Questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 legge 604/1966 e art. 2096 cod. civ. che non prevedono la forma scritta per il recesso del datore di lavoro nel patto di prova.
L'art. 10 L. 604/1966 e l'art. 2096 cod. civ., nella parte in cui prevedeno che le garanzie per il caso di licenziamento si applicano ai lavoratori in prova soltanto dal momento in cui l'assunzione diventa definitiva e quindi escludono che durante il periodo di prova il licenziamento debba avvenire in forma scritta, non violano l'art. 3 Cost. per ingiustificata disparità di trattamento con gli alttri lavoratori perché la clausola di prova attribuisce al rapporto di lavoro un carattere di spcialità che si riflette anche sul recesso del datore di lavoro alla scadenza del periodo di prova, che non è quindi equiparabile ad un carattere di specialità che si riflette anche sul recesso del datore di lavoro alla scadenza del periodo di prova, che non è quindi equiparabile ad un ordinario licenziamento ma piuttosto alla risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine.
Sentenza della Corte Costituzionale n. 541 del 27 novembre 2000, dep. 4 dicembre 2000 (Pres Santosuosso; Rel. Santosuosso), nel giudizio di legittimità promosso dal Pretore di Chieti - La Corte Costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 L. 15-7-1966 n. 604 (Nonne sui licenziamenti individuali) e dell'art. 2096 cod. civ. In diritto - 1. - Viene sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali) e dell'art. 2096 cod. civ., i quali sarebbero in contrasto con gli artt. 2, 3, 24, 35 e 38 della Costituzione poiché prevedono che le garanzie di cui alla legge n. 604 del 1966 per il caso di licenziamento si applichino ai lavoratori in prova soltanto dal momento in cui la riassunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto di lavoro e, perciò, escludono (secondo costante giurisprudenza) che durante il periodo di prova il licenziamento del lavoratore debba avvenire con la forma scritta, com'è disposto, invece, dalla regola generale di cui all'art. 2 della medesima legge. In particolare, il Pretore di Chieti ravvisa nel combinata disposto in esame la violazione del diritto al lavoro (trattasi, nella specie, di un soggetto avviato obbligatoriamente al lavoro ai sensi della legge n. 482 del 1968) e del diritto di difesa, perché il lavoratore, non avendo a disposizione l'atto nel quale vengono indicate le ragioni del recesso, si troverebbe in una situazione di minorata tutela, non potendo organizzare in modo valido la propria difesa in sede giurisdizionale. 2. - La questione è infondata. L'apposizione al contratto di lavoro di una clausola di prova (che, al sensi dell'art. 2096 cod. civ., deve risultare da atto scritto) è finalizzata all'accertamento, nell'arco di un periodo di tempo che in genere non supera i sei mesi, della sussistenza nel prestatore di determinate qualificazioni tecniche ritenute necessarie al proseguimento del già intrapreso rapporto di lavoro. Indipendentemente, quindi, dalle differenti costruzioni dogmatiche che la dottrina civilistica ha elaborato al riguardo, la predetta clausola attribuisce al contratto di lavoro un quid propium che non è ravvisabile in assenza della medesima. Tale differenza è stata ribadita in più occasioni dalla giurisprudenza di questa Corte, prima nelle risalenti sentenze n. 204 del 1976 e n. 189 del 1980 citate dal rimettente e, più di recente, nella sentenza n. 172 del 1996, ove si è precisato che "la dichiarazione di recesso del datore di lavoro per esito negativo della prova non può essere propriamente qualificata come licenziamento ed è invece avvicinabile alla risoluzione del rapporto per scadenza del termine. Inoltre lo stesso art. 10 ora impugnato assegna rilevanza alla scadenza del termine massimo della prova. perché prevede, a garanzia del dipendente, che tutte le norme della legge n. 604 del 1966 (e, quindi, anche l'art. 2) si applichino comunque anche al lavoratore in prova "decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto di lavoro ". La giurisprudenza di legittimità considera distintamente le due fattispecie del recesso dal rapporto in prova e del licenziamento dal rapporto definitivo, pur avendo introdotto sempre maggiori possibilità di controllo delle ragioni del recesso. La specialità del rapporto, quindi, si proietta sulla facoltà di recesso alla scadenza del periodo di prova, e tale diversità strutturale giustifica anche la censurata diversità di disciplina della forma dell'atto che pone termine al rapporto stesso. L'infondatezza della questione sotto il profilo della presunta lesione del principio di eguaglianza rende evidente anche l'inconsistenza del richiamo agli artt. 2 e 35 della Carta fondamentale, poiché i principi generali di tutela della persona e del lavoro (ordinanza n. 254 del 1997) non si traducono nel diritto al conseguimento ed al mantenimento del posto (sentenza n. 390 del 1999), dovendosi piuttosto riconoscere garanzia costituzionale al solo diritto di non subire un licenziamento arbitrario. 3. - Egualmente infondata è la censura prospettata dal Pretore di Chieti in riferimento agli articoli 24 e 38 della Costituzione. Ad avviso del giudice a quo il lavoratore in prova, non avendo a disposizione l'atto scritto nel quale vengono indicate le ragioni del recesso, si troverebbe in una situazione di minorata tutela, non potendo organizzare in modo valido la propria difesa in sede giurisdizionale. Va osservato in proposito che non sussiste alcun dubbio circa il diritto ad una effettiva difesa, essendo pacifico (come riconosce anche il rimettente) che il lavoratore in prova ingiustamente licenziato può ricorrere in sede giurisdizionale per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento. Egli può infatti allegare e provare l'eventuale sussistenza di ragioni del recesso estranee all'esito dell'esperimento; la maggiore o minore difficoltà di tale onere, a seconda delle varie circostanze, si risolve comunque in un problema di fatto che non assurge a violazione dell'art. 24 Cost. 4. - Non vale a modificare i termini della questione la considerazione che nel giudizio a quo il lavoratore licenziato sia un invalido, avviato obbligatoriamente al lavoro ai sensi della legge n. 482 del 1968. Questa Corte, infatti, ha già riconosciuto (sentenza n. 255 del 1989) che il patto di prova è compatibile con l'assunzione obbligatoria di detti lavoratori, a condizione che la prova tenga conto delle minorate capacità lavorative dell'interessato; ed in tal senso è costantemente orientata anche la giurisprudenza della Corte di cassazione. Il generico richiamo all'art. 38 Cost., attraverso cui il giudice rimettente lamenta la minore tutela di cui godrebbe tale categoria protetta, si palesa, perciò, privo di fondamento. Non può essere ignorato, d'altra parte, che la giurisprudenza di legittimità, attraverso un lungo processo di interpretazione, è andata elaborando un orientamento più rigoroso in tema di recesso nei confronti del lavoratore invalido assunto con patto di prova: così ha affermato, tra l'altro, importanti principi circa l'obbligo di esternazione dei motivi dell'esito negativo della prova, soprattutto al fine di evitare il licenziamento c.d. in frode alla legge, ossia finalizzato al solo obiettivo di aggirare il sistema dell'assunzione obbligatoria. Il menzionato iter giurisprudenziale, ancor oggi in evoluzione, non fa che corroborare la già dimostrata infondatezza della presente questione anche sotto il profilo dell'art. 38 della Costituzione.( Pubblicata sul numero 3 dell'anno 2001 de "Il Mondo Giudiziario"