Racconti

Nessuna possibilità d'amore

egli si convince sempre più dell’inutilità di ogni vanagloria, così come, forse, del suo stesso eterno dolore...

 



A distanza di anni, Andrea provava ancora fastidio nel ricordare quel periodo trascorso dallo zio, a Catania…Era iscritto al primo anno della facoltà di Giurisprudenza – corso di studi che aveva scelto senza passione, seguendo la tendenza dominante tra i suoi compagni di scuola ed assecondando l’ambizione materna -, e lo zio lo ospitava nei tre giorni settimanali di frequenza. Già allora Piero e gli altri suoi cugini lavoravano col padre. Il fatto di essere diventato adulto e di frequentare una facoltà universitaria, non avevano aiutato Andrea a salire nella scala della considerazione. dello zio
- Non sei buono neanche come compagno di briscola…- gli diceva tra il serio ed il faceto. A parte la poesia, che era storia vecchia, gli studi in giurisprudenza del nipote non lo convincevano affatto. Per lo zio Andrea non aveva la stoffa dell’avvocato e perdeva solo tempo, sperperando i “danari” di sua madre. I cugini lo canzonavano benevolmente e facevano valere nei suoi confronti la loro superiore esperienza di vita. Mostrando ad Andrea i loro portafogli rigonfi di bigliettoni, vantavano l’indipendenza conquistata col prezzo di un lavoro faticoso, che li portava in giro lungo l’Italia per dieci mesi all’anno.
Non era, però, solo il lavoro a creare un abisso tra Andrea e i suoi cugini. In particolar modo suo cugino Piero, il bello di casa, lo sfotteva di continuo per il fatto che, a diciannove anni, era ancora una verginella, un pivellino con alle spalle una lunga serie d’amori platonici, complicati e nessuna storia vera di sesso. Lui, al contrario, viaggiando il padre, perfettamente a proprio agio in quella vita disordinata ed esagerata di commesso viaggiatore, aveva modo di far conoscenza con parecchie ragazze lungo tutto lo stivale e di portarsi a letto “qualche bella fichetta…”.Non era facile insomma per Andrea convivere con tutti quegli “uomini d’affari”.
La casa era una vecchia abitazione nobiliare nel centro storico catanese, dai soffitti alti, decorati con stucchi dorati, ed una teoria di stanze immense, fredde. In verità delle grandi stufe in ghisa cercavano di riscaldare i locali, ma riuscivano solo ad avvelenare l’aria con l’odore dolciastro e nauseante del gas. L’affitto costava una fortuna allo zio; ma, come avrebbe raccontato dopo la sua morte Piero, egli l’aveva voluta perché gli ricordava l’antica casa in cui aveva vissuto col padre i suoi primi anni di ragazzo. Tuttavia a quella casa mancava una famiglia, anzi il senso stesso della famiglia. Concepita come abitazione familiare nell’ottocento, dopo aver mantenuto il suo originario, rispettabile status per buona parte del novecento, durante la recente permanenza dello zio aveva acquisito la filosofia e l’avventurosa condizione della foresteria… Alcune stanze erano state destinate dallo zio al deposito delle pellicce ed al ricevimento dei clienti; mentre l’antico salone delle feste, affacciato su un vicolo cieco – e per tal motivo perennemente illuminato dalla luce artificiale di lampade sparse - ,con le sue fughe ininterrotte di quadri d’autore e di antiche armi lungo le immense pareti di stoffa grigio azzurra, era diventato il suo studio. Lo studio era un luogo sacro e riservato dove, tra il caldo e sobrio ciliegio della scrivania circonfusa di luce, depositaria d’una collezione di pipe e di tabacchi, e l’odorosa pelle del piccolo salotto in chiaroscuro al di là dell’arco, nella gradevole eccitazione del whisky, del fumo si concludevano gli affari. Sopra la scrivania un chiodino al centro della parete infilzava inutilmente il muro. Lo zio Fofò aveva, all’inizio della sua permanenza, appeso lì il ritratto di suo padre Nenè. Da quella notte di fine anno, però, in cui ubriaco per poco non aveva bucato vetro e foto con un proiettile della sua pistola, aveva riposto per sempre il ritratto sotto la sua preziosa biancheria d’occasione.
La zona privata della casa sembrava risentire maggiormente della precarietà di vita dei suoi abitanti. Uno sgradevole misto di frittura, tabacco e vino, infatti, era vanamente arginato da un’artificiale fragranza di boschi; e, nell’ultima camera in fondo al lunghissimo corridoio, il grande letto sfatto dello zio, nel perenne ronzio d’un televisore, sembrava celebrare la morte di ogni possibilità d’amare.
Una bellissima eritrea, scampata alla guerra nel suo paese, cercava quotidianamente di pulire e riordinare quella grande casa, ma senza successo. L’unica cosa che le riusciva bene, e per la qualcosa veniva lautamente ricompensata con danari e pellicce, era l’andare a letto con il padrone di casa.
La casa, durante i ritorni di Fofò dai suoi viaggi d’affari, si trasformava in caldo luogo d’accoglienza per ospiti che parevano selezionati per il fatto di aver abbracciato l’identico stile di vita dello zio. Provvisori, diversi ad ogni stagione, frammenti di puzzle familiari difficili da ricomporre, erano uomini e donne, le cui avventurose vite, come racchiuse in un fumetto, sembravano materializzarsi e dissolversi nello spazio di qualche mese al tavolo di pocker del venerdì o nell’alcova di Fofò, perennemente illuminata da ceri profumati. Andrea si sentiva un pesce fuor d’acqua in quell’ambiente. Cercava così di condurre una vita separata indipendente; e quando rientrava a tarda sera, da un cinema o da casa d’amici, si rifugiava subito nella sua camera. In quelle occasioni aveva appena il tempo di sbirciare, oltre la porta socchiusa dello studio, ed osservare la tensione dei giocatori evaporare in fumo nel cerchio di luce gialla, che il lungo braccio metallico di una lampada proiettava sul quel piccolo mondo di finzioni; appena il tempo di notare gli ospiti sconosciuti moltiplicarsi nella fuga di specchi dorati lungo la sala delle prove.
In verità esistevano anche dei personaggi fissi alla corte di Fofò Buriani: il finanziere che ogni natale si faceva regalare una pelliccia per la moglie; il commercialista che toglieva dagli impicci lo zio dietro corresponsione di lauti compensi; due o tre titolari di negozi di pellicceria; un’astrologa, che gli faceva le carte ogni settimana, e persino, almeno così si diceva, uno della “Famiglia”.Tutti costoro partecipavano, nel periodo natalizio, ad una grande abbuffata con ostriche e fiumi di champagne. Erano gli stessi che, dopo il fallimento, gli avrebbero voltato le spalle .
Paradossalmente il giorno più brutto trascorso in quella casa da Andrea, in quel suo primo anno d’Università, ebbe un inizio felice. Il quotidiano locale aveva, infatti, pubblicato nella pagina culturale una benevola recensione su una sua raccolta di poesie e brevi racconti. Egli, qualche anno dopo, col senno del poi, avrebbe riconosciuto quanto quella sua gioia fosse esagerata ed avesse qualcosa di puerile. Quel libro gli era stato, infatti, finanziato interamente da sua madre e l’editore - se così poteva chiamarsi - non era certo Mondadori. Quella mattina dunque, orgoglioso, col giornale in mano, Andrea fece il suo ingresso nello studio dello zio pregustando già la sua rivincita, il suo piccolo trionfo su quei meschini materialisti. Non trascorsero pochi minuti, però, che il mondo gli crollò addosso. Uscì alla fine da quello studio mortificato, con dentro un doloroso senso d’umiliazione, di solitudine. Leggendo quell’articolo che tesseva le sue lodi, infatti, lo zio e Piero si erano guardati sorridendo. Era il sorriso di chi guarda le cose con disincanto, con malizia. Lo zio alla fine, con un altro sorrisetto ironico e cattivo, aveva congedato Andrea dicendo: “ Se ci vuoi lasciare, per favore, abbiamo importanti affari da discutere…”.
Era giugno. L’anno accademico si chiudeva, ed Andrea doveva affrontare i primi esami di diritto romano e di diritto privato. Fu l’ultimo giorno che avrebbe trascorso a casa dello zio. Per molto tempo, infatti, non sarebbe più ritornato nel luogo della sua mortificazione.
Adesso che Fofò e Piero non ci sono più; che la casa stessa casa non esiste più, quando ad Andrea capita di passare da quei luoghi, guardando il supermarket che sorge al posto della vecchia palazzina, egli si convince sempre più dell’inutilità di ogni vanagloria, così come, forse, del suo stesso eterno dolore...
 

                                                                      

                                                                                                                Alberto Guarneri Cirami


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Giorno 29/12/2006
ore 18:30 presso i locali del Circolo G.Verga di Vizzini si terrà la prentazione del libro di racconti "Storie di piccoli Dei" di Alberto Guarneri Cirami, a cura del Dott. Santo Lentini.
Seguirà un adattamento teatrale del libro a cura di Giuseppe Ielo.
La compagnia di Francesco presenta : "Storie di piccoli Dei" , con Alberto Chirico e Marilena Trovato, regia di Giuseppe Ielo.
Musiche originali Gregorio e Francesco Vacirca.
Organizzazione e multimedia Gianfranco Gandolfo.

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Giorno 24 febbraio 2007
presso la biblioteca comunale ex EDUCANDATO SAN LUIGI di CALTAGIRONE. sarà presentato il libro di Alberto Guarneri Cirami "Storie di piccoli Dei" con l'intervento del Sindaco prof. Francesco Pignataro e dello scrittore prof. Domenico Seminerio. Seguirà uno spettacolo teatrale presentato dalla compagnia DI FRANCESCO, con Giuseppe Ielo, Alberto Chirico, Marilena Trovato.
 
 


  Locandina presentazione del libro a Vizzini