Cass. civile, sez. III, 10-09-1998, n. 8970: danno biologico e risarcimento del danno psichico.

RISARCIMENTO DEL DANNO - PATRIMONIALE E NON PATRIMONIALE (DANNI MORALI) - Lezione del bene vita - Nel caso di morte causata dall'altrui illecito - Decesso contestuale all'azione dannosa - Risarcibilità del danno biologico "jure successionis" in favore degli eredi - Configurabilità - Esclusione - Fondamento.

Il bene "salute" ed il bene "vita" costituiscono beni distinti e tutelati in forma distinta. Mentre infatti il primo ammette una forma di tutela risarcitoria, il secondo no, in quanto, essendo strettamente connesso alla persona del suo titolare, non se ne può concepire la autonoma risarcibilità quando tale persona abbia cessato di esistere. Ne consegue che, in caso di morte di un individuo causata dall'altrui atto illecito, ove la morte sia contestuale all'azione dannosa, nulla è dovuto agli eredi a titolo di risarcimento "jure successionis" del danno biologico sofferto dal loro dante causa, in quanto questi non ha mai subito alcun "danno biologico" rigorosamente inteso.

RISARCIMENTO DEL DANNO - MORTE DI CONGIUNTI (PARENTI DELLA VITTIMA) - Decesso in conseguenza dell'altrui illecito - Lesione dell'integrità psicofisica degli eredi - Autonomia risarcitoria - Configurabilità - Condizioni.

Gli eredi di persona deceduta in conseguenza dell'altrui atto illecito hanno diritto, ove ne dimostrino l'esistenza, al risarcimento del danno alla propria integrità psicofisica, subito in conseguenza dell'evento luttuoso che li ha colpiti.

RISARCIMENTO DEL DANNO - MORTE DI CONGIUNTI (PARENTI DELLA VITTIMA) - Danno patrimoniale diretto subito dagli eredi di persona deceduta per l'altrui atto illecito - Liquidazione - In via equitativa - Indicazione dei criteri utilizzati nella definizione del reddito del defunto da porre a base del calcolo - Obbligo del giudice.

Nel liquidare il danno patrimoniale subito dagli eredi di persona deceduta in conseguenza dell'altrui atto illecito, danno pari alla perdita della quota di reddito che il defunto destinava stabilmente alla propria famiglia, il giudice di merito - quand'anche intenda liquidare tale danno in via equitativa, ex art. 1226 cod. civ. - ha l'onere di indicare in base a quali criteri e secondo quali calcoli è pervenuto a determinare il reddito da porre a base del calcolo liquidatorio (nella specie, la S.C. ha cassato la decisione del giudice del merito il quale, dopo avere accertato l'esistenza del danno, lo aveva liquidato con la formula "appare equo fissare il presunto reddito in lire 25.000.000", senza indicare come avesse determinato tale cifra).

Il danno patrimoniale subito dai familiari di una casalinga deceduta in conseguenza dell'altrui atto illecito, e consistente nella perdita delle prestazioni domestiche erogate dalla propria congiunta, può essere legittimamente liquidato facendo riferimento non al reddito di una collaboratrice domestica, ma al triplo della pensione sociale.

Nel caso in cui due coniugi decedano, per effetto dell'altrui atto illecito, la ideale quota di reddito che ciascuno di essi destinava all'altro può essere ricompresa nel calcolo del danno patrimoniale subito dai figli soltanto ove il giudice possa ritenere, anche in base a presunzioni semplici, che tale quota - ove uno dei coniugi fosse sopravvissuto - sarebbe stata destinata a pro dei familiari superstiti.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo si denuncia: "Violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c. e dell'art. 32 della Costituzione, nonche' vizio di motivazione (artt. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.)".

Si deduce che erroneamente la Corte di merito ha rigettato la domanda dei Feverati diretta ad ottenere jure successionis il risarcimento del danno biologico cui avevano diritto i loro genitori. La decisione della Corte di merito e' censurata sotto tre profili:

a) la morte istantanea dei genitori dei Feverati e' stata ritenuta d'ufficio dal giudice senza che sul punto fosse stata fornita alcuna prova dai convenuti, sul quali incombeva il relativo onere, atteso che la morte immediata era stata ritenuta fatto preclusivo del risarcimento jure successionis dei danno biologico;

b) tra il fatto lesivo e l'evento morte intercorre sempre un lasso di tempo ancorche' minimo che fa sorgere in capo alla vittima il diritto al risarcimento del danno (da morte); tale diritto, siccome acquisito al patrimonio della vittima, e' trasmissibile agli eredi;

c) il risarcimento invocato dai ricorrenti jure successionis non e' quello relativo al danno alla salute subito dai loro genitori, ma quello relativo al danno subito per la perdita della vita; se viene risarcito il danno alla salute, a maggior ragione deve essere risarcito il danno derivante dalla perdita della vita, altrimenti si giungerebbe alla conclusione, di per se' aberrante, che il diritto alla vita non ha tutela alcuna, in contrasto tra l'altro con gli artt. 2 ed 8 della Convenzione dei Diritti dell'uomo. La censura e' infondata.

Per quanto riguarda il punto a) e' da rilevare che la istantaneita' della morte dei genitori dei Feverati era stata da questi stessi dedotta con l'atto di citazione e non ha mai formato oggetto di discussione nel giudizio di merito.

Per quanto riguarda gli altri due profili, si osserva che la costante giurisprudenza di questa Corte e' nel senso di ritenere che la lesione dell'integrita' fisica con esito letale, intervenuto immediatamente o a breve distanza di tempo dall'evento lesivo, non e' configurabile quale danno biologico, dal momento che la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute ma incide sul diverso bene giuridico della vita, la cui perdita, per il definitivo venire meno del soggetto, non puo' tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, trasferibile agli eredi, non rilevando in contrario la mancanza di tutela privatistica del diritto alla vita (peraltro protetto con lo strumento della sanzione penale), attesa la funzione non sanzionatoria ma di reintegrazione e riparazione di effettivi pregiudizi svolta dal risarcimento del danno, e la conseguente impossibilita' che, con riguardo alla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare e da questi fruibile solo in natura, esso operi quando tale persona abbia cessato di esistere (v. Sez. III, 25 febbraio 1997, n. 1704; Sez. III, 24 aprile 1997,n. 3592; Sez. III, 29 maggio 1996, n. 4991; Sez. III, 28 maggio 1996, n. 4910; Sez. III, 14 marzo 1996, n. 2117; Sez. III, 12 ottobre 1995, n. 10628; Sez. III, 28 novembre 1995, n. 12299).

In particolare, la sentenza n. 1704 del 1997, dopo aver ricordato che il danno biologico o danno alla salute, di cui e' pacificamente riconosciuta la risarcibilita' ai sensi dell'art. 2043 c.c., consiste nella menomazione arrecata all'integrita' fisico psichica della persona in se' e per se' considerata, incidente sul valore umano in ogni sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali afferente al soggetto nell'ambiente in cui la vita si esplica, ed aventi rilevanza non solo economica, ma anche spirituale, sociale culturale ed estetica (v. in tal senso sentenze n. 4225/95; n. 9170/94; n. 8787/94; n. 5660/94; n. 10153/93; n. 357/93), ha cosi' ritenuto: "Diverso dal diritto alla salute e' il diritto alla vita. La distinzione tra vita e salute, e, conseguentemente, tra diritto alla vita e diritto alla salute, non appare invero contestabile, ed e' stata del resto autorevolmente ribadita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 372/94, sul rilievo che "sebbene connesse, la seconda essendo una qualita' della prima, vita e salute sono beni giuridici diversi, oggetto di diritti distinti, sicche' la lesione dell'integrita' fisica con esito letale non puo' considerarsi una semplice sottoipotesi di lesione alla salute in senso proprio". Nel caso di lesioni mortali, quindi, non puo' negarsi autonoma considerazione alle lesioni rispetto alla morte, poiche' trattasi di eventi che incidono su beni giuridici diversi, quali sono l'integrita' psico fisica e la vita, e ledono quindi diritti diversi, quali sono il diritto alla salute ed il diritto alla vita. Tale autonoma considerazione non puo' tuttavia condurre al riconoscimento della risarcibilita' iure hereditario del danno biologico in ogni caso di lesioni mortali, e quindi anche nell'ipotesi di morte istantanea. Non vale infatti osservare che la morte, per quanto sia rapida, non puo' essere contemporanea alla lesione che l'ha causata, atteso che il rapporto di causa ed effetto che lega lesioni e morte postula la successione cronologica (anche di un solo istante) dei due eventi, sicche' anche nell'ipotesi ora considerata, sarebbe possibile isolare concettualmente il momento della lesione all'integrita' psico fisica rispetto al momento della soppressione della vita. L'assunto puo' essere condiviso sul piano della logica formale, ma non consente di sostenere che, nella detta ipotesi, sia anche sorto, in capo al soggetto colpito da lesione mortale ma ancora in vita (anche se per un solo istante), il diritto al risarcimento del danno all'integrita' psico fisica o danno biologico, con conseguente trasmissibilita' iure successionis del relativo diritto di credito. Non e' infatti sufficiente invocare il principio secondo il quale il danno biologico e' insito nella lesione all'integrita' psico fisica, quale danno evento, ricompreso nel fatto illecito, come affermato dalla Corte costituzionale con la nota sentenza n. 184/86. Occorre invero tenere conto della precisazione (restrittiva) compiuta dalla Corte costituzionale con la successiva sentenza n. 372/94, nel senso che, in forza della menzionata costruzione dogmatica, la prova della lesione integra di per se' prova dell'esistenza del c.d. danno biologico, ma non anche della sua entita' ai fini risarcitori, necessitando al riguardo, secondo i principi propri del sistema vigente della responsabilita' civile, l'ulteriore dimostrazione della consistenza del danno, da individuare, ai sensi dell'art. 1223 c.c., in una perdita o diminuzione di un valore (nel caso, di un valore personale) al quale il risarcimento deve essere commisurato. E va altresi' considerato che il diritto all'integrita' psico fisica ha come oggetto la fruizione del bene salute, per l'esplicazione piena ed ottimale delle attivita' realizzatrici della persona umana nel suo ambiente di vita, sicche' una concreta perdita o riduzione di tali potenzialita' puo' concretizzarsi soltanto nell'eventualita' della prosecuzione della vita, in condizioni menomate, per un apprezzabile periodo di tempo successivamente alle lesioni. Consegue che, in difetto di una apprezzabile protrazione della vita successivamente alle lesioni, pur risultando lesa l'integrita' fisica del soggetto offeso, non e' configurabile un danno biologico risarcibile, in assenza di una perdita delle potenziali utilita' connesse al bene salute suscettiva di essere valutata in termini economici. Conclusivamente, va affermato che il danno biologico, quale lesione al diritto alla salute, postula necessariamente la permanenza in vita del soggetto leso, in condizioni di menomata integrita' psico fisica, tali da non consentirgli la piena esplicazione delle attivita' realizzatrici della persona umana, sicche' la configurabilita' del detto danno e la trasmissibilita' agli eredi del relativo diritto di credito risarcitorio devono escludersi quando la morte segua l'evento lesivo a distanza di tempo talmente ravvicinata da rendere inapprezzabile l'incisione del bene salute (in tal senso: sent. n. 4991/96; n. 10628/95). La suddetta sentenza si pone poi il problema della risarcibilita' del diritto alla vita, che e' quello specificamente posto dai ricorrenti nel presente giudizio, e cosi' motiva: Come gia' rilevato, nel ribadire la distinzione tra vita e salute, e, conseguentemente, tra diritto alla vita e diritto alla salute, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 372/94, ha posto in rilievo che "la lesione dell'integrita' fisica con esito letale non puo' considerarsi una semplice sottoipotesi di lesione alla salute". Alla luce del richiamato principio, la morte non costituisce quindi - come ritengono i ricorrenti - la massima lesione possibile della salute, bensi' il sacrificio del diverso bene giuridico della vita. Consegue che impropriamente si invoca, nel caso di morte, la figura del danno biologico, creata con riferimento al diritto alla salute. La questione della risarcibilita' iure successionis della lesione del diritto alla vita di un congiunto va quindi risolta alla stregua del vigente sistema di responsabilita' civile, secondo cui l'oggetto del risarcimento non puo' consistere se non in una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva (v., in tal senso, Corte Cost. sent. n. 3 72/94). Ed allora, se il danno si sostanzia nelle conseguenze pregiudizievoli di un fatto illecito, va negata la risarcibilita' iure successionis della lesione del diritto alla vita di un congiunto, poiche' la morte impedisce che la lesione si rifletta in una perdita a carico della persona offesa, ormai non piu' in vita, sicche' non sorge nel patrimonio dell'offeso un diritto al risarcimento per la perdita della vita, trasferibile agli eredi.

Ne' vale opporre che in tal modo la lesione del fondamentale diritto alla vita rimane sfornita di tutela privatistica, sicche' risulta piu' conveniente, sotto l'aspetto economico, uccidere una persona, piuttosto che arrecarle una lesione permanente, cosi' capovolgendo, tuttavia, il basilare principio della proporzionalita' della sanzione. Ed infatti, nel vigente ordinamento il risarcimento non riveste natura di sanzione, ne' ha carattere di assoluta generalita', bensi' svolge la specifica funzione di reintegrazione e riparazione di effettivi pregiudizi conseguenti a fatti illeciti, sicche' puo' operare solo ove sussistano tali presupposti, e cioe' non oltre i limiti strutturali che segnano l'ambito del sistema della responsabilita' civile. Il risarcimento, in definitiva, mira a ricostruire, in forma specifica o per equivalente, la consistenza del patrimonio (inteso in senso lato, comprensivo quindi anche dei diritti della persona) del soggetto vittima dell'illecito, e nel caso di morte tale ricostituzione non e' possibile: non informa specifica, come e' evidente, ma neppure per equivalente, per mancanza del soggetto che dell'utilita' sostitutiva del bene perduto possa giovarsi. La non risarcibilita' della privazione della vita si correla quindi alla peculiare essenza del diritto alla vita, che ha ad oggetto un bene del quale solo il titolare puo' godere, e puo' godere soltanto in natura, non essendo concepibile un godimento per equivalente. Ma cio' non implica un difetto di tutela, poiche' alla tutela del diritto alla vita l'ordinamento provvede con strumenti diversi, ed in particolare mediante la previsione di sanzioni penali.

E, d'altra parte, sotto il profilo risarcitorio, i prossimi congiunti della vittima non risultano sforniti di adeguata tutela, poiche' la morte del familiare consente ad essi di invocare iure proprio sia il risarcimento del danno "patrimoniale", consistente nella perdita delle utilita' economiche che il defunto assicurava e che avrebbe presumibilmente continuato a fornire anche in futuro, secondo i noti principi acquisiti in materia, sia il risarcimento del danno "morale" (non patrimoniale) conseguente alla morte del congiunto, nei limiti fissati dal vigente ordinamento (art. 2059 c.c.), sia, secondo un recente indirizzo, il risarcimento del danno "biologico", consiste nella lesione dell'integrita' fisica o psichica subita dai congiunti per effetto della morte del proprio familiare".

Il detto orientamento e' da condividere e poiche' contro le ragioni poste a suo sostegno non vengono posti nuovi argomenti esso e' anche da mantenere.

Improprio, infatti, appare il richiamo fatto dai ricorrenti alla Convenzione dei diritti dell'uomo ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848. In particolare l'art. 2 della Convenzione, richiamato dai ricorrenti insieme all'art. 8, che tuttavia concerne materia non pertinente, cosi' recita testualmente:

1. Le droit de toute personne a' la vie est protege' par la loi. La mort ne peut etre infligee a' quiconque intentionnellement, sauf en execution d'une sentence capitale prononcee par un tribunal au cas ou' le delit est puni de cette peine par la loi.

2. La mort n'est pas consideree comme infligee en violation de cet article dans les cas ou' elle resulterait d'un recours a' la force rendu absolument necessaire:

a) pour assurer la defense de toute personne contre la violence illegale;

b) pour effectuer une arrestation reguliere ou pour empecher l'evasion d'une personne regulierement detenue;

c) pour reprimer, conformement a' la loi, une emeute ou une insurrection.

La norma riconosce che il diritto alla vita di ciascuna persona e' protetto dalla legge ed aggiunge che la morte non puo' essere inflitta intenzionalmente, se non in esecuzione di una sentenza emessa in virtu' di una legge che per il fatto commesso commini la pena di morte. La norma, pertanto, agisce sul piano del riconoscimento di un diritto, al quale e' conforme il nostro ordinamento, che contiene norme penali per reprimere tutti gli attentati alla vita umana; ma da cio' non puo' farsi discendere che il soggetto che sia stato privato della vita acquisisca un diritto proprio al risarcimento, poiche' tale diritto puo' affermarsi solo in relazione ai principi che regolano la responsabilita' civile, i quali, come e' stato sufficientemente sopra dimostrato, escludono un siffatto tipo di tutela risarcitoria.

Il primo motivo deve essere, pertanto, rigettato. Con il secondo ed il terzo motivo si denunciano rispettivamente: "Violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., e dell'art. 32 della Costituzione, in relazione all'art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c."; "Contraddittoria ed insufficiente motivazione in relazione all'art. 360 n. 5 c.p.c.".

Con entrambi i motivi, che per tale ragione possono essere esaminati congiuntamente, si censura la sentenza impugnata nella parte in cui viene negato il diritto dei ricorrenti al risarcimento dei danno biologico jure proprio.

La censura e' fondata.

La Corte d'appello nel respingere il motivo di appello con il quale gli attuali ricorrenti (v. pagina 9 della sentenza impugnata) avevano lamentato il mancato riconoscimento del loro "diritto alla liquidazione del danno biologico jure proprio, tenuto conto, sia delle ripercussioni di natura psico somatica, incidenti sulla qualita' della vita del soggetto interessato, come peraltro risultante da certificazione medica che veniva prodotta, sia dal danno alla vita di relazione e al menage familiare con riguardo alla compromissione della serenita' familiare", ha testualmente affermato: Anche il secondo motivo e' infondato. La Corte Costituzionale, invero, con la recente sentenza n. 372 del 27 ottobre 1994, ha escluso, alla stregua delle norme vigenti nel nostro ordinamento, ed in particolare a quelle sulla colpa, la sussistenza di un danno biologico jure proprio a seguito dell'evento mortale di un familiare".

La decisione della Corte di merito appare viziata da una non esatta lettura della sentenza della Corte costituzionale. Questa, contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, nel dichiarare infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 2043 e 2059 c.c., in quanto non avrebbero consentito, a giudizio dei giudice rimettente, il diritto al risarcimento dei danno biologico subito dai familiari per la morte. dei congiunto, individua nell'art. 2059 c.c., del quale amplia la portata, la fonte della tutela di siffatto danno, laddove afferma che l'eventuale danno alla salute subito dai familiari in conseguenza della morte del congiunto, in quanto idoneo ad incidere in modo permanente sulla qualita' della vita del detto familiare, deve essere valutato in modo diverso rispetto al risarcimento dei c.d. danno morale.

Ha ritenuto, infatti, la Corte Costituzionale che "il danno alla salute e' qui il momento terminale di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell'equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo, e che in persone predisposte da particolari condizioni (debolezza cardiaca, fragilita' nervosa, ecc.), anziche' esaurirsi in un patema d'animo o in uno stato di angoscia transeunte, puo' degenerare in un trauma fisico o psichico permanente, alle cui conseguenze in termini di perdita di qualita' personali, e non semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va allora commisurato il risarcimento".

Questa impostazione e' stata criticata in dottrina, ma non perche' esclude la risarcibilita' del danno biologico eventualmente subito dai congiunti per la perdita del familiare, ma perche' ancora la risarcibilita' all'art. 2059 c.c. e non all'art. 2043 c.c. Non deve essere qui risolto il problema se il danno alla salute subito dai congiunti del familiare deceduto debba essere riconosciuto in applicazione dell'art. 2059 c.c., come ha ritenuto la Corte costituzionale, ovvero in applicazione dell'art. 2043 c.c., come ritenuto da questa Corte, sia pure in un obiter con la citata sentenza n. 1704 del 1997, laddove si e' ritenuto che al prossimi congiunti della vittima e' possibile invocare iure proprio sia il risarcimento del danno "patrimoniale", consistente nella perdita delle utilita' economiche che il defunto assicurava e che avrebbe presumibilmente continuato a fornire anche in futuro, secondo i noti principi acquisiti in materia, sia il risarcimento del danno "morale" (non patrimoniale) conseguente alla morte del congiunto, nei limiti fissati dal vigente ordinamento (art. 2059 c.c.), sia il risarcimento del danno "biologico", consistente nella lesione dell'integrita' fisica o psichica subita dai congiunti per effetto della morte del proprio familiare (nello stesso senso v. anche sent. n. 3592/97). Quel che occorre rilevare e' che non puo' essere disconosciuto in radice, come erroneamente affermato dalla Corte di merito, il diritto al risarcimento del danno, per tale specifico titolo, di coloro, i quali provino di avere subito un danno alla salute quale conseguenza della morte di un prossimo congiunto.

Sotto tale profilo i due motivi in esame devono essere accolti. Con il quarto ed il quinto motivo, si denunciano rispettivamente: "Violazione e falsa applicazione degli artt. 2056, 1223, 1226 c.c., dell'art. 11 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, dell'art. 115 c.p.c. e del d.P.R. 28 novembre 1990, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c."; "Insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione all'art. 360 n. 5 c.p.c.".

Con entrambi i motivi, che per tale ragione possono essere esaminati congiuntamente, si deduce che la Corte di merito ha erroneamente determinato il reddito di Feverati Alfonso e conseguentemente il danno patrimoniale subito dai figli superstiti. La censura e' fondata. Con l'atto d'appello gli odierni ricorrenti avevano lamentato che il Tribunale, nel determinare il reddito di Feverati Alfonso:

a) non aveva tenuto conto degli emolumenti da questi percepiti per gli anni precedenti e soggetti a tassazione separata;

b) aveva omesso di maggiorare il reddito di lavoro dipendente con le detrazioni di legge, cosi' come previsto dall'art. 4 della legge n. 39 del 1977 (NDR: D.L. 23.12.1976 n. 857 art. 4);

c) aveva omesso di includere nel reddito i contributi previdenziali;

d) aveva omesso di considerare gli incrementi di reddito correlati all'anzianita', quali erano prevedibili anche in base agli accordi di categoria in vigore dal 1^ dicembre 1990;

e) aveva omesso di includere nel reddito la tredicesima mensilita';

f) aveva applicato sul reddito netto una detrazione del 20% a titolo di scarto tra vita fisica e vita lavorativa, senza considerare che tale scarto non e' applicabile al funzionario statale, il quale ha diritto alla pensione al momento dei collocamento a riposo.

A fronte di queste specifiche censure, la Corte d'appello, dopo aver affermato che nella determinazione del danno patrimoniale futuro subito dai congiunti avrebbe dovuto tenersi conto anche dei probabili incrementi di guadagno della vittima e che, nella specie, non trovava applicazione la detrazione per il c.d. scarto tra vita fisica e vita lavorativa, ha ritenuto che per la determinazione del reddito del Feverati Alfonso dovesse tenersi conto a): del reddito annuo effettivamente percepito dal defunto, ivi compresa la tredicesima mensilita' con esclusione di ogni provento non certo, ma meramente eventuale e di assoluta saltuarieta'" b) del reddito diverso e maggiore che la vittima "avrebbe mensilmente riscosso per effetto del d.P.R. 28 novembre 1990, cosi' come certificato dalla Gestione del personale della USL 31, di cui il Feverati Alfonso era dipendente, con retribuzione pari al livello 11 ove fosse rimasto in servizio"; c) "dell'eta' della vittima, risultante nata il 16 gennaio 1926 (l'incidente e' del 18 settembre 1984) e l'epoca presumibile del pensionamento".

Dopo queste premesse la Corte di merito cosi' conclude: "Appare equo, dunque, fissare il presunto reddito in lire 25.000.000" Rileva questa Corte che la suddetta motivazione del giudice d'appello presta il fianco ad un duplice ordine di censure, entrambe avanzate dai ricorrenti.

Invero, in primo luogo, il giudice d'appello non ha risposto a tutte le specifiche censure che gli attuali ricorrenti avevano mosso alla sentenza dei Tribunale in ordine agli elementi che dovevano considerarsi concorrere alla determinazione del reddito dei loro genitore. La considerazione di tutti gli elementi indicati era doverosa perche' si trattava di elementi facilmente e documentalmente verificabili.

In secondo luogo, il giudice di appello, dopo aver accolto talune delle censure prospettate, ha determinato il reddito presunto del Feverati in lire 25.000.000, senza pero' indicare gli elementi di calcolo in base ai quali era giunto alla determinazione di quella somma.

E' vero che il giudice d'appello ha determinato la suddetta somma facendo richiamo al principio di equita'; tuttavia trovandosi di fronte ad una specifica determinazione del reddito effettuata dal Tribunale e ad analitiche censure mosse dagli appellanti, una volta ritenuta la fondatezza di dette censure, il giudice aveva il dovere di indicare specificamente gli elementi numerici elaborati nel calcolo, per pervenire alla determinazione della somma di lire 25.000.000, cosi' da rendere manifesto, nei suoi termini essenziali, il procedimento logico valutativo adottato e verificabile il calcolo matematico compiuto.

Sotto gli indicati profili le censure di cui al quarto e quinto motivo devono, quindi, essere accolte. Con il sesto e settimo motivo si denunciano rispettivamente: "Violazione e falsa applicazione degli artt. 2056, 1223, 1226, 1362 e seguenti c.c. e dell'art. 115 c.p.c. in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c."; "Insufficiente, omessa e contraddittoria motivazione in relazione all'art. 360 n. 5 c.p.c.".

Con entrambi i motivi, che per tale ragione possono essere esaminati congiuntamente, si deduce che il giudice di appello ha erroneamente determinato il reddito della madre dei ricorrenti ed il conseguente danno futuro da essi subito.

I ricorrenti, premesso che il Tribunale aveva determinato il reddito della loro madre, la quale era casalinga, con il parametro del triplo della pensione sociale e che di cio' essi si erano lamentati, deducendo che il reddito avrebbe dovuto essere determinato in base alla retribuzione di una collaboratrice domestica, contestano la decisione della Corte d'appello che ha ritenuto di dover mantenere fermo il criterio adottato dal Tribunale per il rilievo che il reddito rapportato al triplo della pensione sociale (lire 7.905.000) era superiore a quello di lire 4.160.000, costituente la retribuzione annuale di una collaboratrice familiare di prima categoria convivente.

Sostengono i ricorrenti che, al contrario di quanto ritenuto dalla Corte d'appello, il reddito di una collaboratrice domestica, tenuto conto dei contratti collettivi nazionali, era, alla data del 1984, pari a lire 12.324.858, somma che avrebbe dovuto essere aumentata del 25%.

La censura e' infondata.

Questa Corte, con sentenza n. 11453 del 1995, in una fattispecie in cui il giudice di mento aveva negato il risarcimento del danno al coniuge ed al figlio minore per la morte della rispettiva moglie e madre casalinga, ha ritenuto che costituisce "Vanno patrimoniale risarcibile a norma dell'art. 2043 c.c. quello subito dal marito e dal figlio minore per il decesso del congiunto (rispettivamente moglie e madre) a seguito di altrui fatto illecito anche nel caso in cui quest'ultimo fosse stato privo di un effettivo reddito personale. Tale danno, infatti, si concreta nella perdita, da parte dei familiari, di una serie di prestazioni attinenti alla cura, all'educazione ed alla assistenza cui il marito ed il figlio avevano ed hanno diritto nei confronti della rispettiva moglie e madre nell'ambito del rapporto familiare stesso, prestazioni che sono economicamente valutabili come qualsiasi altra attivita' corrispondente al lavoro della donna casalinga, lavoro, peraltro, caratterizzato da un ineguagliabile senso di responsabilita', nonche' da spirito di generoso adempimento dei doveri e di moglie e di madre che le competono nella gestione della comunita' familiare"; ed ha aggiunto che, considerato il fatto che il legislatore ha disatteso il concetto che per la liquidazione dei danno patrimoniale debba farsi necessariamente riferimento ad un lavoro retribuito, come e' provato dall'art. 4 del d.l. 23 dicembre 976 n. 857, che ha codificato un criterio minimo per la liquidazione del danno nel caso in cui il reddito della persona non sia comprovabile con la documentazione di cui al comma primo del predetto articolo, "tale norma ... puo' trovare certamente applicazione a favore di una donna che esplichi mansioni domestiche non retribuite materialmente, trattandosi di attivita' il cui reddito definito "figurativo" non e' appunto comprovabile nei modi e termini di' cui alla prima parte della norma citata".

Alla luce della ricordata giurisprudenza, corretta appare, pertanto la decisione della Corte, di ancorare al triplo della pensione sociale il reddito figurativo della madre dei ricorrenti, al fine di determinare la perdita subita in prospettiva dagli stessi per la mancata assistenza, mentre trattandosi di un criterio meramente equitativo non appare censurabile in questa sede la scelta operata dal giudice di merito di optare per il suddetto criterio rispetto a quello auspicato dai ricorrenti.

Con l'ottavo motivo si denuncia la sentenza impugnata per: "Violazione e falsa applicazione degli artt. 2056, 1223, 1226 c.c. e dell'art. 115 c.p.c., nonche' vizio di. motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 C.P.C.), per non aver riconosciuto ai ricorrenti il diritto in via successoria ovvero diretta, anche alla quota di reddito che ognuno dei coniugi destinava all'altro".

I ricorrenti deducono l'erroneita' della sentenza della Corte d'appello nella parte in cui, confermando la decisione del Tribunale, che aveva ritenuto che ciascun coniuge avrebbe assegnato un quarto dei proprio reddito ad ogni membro della famiglia, aveva respinto il loro motivo d'appello, con il quale essi chiedevano il riconoscimento del loro diritto, in via diretta ovvero successoria, anche alla quota di reddito che ogni genitore avrebbe destinato all'altro, essendo costoro deceduti contemporaneamente. La censura e' infondata.

Deve premettersi che la determinazione della quota di reddito che i genitori avrebbero destinato ai propri figli in caso di loro permanenza in vita non puo' configurarsi in termini strettamente aritmetici, poiche' essa risponde ad un criterio presuntivo, rimesso al prudente apprezzamento del giudice di merito. Allo stesso modo, non puo' in modo automatico stabilirsi che il venire meno di uno dei componenti del nucleo familiare importi necessariamente che la quota di reddito che il capo famiglia, o altro componente della famiglia percettore di reddito, destinava a quello si estenda a beneficio degli altri, non potendosi escludere che i detti soggetti destinino a se stessi quella quota di reddito. Cio' vale in caso di reddito effettivo ed a maggior ragione nel caso di reddito figurativo (nella specie della madre casalinga), nel quale il danno consiste non nella perdita di una quota di reddito, che in effetti non c'era, ma nella perdita di un apporto materiale e spirituale alla vita familiare. Cio' fa cadere in radice la censura dei ricorrenti, la quale da' per pacifico, cio' che invece pacifico non e' affatto e cioe' che la quota di reddito in ipotesi spettante ad uno dei coniugi, in caso di decesso dell'altro coniuge, si sarebbe riversata in favore dei superstiti.

A sostegno della propria tesi i ricorrenti richiamano la sentenza n. 7276/93 di questa Corte, ma non considerano che detta sentenza, come si evince dalla sua motivazione, si riferisce ad un caso in cui il giudice di appello si trovava a giudicare essendo vincolato dal fatto che il Tribunale, con statuizione non impugnata, aveva accertato che all'interno della famiglia il reddito veniva distribuito in forma paritaria tra i suoi componenti, cosicche' l'uscita di uno di essi avrebbe dovuto comportare automaticamente la partecipazione alla redistribuzione del reddito da parte degli altri componenti, mentre nella specie il Tribunale aveva compiuto la distribuzione delle quote di reddito all'interno della famiglia, con un criterio presuntivo che teneva conto della situazione di fatto esistente al momento del decesso dei genitori dei ricorrenti.

Nessun addebito puo' quindi muoversi alla sentenza impugnata laddove ha considerato che il padre avrebbe continuato a destinare la medesima quota del proprio reddito ai figli anche dopo la morte del coniuge, anche perche' di tale valutazione si percepisce in pieno il valore di statuizione equitativa, per il fatto che tale contribuzione e' stata calcolata, senza alcuna limitazione temporale, e quindi anche con riferimento al periodo in cui i figli si sarebbero verosimilmente allontanati dalla famiglia.

Anche questo motivo deve pertanto essere rigettato. Con il nono motivo si denuncia: "Violazione e falsa applicazione degli artt. 2059 e 1226 c.c. nonche' vizio di motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.), in relazione alla quantificazione del danno morale". La censura e' infondata. La Corte d'appello, in accoglimento dello specifico motivo d'appello proposto dagli attuali ricorrenti, ha ritenuto non congrua la liquidazione del danno morale operata dal Tribunale, ed ha considerato che essa doveva essere adeguata in relazione sia alla giovane eta' dei detti appellanti, sia al fatto che gli stessi avevano subito la contemporanea perdita di entrambi i genitori, sia alle sofferenze da essi subite, sia al fatto che i predetti erano ancora privi di una propria occupazione, sia infine alle specifiche condizioni soggettive dei genitori deceduti.

La sentenza impugnata non puo' quindi essere accusata di avere adottato una motivazione di stile, come deducono i ricorrenti, ne' di avere trascurato elementi ritenuti essenziali per la liquidazione dei danno morale, in ordine al quale, non e' inopportuno ricordare la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui "in tema di risarcimento del danno per fatto illecito, la liquidazione del danno morale, consistente nell'ingiusto turbamento dello stato d'animo del danneggiato in conseguenza dell'illecito medesimo, sfugge necessariamente ad una precisa valutazione analitica, e resta affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equiparati del giudice del merito, come tali non sindacabili in sede di legittimita'". Anche il nono motivo deve pertanto essere rigettato.

La sentenza impugnata deve essere, mi conclusione, cassata in relazione ai motivi accolti (secondo, terzo, quarto e quinto motivo), con rinvio ad altro giudice che provvedera' anche in ordine alle spese di questo grado del giudizio.

P.Q.M

La Corte di Cassazione, sezione terza civile, accoglie il secondo, il terzo, il quarto ed il quinto motivo del ricorso; rigetta gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa, anche per la liquidazione delle spese di questo grado del giudizio, ad altra sezione della Corte d'appello di, Bologna.

Cosi' deciso, nella camera di consiglio della terza sezione civile della Corte di Cassazione, il giorno 27 gennaio 1998. DEPOSITATA IN CANCELLERIA, 10 SET. 1998

NOTE DI RICHIAMO

- In senso conforme, Cass. 24 aprile 1997 n. 3592, Arch. giur. circolaz., 1997, 899.

- Nello stesso senso, Cass. 25 febbraio 1997 n. 1704, Sole 24 ore, 1997, 10, 50, con nota di F. Martini; Resp. civ. e previd., 1997, 432, con note di E. Pellecchia e di G. Giannini; ivi, 1997, 657, con nota di A. Pulvirent.

- In generale, sulla necessita' di adeguate motivazioni in tema di liquidazione del danno, Cass. 16 settembre 1996 n. 8286.

- In senso conforme, Cass. 3 novembre 1995 n. 11453, Arch. giur. liquidaz., 1996, 452, Risp. civ. e previd., con nota di G. P. Miotto.

- Non constano precedenti recenti negli stessi termini del S.C.