito per
saggiare la loro leadership mondiale e smaltire quel surplus di
armamenti e tecnologie che non rendono più in termini di immagine o prodotto
interno lordo.
È sembrato strano, ai più, questo bizzarro collegamento tra
politica, finanza e filosofia, ma i due pensatori hanno tranquillamente
spiegato che la “sostanza” tragica in flessione si è manifestata, nella storia
delle società sapienziarie, poche altre volte e, tutte le volte, senza
speranza: nelle guerre medievali per le investiture, all’epoca della
Controriforma e per i genocidi degli ultimi cento anni. Caduti o sviliti i
privilegi ermeneutici assegnati nel secolo scorso alle speculazioni metafisiche,
la “sostanza” tragica in flessione non ha fatto altro che rallentare sempre di
più la sua energia entropica fino a sfaldarsi, a distaccarsi dalla realtà che
pure le si contrapponeva propositivamente. McHew e Stone hanno teorizzato un
allontanamento irreversibile tanto dalla realtà effettuale quanto dal pensiero
stesso come se l’attività cognitiva e speculativa dell’individuo non stessero
facendo altro che separarsi e annullarsi, cedendo il posto e quindi il senso di
una rigenerazione alla contemplazione estatica dell’evento, di qualsiasi evento. C’è chi ha ravvisato nella relazione dei filosofi
americani una fin troppo chiara allusione agli eventi politici in Europa e in
Asia: i test nucleari di India e Pakistan e l’integrazione monetaria del vecchio continente vengono giudicati come indici evidenti e
sicuramente preoccupanti di uno sviluppo bloccato e di un progresso superstite.
Come a dire che il tragico, tanto nell’asse terrestre quanto nel pensiero
umano, è stato annullato da una forza inerte di dissoluzione.