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CORTE DI CASSAZIONE Cass. civile, sez. Unite, 01-07-1994, n. 6225. Contratti bancari. Cassette di sicurezza e limitazione della responsabilitā.

Pres. Fanelli O - Rel. Sgroi R - P.M. Di Renzo M (Conf) - Mauro c. Banca del Fucino

Contratti bancari - Servizio bancario delle cassette di sicurezza - Obblighi e responsabilitā della banca - Clausola concernente la custodia di cose di valore non eccedente un determinato ammontare - Patto limitativo non dell'oggetto del contratto ma del debito risarcitorio - Configurabilitā - Disciplina ex art. 1229, primo comma, cod. civ. - Applicabilitā.

Con riguardo al contratto bancario inerente al servizio delle cassette di sicurezza, la clausola, che contempli la concessione dell'uso della cassetta per la custodia di cose di valore non eccedente un determinato ammontare, facendo carico al cliente di non inserirvi beni di valore complessivamente superiore, e che, correlativamente, neghi oltre detto ammontare la responsabilitā della banca per la perdita dei beni medesimi, lasciando sul cliente gli effetti pregiudizievoli ulteriori, integra un patto limitativo non dell'oggetto del contratto, ma del debito risarcitorio della banca, in quanto, a fronte dell'inadempimento di essa all'obbligo di tutelare il contenuto della cassetta (obbligo svincolato da quel valore, alla stregua della segretezza delle operazioni dell'utente), fissa n massimale all'entitā del danno dovuto in dipendenza dell'inadempimento stesso. Tale clausola, pertanto, č soggetta alle disposizioni dell'art. 1229 primo comma cod. civ., in tema di nullitā dell'esclusione o delimitazione convenzionale della responsabilitā del debitore per i casi di dolo o colpa grave.

MOTIVI DELLA DECISIONE

a) Col primo motivo la Mauro denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1325, 1342, 1343, 1344, 1229, 1228, 1839, 1362, 1366, 1370, 1175 e 1375 c.c., in relazione all'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., deducendo, in primo luogo, che la Corte d'Appello ha omesso - sul piano dell'asserita limitazione della responsabilita' contrattuale - di applicare il contratto ed interpretarlo secondo le regole di legge, tenuto conto di quanto dispone l'art. 1342 c.c.; infatti, pur considerando che con clausola aggiunta del 1978 il valore dei beni era stato aumentato da Lire 1.000.000 e Lire 26.000.000, ha omesso di rilevare che in quell'occasione non venne ripetuta e sottoscritta nel modulo formato dalla Banca la limitazione di cui al contratto originario, ne', tanto meno, il divieto di inserire nella cassetta beni di valore superiore a quello che veniva concordato ex novo; ne' sussisteva in tale modifica contrattuale un richiamo espresso, univoco ed automatico alle condizioni del contratto originario.

b) In secondo luogo, la Mauro premette che - a seguito della sentenza della C.S. che avevano dichiarato ed accertato la nullita' delle clausole contrattuali che recepivano l'art. 16 delle precedenti "Norme bancarie uniformi" - l'A.B.I. aveva modificato il formulario, sostituendo all'art. 16 un art. 2, in cui venne inserito il divieto per l'utente di immettere nella cassetta beni per valori superiori a Lire 1.000.000, confermandosi che tale valore costituiva l'oggetto del contratto ed aggiungendosi, nell'art. 3, che a tale limite di valore veniva limitata la responsabilita' della banca; ma si e' trattato di una forma diversa di elusione della norma sostanziale che vieta la limitazione di responsabilita', perche' solo nel caso di una concreta differenziazione delle prestazioni della Banca a favore del cliente potrebbe ritenersi la legittimita' della suddetta clausola, che concreta un'elusione fraudolenta della norma imperativa, posto che la Banca assume pur sempre l'obbligazione di custodire la cassetta e tende a limitare l'importo del danno risarcibile, pur in caso di dolo o colpa grave.

Inoltre, secondo la ricorrente, vengono violati i principi della correttezza e della buona fede nell'esecuzione del contratti; nel caso in esame era stato dimostrato che la Banca, in luogo di adeguare la propria organizzazione, la natura e l'ubicazione degli impianti all'osservanza ed al progredire della tecnica - il che le avrebbe consentito di rendere intangibili i locali dove erano custodite le cassette - aveva lasciato in opera il vecchio impianto, trascurando ogni intervento ed inoltre aveva lasciato che la materiale disponibilita' dei locali stessi fosse accessibile a chiunque, tanto che il furto si svolse nella massima tranquillita', con manifestazione di tale colpa grave, da parte dei funzionari e dipendenti, da apparire una possibile manifestazione di dolo. La Corte ha ritenuto irrilevante ogni fatto successivo al contratto, mentre il sinallagma contrattuale deve mantenersi in un rapporto di equilibrio, nell'ambito dell'osservanza del principio della correttezza, di modo che l'obbligo del custode (dei locali) venga in concreto esercitato; ogni emissione che si immetta negativamente nell'equilibrio contrattuale, costituisce un'inadempimento che determina l'obbligo di risarcire il danno, senza limitazione d'importo. Oltre a vigilare sull'efficienza degli impianti di allarme, e sulla manutenzione degli elementi presenti fin dall'inizio, la Banca doveva adeguare l'impianto alle tecniche che ne permettessero la sicurezza. La Banca - nonostante gli aumenti del canone, non aveva sopportato alcun costo organizzativo, fidando sul diritto derivante dalla formulazione contrattuale di essere esente da ogni responsabilita'.

c) In terzo luogo, la Corte d'Appello ha ritenuto che l'aver violato il limite di valore abbia comportato la violazione di un obbligo contrattuale e che, essendo la Mauro inadempiente ad un'obbligazione, non potesse denunciare l'inadempimento della Banca; ma si tratta di due obbligazioni diverse che non sono correlate o collegabili l'una all'altra, in quanto l'inadempimento della Mauro non e' stata la causa giustificatrice di un inadempimento della Banca nell'omettere qualsiasi attivita' nella custodia dei locali. La circostanza che, indipendentemente dall'uso della cassetta, questa sia stata forzata, e' dipesa dall'inosservanza di un altro e diverso obbligo della Banca, e cioe' quello di custodire i locali; obbligo da cui non era esonerata, in rapporto al valore dei beni contenuti nelle cassette.

La Corte romana ha collegato il divieto contrattuale alle conseguenze che sul piano contrattuale erano state stabilite; conseguenze stabilite dall'art. 3 del contratto, dove si precisa che nell'ipotesi di risarcimento la Banca e' tenuta a rispondere solo nei limiti del danno comprovato, con riferimento al limite generale dell'art. 2. Appare quindi evidente, secondo la ricorrente, che non e' l'art. 2 che col suo divieto determina la limitazione del risarcimento, perche' non e' l'inadempimento a questo divieto che esoneri la Banca dell'adempimento, se non nei limiti della colpa lieve, nella custodia dei locali dove sono contenute le cassette, ma l'art. 3 che limita il risarcimento in rapporto al valore massimo dei beni che potevano essere inseriti nella cassetta. Se cosi' e' - conclude la ricorrente - non si puo' dubitare che in esso, in forma allusiva ed elusiva, e' stata introdotta una limitazione di responsabilita', che e' nulla per quanto dispongono gli artt. 1229 e 1839 c.c.. Di conseguenza, il contratto non e' stato interpretato in tutta la sua portata, ed e' stato violato il principio che impone di interpretare in contratto nel suo complesso, una clausola in rapporto alle altre, e le clausole gravose e limitatrici in danno e e non in favore del loro autore. Il motivo e', per quanto di ragione, fondato.

Invero, le deduzioni sub a) sono inammissibili, perche' tendono all'interpretazione del contratto intercorso fra le parti in un senso diverso da quello ritenuto dal giudice del merito, senza la deduzione di un effettivo vizio di motivazione e riferendosi a norme che non appaiono violate.

La tesi secondo cui la clausola aggiunta nel 1978, in ordine all'aumento del valore dei beni, non importa richiamo delle clausole del contratto originario inerenti al divieto di inserire nella cassetta beni di valore superiore, non e' stata accolta dalla Corte d'Appello, perche' essa ha ritenuto, con motivazione concisa, ma sufficiente, che quella clausola comportasse una semplice "modifica" del contratto originario che non era necessario pertanto richiamare espressamente in tutte le sue clausole, che rimanevano ferme: tale motivazione e' contenuta a pag. 10 (dove si dice che il contratto "di locazione" in esame contiene la clausola contestata con riferimento ad un valore di Lire 1.000.000) ed a pag. 12, dove la Corte ha affermato che la misura del valore dei beni che la Mauro avrebbe potuto immettere nella cassetta a lei locata e' stata aumentata a Lire 25.000.000 stipulando la Banca l'apposito contratto assicurativo prodotta dal 14.6.1978".

Vi e', in tale motivazione, l'asserzione che l'aumento si riferiva allo stesso contratto "di locazione" gia' precedentemente stipulato dalla Mauro, di cui veniva aumentato il corrispettivo dovuto, ai sensi della previsione contenuta nel contratto originario (vedi pag. 10: "con la possibilita' di immettere beni di valore superiore con corrispondente aumento del canone o contratto aggiuntivo di assicurazione"); motivazione sufficiente, perche' il collegamento fra il contratto originario ed il patto aggiunto e' dato dalla segnalata possibilita' (gia' prevista originariamente) dell'aumento del valore, secondo le gia' pattuite modalita'.

Quanto alla violazione di legge, e' evidente che non viola - ma osserva - l'art. 1362 il giudice del merito che, in presenza di piu' scritture successive inerenti al medesimo rapporto, le esamini congiuntamente (v. Cass. n. 154 del 1981; n. 3529 del 1982), affermando che la modifica di una clausola comporta la conferma di tutte le altre non incompatibili.

Ed e' evidente che non e' incompatibile la clausola sull'aumento di valore con quella che limita allo stesso valore la responsabilita' della Banca, perche' questa ultima limitazione ha il medesimo significato, qualunque sia il valore di riferimento. La norma dell'art. 1342, invocata dalla ricorrente, si puo' applicare solo in caso di incompatibilita' fra la clausola aggiunta e quella a stampa, cioe' quando la prima e la seconda sono insuscettibili di applicazione contemporanea (Cass. n. 6760 del 1981); il che - per quanto si e' detto - non si verifica affatto nella specie, potendo la clausola aggiunta sul valore aumentato applicarsi congiuntamente a quelle a stampa preesistenti.

Anche una parte delle deduzioni sub c) e' irrilevante: con esse, infatti, si tende ad affermare che la Banca, nonostante quella clausola, non era esonerata dal dovere di custodire i locali (dovere che era stato violato in modo grossolano) e di predisporre la sicurezza secondo sistemi piu' aggiornati, rispetto a quelli in essere all'epoca di conclusione del primo contratto (mentre la Banca si era contentata di quelli piu' antiquati, non curando l'efficienza neppure di essi). Ma tale affermazione non ha altro scopo che quello di far ritenere la responsabilita' della Banca per l'evento (furto) di cui si discute, gia' affermata dal giudice del merito, senza alcuna impugnazione da parte della Banca (che pure e' stata condannata, in via generica, a pagar le somme indicate in dispositivo, nei limiti contrattuali). Il problema, ancora aperto, e' soltanto quello dei limiti dell'entita' della somma di risarcire, e su di esso non influisce la ragione del risarcimento, e cioe' l'inadempimento della Banca, se non sotto un profilo che (a sua volta) influisce sul valore tramite l'apprezzamento dell'elemento soggettivo dell'inadempimento (dolo o colpa grave) ai sensi dell'art. 1229 primo comma c.c.. Infatti, la clausola di cui si discute non riguardava l'elemento soggettivo della limitazione di responsabilita', ma l'elemento oggettivo (il danno) e questo limite (salva la dichiarazione di nullita' della predetta clausola) era del tutto indipendente dall'affermazione della responsabilita' della Banca, per le ragione elencate sub b) nel motivo: anche affermando - come doveroso - la sussistenza di quegli obblighi e di quelle violazioni (e cioe' affermando che l'inadempimento della Banca non era giustificato dalla violazione da parte della Mauro del divieto di introdurre in cassetta valori superiori a Lire 25 milioni) tuttavia il limite della risarcibilita' sarebbe ugualmente valso, in forza della clausola che faceva restare a suo carico il furto di beni per un valore superiore a Lire 25.000.000 (sentenza, pagg. 12, ultimo capoverso).

Solo togliendo efficacia (per nullita' parziale) alla clausola, tale statuizione puo' essere modificata, per cui l'unica censura avente rilievo e' l'ultima, che fa riferimento all'art. 1229, mentre quelle inerenti agli obblighi della Banca sono irrilevanti, ai fini del decidere, perche' l'affermazione della colpa grave della Banca (a cui tende in sostanza il complesso delle deduzioni sub c) e' gia' contenuta in sentenza a pag. 9, dove si afferma la violazione dell'obbligo di custodia in rapporto alla condotta ("violazione dell'obbligo contrattuale della mancata adozione di adeguate misure di sicurezza dirette a scongiurare il pericolo della sottrazione dei beni custoditi da parte dei terzi"). Anche se non esiste una espressa definizione di "gravita'" di tale colpa, tuttavia essa e' implicita nella discussione che, da pagg. 10 in poi, la Corte di Roma ha fatto circa la nullita' o meno della clausola "in caso di dolo o colpa grave". Poiche', nella prima parte, la sentenza ha escluso il dolo, ai fini della responsabilita' extracontrattuale (vedi infra), e' evidente che tutta la discussione partiva dall'affermazione di una colpa grave (perche' altrimenti sarebbe stata del tutto inutile, se la colpa fosse stata qualificata "non grave"). E poiche' non vi e' ricorso incidentale della Banca, questo punto dell'affermazione della colpa grave e' passato in giudicato, per cui - si ripete - le censure sub c) sono in parte prive di interesse. b) Fondata, invece, appaiono le censure sub b) e le residue sub c).

Il dibattito sulla responsabilita' della Banca per il servizio delle cassette di sicurezza trae origine dall'art. 16 delle precedenti norme bancarie uniformi, che disponeva che il valore massimo del contenuto della cassetta era fissato convenzionalmente - a tutti gli effetti - in una somma predeterminata in ciascun contratto. La Corte Suprema, con sentenza n. 1129 del 29 marzo 1976, qualifico' la clausola come limitativa della responsabilita', con le conseguenze di cui all'art. 1229 c.c..

Tale sentenza (com'e' ampiamente noto), mentre non e' piu' contestata (ne' seriamente contestabile) per quanto attiene alla parte positiva, ha avuto delle implicazioni problematiche, per quanto attiene alla parte negativa, perche' ha mostrato di ritenere, invece, valida una clausola (in quanto determinava dell'oggetto del contratto) che prevedesse un obbligo specifico a carico del cliente di non immettere nella cassetta valori superiori a quello indicato. Invero, a seguito di tale sentenza, l'A.B.I. predispose le clausole che sembravano da essa "suggerite" (sono le clausole di cui si discute in questa causa) le quali, pero', non si sottraggono alle medesime considerazioni che possono farsi in ordine a quell'osservazione contenuta nella sentenza del 1976 (v. anche Cass. n. 4604 del 1989).

Il problema e' stato esattamente impostato anche dalla sentenza impugnata (che pur giunge a risultati che non possono condividersi) ed e' quello della distinzione di una clausola limitativa dell'oggetto del contratto da una limitativa della responsabilita'. Nel primo caso, si ha la mancanza ab origine di obbligazione di una delle parti, a causa dell'estraneita' di determinate prestazioni rispetto al contenuto del contratto, per cui (non potendo sussistere inadempimento di un'obbligazione mai assunta) si avrebbe una mancanza originaria di responsabilita'. Nel secondo caso si verifica un contrasto fra un'astratta ipotesi di responsabilita' ricollegabile ad un'obbligazione contrattuale e le limitazioni previste da una clausola che limita gli effetti di un adempimento imputabile (art. 1229 c.c.) nel particolare senso che limita il risarcimento dovuto a seguito dell'inadempimento, fissando un ammontare massimo dal danno risarcibile.

Occorre quindi verificare la compatibilita' con le prestazioni dovute dalle parti e con la funzione perseguita dal contratto. Dall'art. 1839 c.c. risulta che la Banca assume tre obbligazioni essenziali: 1) quella di concedere in uso al cliente locali idonei all'espletamento del servizio; 2) quella di custodire i locali; 3) quella di tutela dell'integrita' della cassetta. La finalita' del contratto e' duplice: quella di protezione e quella di segretezza (quest'ultima esige che i beni custoditi siano ignoti alla Banca).

Le suddette obbligazioni devono essere adempiute con il metro della diligenza di cui all'art. 1176 comma 2^ c.c.. Invero, se si adottasse il criterio del primo comma, la Banca potrebbe andare esente da responsabilita' semplicemente dimostrando di avere adottato per la custodia dei propri valori; invece, l'art. 1839, pone soltanto il caso fortuito come limite della responsabilita', per cui deve valere il criterio della diligenza dell'accordo banchiere.

La prestazione di quest'ultimo non ha per oggetto il contenuto della cassetta, bensi' la predisposizione e la custodia dei locali, nonche' la tutela dell'integrita' della cassetta. Conseguentemente (in coerenza colla differenza del contratto in esame da quello di deposito) la Banca non risponde direttamente del contenuto della cassetta, ne' assume un'obbligazione di restituzione delle cose in essa riposte. Le sue prestazioni consistono in un facere con riguardo ai locali ed alla cassetta; facere da svolgere con la professionalita' del buon banchiere e cioe' col massimo grado di diligenza, sia nella predisposizione dei locali che nella loro custodia.

La clausola in esame non incide sulla misura di tale diligenza, perche' non prevede ne' una differenziazione di locali, ne' una diversita' di modalita' custodia o di caratteristiche di sicurezza dei locali e/o delle cassette. Questo profilo (gia' posto in luce da Cass. n. 5421/92 e n. 5617/92) e', peraltro, insufficiente a risolvere il problema nel senso della nullita' della clausola ex art. 1229 c.c., perche' si e' gia' visto che tale norma ha due diversi raggi d'azione: a) clausole che limitano in vario modo (a parte il caso dell'esclusione, ipotesi quest'ultima manifestamente estranea alla specie, in cui non si discute di un'esclusione, ma di una "limitazione") il grado della colpa, nel senso cioe' che il debitore sia tenuto ad una diligenza minore di quella normale, stabilita dalla legge. La norma "salva" dalla nullita' l'ipotesi di colpa lieve. Ma tutta questa problematica e' estranea alla causa in esame, perche' la sentenza impugnata ha affermato la responsabilita' della Banca per colpa grave, senza escludere tale responsabilita' per effetto della clausola in questione, la quale non attiene al grado della diligenza dovuta.

b) L'altro aspetto regolato dall'art. 1229 c.c. e' quello attinente agli effetti dell'inadempimento imputabile, a sua volta distinto in: 1) esclusione della risolubilita' del contratto per certi tipi di inadempimento (anche questa ipotesi non ha attinenza alla materia); 2) limitazione del risarcimento del danno, conseguente all'inadempimento (fermo restando il contratto). Il Collegio osserva che il collegamento della clausola in esame con quest'ultima tematica appare tanto evidente, da apparire quasi intuitivo. Da un lato, infatti, la Banca non ha altro scopo, nel predisporre e nell'invocare la clausola, che quello di "limitare" l'ammontare del risarcimento dovuto ad un valore massimo e prestabilito, qualunque sia il danno in concreto subito dalla parte che ha perduto i beni inclusi nella cassetta, per effetto dell'inadempimento di cui supra; dall'altro lato, come ha efficacemente notato la sentenza impugnata (nell'ambito della logica della validita' della clausola) "resta a carico della Mauro il furto di beni di valore superiore a Lire 25.000.000" e cioe', in sostanza - per un criterio di autoresponsabilita' - le conseguenza dell'inadempimento della Banca (senza il quale il danno nella sua totalita' non si sarebbe manifestato) restano a suo carico fino ad un certo limite, mentre passano a carico della cliente, oltre tale limite.

Ha ragione la ricorrente quando nota che quel danno superiore non si e' verificato per effetto dell'inadempimento, da parte sua, alla clausola del divieto di immettere beni di valore superiore ad una certo limite, ma sempre per effetto della responsabilita' della Banca. Ma il significato vero della espressione, che nel suo significato letterale ("resta a suo carico, in quanto inadempiente, il furto di beni per un valore superiore") e' difficilmente giustificabile, perche' non vi e' nesso di causalita' fra inadempienza della cliente e sopportazione del danno, e' quello spiegato dalla premessa: "Consegue che la Mauro non puo' invocare la tutela del contratto per un importo superiore a quello convenuto". Si tratta, cioe', di una limitazione delle conseguenze dell'inadempimento a carico della Banca, per quanto riguarda il limite del danno; il danno ulteriore non e' danno giuridicamente tutelabile, ma soltanto danno "di fatto", perche' non e' collegato ad un'obbligazione a carico della Banca, essendo detta obbligazione, soltanto quella derivante dalla clausola piu' volte citata. L'inserimento di essa nell'area delle obbligazioni contrattuali giustifica - nel discorso della sentenza - la sua validita', perche' la fa appartenere al "contenuto" del contratto. Tuttavia, proprio la conseguenza che risulta dal discorso della Corte d'Appello (una parte del danno resta a carico del cliente, perche' la Banca risponde solo fino ad un certo limite) pur nella sua inesattezza tecnico-giuridica, dimostra che il problema va impostato in maniera piu' corretta, sotto pena di confondere quello che viene definito in sentenza come obbligo facente parte del contenuto del contratto con un elemento ulteriore rispetto a detto contenuto e che attiene alla regolamentazione delle conseguenze dell'inadempimento, sotto il profilo del danno (art. 1229 c.c. nell'ultima delle ipotesi suindicate).

Ed invero, in base alla premessa gia' enunciata supra, occorre esaminare se determinate prestazioni sono contenute nel contratto e, poi, se l'inadempimento della corrispondente obbligazione e' oggetto o meno di una clausola limitativa. Si assume dalla sentenza impugnata che l'obbligo - da parte del cliente - di non depositate valori superiori ad un dato livello si "pone in stretto rapporto sinallagmatico" con il canone pattuito. Questa tesi non puo' essere seguita, perche' il rapporto "sinallagmatico" puo' essere istituito soltanto fra prestazioni che sono a carico, rispettivamente, di una e dell'altra parte del contratto, mentre nella specie le due obbligazioni (divieto di immissione ed obbligo di pagare un certo canone) sono entrambe a carico del cliente. Neppure si puo' parlare di sinallagmaticita' fra il divieto suddetto (a carico del cliente) e l'obbligo della Banca di prestare una custodia differenziata ovvero una cassetta con diverse caratteristiche, perche' questa "limitazione" dei doveri della Banca non solo non risulta, ma e' stata esclusa in punto di fatto dal giudicato che si e' formato (v. supra).

Ma, a prescindere dalla suddetta prima affermazione che potrebbe essere di per se' inesatta, senza pero' intaccare la tesi di fondo, secondo cui obbligo del cliente (concretato dal suddetto divieto) rientra nel contenuto del contratto liberamente pattuito, e non ha nulla a che vedere con una limitazione di responsabilita' a carico della Banca, si osserva che dovrebbe allora affermarsi un collegamento che, infatti, e' affermato dalla sentenza impugnata, la' dove (pag. 3-4) collega la clausola n. 2 (sul divieto) a quella n. 3 (sul danno). Sent. 01/07/94 n.6225 In realta' detto collegamento non sussiste, dal punto di vista dell'obbligo del cliente. Il danno e' sempre conseguenza di un inadempimento (art. 1218 c.c.), ma l'inadempimento del cliente al suddetto obbligo non e' affatto collegato con il danno (e, quindi a maggior ragione con la sua limitazione). Infatti: a) il danno risarcibile a favore del cliente non puo' essere conseguenza di un inadempimento dell'obbligo che e' a carico dello stesso cliente, perche' il danno risarcibile ex art. 1218 c.c. e' soltanto quello che deriva da un inadempimento del debitore della prestazione, cioe' della controparte, rispetto al titolare del diritto al risarcimento;

b) Il fatto colposo del creditore (il cliente) puo' rilevare anche ai sensi dell'art. 1227 c.c., che prevede due ipotesi. La prima e' quella in cui il comportamento del danneggiato abbia contribuito a cagionare la lesione iniziale, e cioe', comporta un giudizio di imputazione causale del danno. Si e' gia' dimostrato supra che nessun collegamento causale puo' essere istituito fra l'inadempimento del cliente (che immette nella cassetta valori oltre il pattuito) e il fatto dannoso in se' (furto) che e' dipeso esclusivamente (a parte, ovviamente, la responsabilita' dei ladri) dal fatto della Banca.

La seconda ipotesi e' quella del creditore che non contribuisca ad evitare l'aggravarsi ulteriore dell'iniziale lesione e comporta un giudizio sul dovere di correttezza che impone al danneggiato di comportarsi diligentemente per evitare il danno causato dall'inadempimento altrui. E' evidente che anche questa ipotesi e' del tutto estranea alla specie, perche' riguarda un comportamento successivo all'evento, mentre la contravvenzione al divieto si e' verificata prima dell'evento.

c) Infine, il fatto colposo del cliente puo' valutarsi ai sensi degli artt. 1453 e ss.. Il caso della risoluzione del contratto non e' in discussione. Quello dell'eccezione di inadempimento e' pure estranea alla specie (art. 1460 c.c.). Infatti, non si puo' realizzare la funzione dilatoria (mantenimento dello status quo) propria dell'eccezione, ne' si puo' sostenere che la Banca si rifiuta di adempiere le sue - pregresse - obbligazioni, perche' il cliente non ha adempiuto la propria. Quello che la Banca si rifiuta di prestare e' l'obbligazione sostitutiva di risarcimento del danno, non l'obbligazione di custodia e tutte le altre a suo carico ai sensi dell'art. 1839 c.c. e del contratto (v. infra la dimostrazione dell'indivisibilita' di tali obbligazioni, non distinguibili a seconda del valore delle cose).

Pertanto, non per un giuoco di semplice "esclusione" (come opina la difesa della Banca, in critica delle argomentazioni delle citate sentenze di questa Corte del 1992), ma proprio perche' non e' possibile collegare la clausola in questione con le obbligazione a carico del cliente, essa non puo' che collegarsi con le obbligazioni a carico della Banca.

Ci si deve, quindi, domandare, perche' la Banca dovrebbe pagare solo il danno fino al limite suindicato e non il danno effettivo, a seguito della sua inadempienza contrattuale. Se tale pattuizione inerisse all'oggetto del contratto, dovrebbe affermarsi che fa parte del suo oggetto la prestazione di risarcimento del danno, il che non e' sostenibile, perche' il risarcimento non e' la prestazione dedotta in contratto, ma l'equivalente del danno subito dalla controparte, a seguito dell'inadempimento dell'obbligazione gravante sulla Banca. Il contenuto del contratto e' l'insieme delle prestazioni dovute da una e dall'altra parte.

L'obbligazione a carico del cliente (divieto di immissione di valori oltre un certo limite) fa parte del contenuto del contratto (salva restando l'indagine successiva se si tratta di contenuto valido o nullo); ma si e' dimostrato che la conseguente limitazione dei danni a carico della Banca, in caso di suo inadempimento, non ha alcun rapporto con la violazione di tale obbligo del cliente, per cui la limitazione del danno risarcibile non puo' essere conseguenza dell'inadempimento del cliente.

Tuttavia, il discorso non puo' chiudersi con la critica del ragionamento della Corte d'Appello, in quanto esso potrebbe correggersi (art. 384 c.p.c.) confermandosi il dispositivo. Ed, in effetti, nella memoria della Banca, si segue in'impostazione giuridica diversa, che e' senz'altro piu' corretta, perche' sposta l'attenzione - dall'esame delle obbligazioni del cliente, che e' del tutto irrilevante, ai fini di causa - a quello delle obbligazioni della Banca, affermando che il patto delimita le sue obbligazioni (e cioe' l'oggetto del contratto) e non la sua responsabilita', e quindi e' valido e meritevole di tutela.

In primo luogo, e' opportuno segnalare che in essa (pagg. 8-9) si condivide l'affermazione - che supra il Collegio ha enunciato e dimostrato - che "l'obbligo di protezione, avente ad oggetto i locali, non e' destinato certo ad incontrare limiti, quanto alla prestazione tipica della Banca ed alla diligenza professionale a tale scopo impiegata". Questo e', pertanto un punto fermo. Tuttavia, in primo luogo, la memoria osserva che l'obbligo di segretezza non puo' non comportare che ad essa si commisuri simmetricamente l'obbligo di protezione, nel senso che quest'ultimo non puo' estendersi a ricoprire anche le cose custodite nella cassetta; e che contraddittoriamente, se di tale segretezza si enuncia il carattere irrinunciabile al momento in cui si ricorre al servizio, se ne dimentica poi quando si tratta della responsabilita' della Banca per cio' che l'utente asserisce costituire il contenuto della cassetta; a tale contraddizione intenderebbero ovviare le pattuizioni con le quali colui che e' portatore dell'interesse al segreto acconsente a regolamentare l'obbligo di protezione con riguardo ad oggetti che, pur non direttamente attinenti a tale obbligo, potrebbero con esso indirettamente interferire, sotto l'aspetto del danno riflesso conseguente ad una difettosa custodia dei locali.

Si aggiunge che, a fronte degli interessi, protettivo ed al segreto, che fanno capo agli utenti, vi e' l'interesse della Banca ad assicurare un servizio a bassissimo costo, con la riserva che da essa non potra' esigersi, anche in base al principio di buona fede, la protezione di cose (oltre che dei locali) ad di la' del limite sul quale lo stesso utente ha concordato; in una materia disponibile, si resta nell'area della legittimita' contrattuale (art. 1322 comma 2^) ove le parti dispongano delle obbligazioni tipiche in esso contenute, senza che cio' comporti violazione ne' di norme imperative o di principi di ordine pubblico e neanche "irriconoscibilita' del tipo contrattuale prescelto".

Il Collegio osserva che questo primo ordine di considerazioni e' privo di rilievo. Con esse non si riescono a superare due punti del tessuto argomentativo delle sentenze del 1992 a cui queste Sezioni unite si richiamano: a) che le cose immesse nella cassetta non sono oggetto del contratto; b) che la pattuizione de qua inerisce al danno che e' conseguenza della difettosa custodia dei locali e cioe' si inquadra perfettamente (e soltanto) nell'ambito dell'art. 1229 c.c.. Le parti possono pattuire la clausola, ma nei limiti in cui la suddetta norma ne afferma la validita' (colpa lieve del banchiere). Il secondo ordine di considerazioni attiene al fattore rischio che incide nell'ambito dell'organizzazione generale dell'impresa, che costituisce una situazione di fatto presupposta dal singolo contratto, che puo' assumere rilevanza a livello di motivo, ove la Banca rende edotto il cliente che essa non ritiene di assumere un rischio che le sue strutture non le consentono di coprire. La cognizione, da parte del cliente, della volonta' della Banca di non voler contrarre se non a determinate condizioni si sottrae all'alternativa "limitazione dell'oggetto e/o della responsabilita'", per divenire motivo rilevante e integrazione del contenuto del contratto. Dato che la Banca risponde con un modulo oggettivo di responsabilita' (il cui unico limite e' il fortuito), col meccanismo della dichiarazione di valore, conosce i rischi prevedibilmente connessi al contratto e predetermina (non limita) i danni presumibilmente risarcibili.

Anche queste considerazioni, ad avviso del Collegio, non possono condividersi.

In primo luogo, proprio il collegamento della clausola in discorso con il criterio obiettivo di responsabilita' (fino al fortuito), come elemento di moderazione di esso, porta a collegare (anziche' distanziare) la clausola in discorso con l'art. 1229 c.c.. Il motivo rilevante e' soggetto a tale disciplina. In secondo luogo, porre una distinzione fra "predeterminazione e "limitazione" dei danni risarcivili si converte in un artificio verbale che non raggiunge lo scopo di fare decampare la clausola dall'ambito della limitazione delle conseguenze delle obbligazioni assunte dalla Banca. Non vi e' una prederminazione delle obbligazioni (la quale e' consentita), ma una prederminazione della responsabilita' (che e' ammessa solo nei limiti fissati dall'art. 1229 c.c.).

Un terzo, piu' ampio ordine di considerazione parte dal raffronto con fattispecie negoziali definite piu' vicine od affini (art. 1683; 1784; 1790), che costituiscono figure tipiche di custodia, nelle quali non e' vietato all'obbligato di conoscere la natura ed il valore dei beni affidatigli, perche' ignorandosi l'entita' dei beni, la responsabilita' sarebbe rimessa all'arbitrio di un comportamento altrui ed il soggetto tenuto a custodire si troverebbe nell'impossibilita' di calcolare preventivamente il rischio del rapporto; non si tratta di limitare il rischio, ma di valutare tutte le incognite di un dato rapporto (art. 1225, 1783 terzo comma, 1683 c.c., 412 e 944 cod. nav.).

Il rischio specifico del singolo negozio esige che le parti siano previamente consapevoli dei vantaggi e svantaggi del negozio e delle conseguenze dannose, in caso di inadempimento. Tale valutazione e' garantita dalla conoscenza o conoscibilita' dei termini del rapporto, mentre secondo le citate sentenze della sez. I il rischio sarebbe previamente indeterminabile e rimesso all'esclusivo contegno dell'altra parte. La Banca conosce l'oggetto della custodia, ma non il valore delle cose che, segretamente depositatevi, fisseranno la misura della responsabilita', che viene calcolata in base ad un valore diverso da quello dell'oggetto custodito. L'equilibrio fra il segreto del contenuto delle cassette e la tutela contro pretese risarcitorie, che sfuggano ad ogni controllo e' trovato nelle clausole in esame, che consentono una prevedibilita' dei valori massimi a cui si commisurera' la responsabilita' della Banca. In violazione dell'art. 1285 c.c., la Banca sarebbe tenuta a risarcire un danno imprevedibile.

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