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SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE n. 519, Sez. lavoro, del 16 ottobre 2000, dep. 16 gennaio 2001 - Pres. Trezza; Rel. Lamorgese; P.M. Martone; Elite s.r.l. c. Dragonetti.

Il dipendente che denuncia il datore di lavoro alla Guardia di Finanza non può essere licenziato

La condotta del lavoratore subordinato che fotocopia la distinta di una spedizione di merce venduta a terzi dalla società datrice di lavoro senza la relativa documentazione fiscale e trasmette quella fotocopia alla Guardia di Finanza, che avvia un accertamento fiscale nei confronti della società, non giustifica il licenziamento in tronco del lavoratore perché l'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 cod. civ. e quelli ad esso collegati di correttezza e buona fede si riferiscono soltanto alle attività lecite del datore di lavoro, non potendosi richiedere al lavoratore di collaborare con il datore di lavoro anche nel compimento di atti illeciti quali l'evasione fiscale

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Pretore di Trani in data 18 dicembre 1997, il Sig. Paolo Dragonetti impugnava il licenziamento intimatogli dalla s.r.l. Elite, alle dipendenze della quale aveva lavorato dal 2 luglio 1990, in quanto privo di giusta causa. Deduceva che il comportamento da lui tenuto, oggetto della contestazione di addebito fattagli dalla società datrice di lavoro, consistito nell'aver fotocopiato la distinta di una spedizione di merce, venduta a terzi dalla società senza la relativa documentazione fiscale, e nell'aver poi trasmesso quella fotocopia alla Guardia di Finanza, la quale aveva avviato un accertamento fiscale nei confronti dell'azienda, non costituiva violazione dell'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 cod. civ.: specificava di aver avuto il possesso di detta distinta, avendo effettuato il trasporto e la consegna della merce venduta, e di aver dato la fotocopia suddetta alla Guardia di Finanza, avendo ritenuto di esercitare il diritto civico alla denuncia di un fatto penalmente rilevante. Chiedeva, quindi, che, dichiarata la illegittimità del recesso, la società convenuta fosse condannata a reintegrarlo nel posto di lavoro, con le conseguenti statuizioni di risarcimento del danno e di regolarizzazione della posizione contributiva, ovvero a riassumerlo e, in alternativa, al pagamento della indennità stabilita dall'art. 2 legge n. 108 del 1990.
Nella resistenza della società, che sosteneva la definitiva frattura, per il fatto commesso dal lavoratore, del vincolo fiduciario del rapporto di lavoro, il giudice adito respingeva l'impugnativa del licenziamento con sentenza del 4 dicembre 1998.
Tale decisione appellata dal soccombente è stata riformata dal Tribunale della stessa sede, che ha accolto la domanda del Dragonetti.
Dopo aver proceduto all'interrogatorio libero dell'appellante, il giudice del gravame ha escluso che nella condotta del lavoratore potesse ravvisarsi violazione degli obblighi specificamente enunciati nell'art. 2105 cod. civ. ed ha rilevato che la documentazione in questione, che l'azienda doveva avere per l'imposizione fiscale derivante dalla vendita delle merci prodotte, era stata portata all'esterno non per danneggiare l'impresa nella sua attività e rispetto alle imprese concorrenti, ma per impedire che il datore di lavoro, occultando parte dei redditi di impresa, oltre ad evadere il fisco, si precostituisse le condizioni per poi procedere ad una riduzione del personale. Il Tribunale ha pure escluso che il Dragonetti fosse venuto meno ai suoi doveri di collaborazione nei confronti dell'imprenditore e di diligenza nell'espletamento nella sua prestazione, evidenziando che il danno lamentato dal datore di lavoro non era conseguenza dell'azione di esso ricorrente, ma delle violazioni fiscali commesse dall'imprenditore medesimo nella gestione dell'impresa. Il giudice del gravame, infine, ha ritenuto la sussistenza del requisito dimensionale dell'impresa per l'applicazione della tutela reale invocata dal dipendente licenziato.
Avverso questa decisione la società Elite ha proposto ricorso per cassazione, con tre motivi.
Il Dragonetti ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la società ricorrente denuncia, con riferimento all'art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 2105, 1175 e 1375 cod. civ., 1 e 3 legge 15 luglio 1966 n. 604, 18 legge 20 maggio 1970 n. 300, 115, 116 e 117 cod. proc. civ., 2697 cod. civ., nonché vizio di motivazione. Deduce che l'interpretazione restrittiva data dal Tribunale in ordine all'obbligo dl fedeltà del dipendente nei confronti del datore di lavoro, circoscritta agli interessi economici dell'impresa, contrasta con quella estensiva costantemente affermata dalla giurisprudenza. Addebita alla sentenza impugnata di non avere considerato che il fatto commesso dal lavoratore costituisce inadempimento dei doveri di lealtà e correttezza nei confronti del datore di lavoro, i quali sono correlati all'obbligo di fedeltà; di non avere tenuto conto della gravità della condotta del Dragonetti, che con preordinazione si era appropriato nell'arco di due anni di trentotto bolle di consegna, documenti di natura riservata, senza avere alcun interesse personale ed all'unico fine di esporre la società all'ispezione della Guardia di Finanza, con conseguente grave danno economico, e dell'incidenza del comportamento sul vincolo fiduciario del rapporto di lavoro. Sostiene la incongruenza del ragionamento seguito dal Tribunale, laddove, per affermare la liceità della condotta del dipendente, ha dovuto valorizzare la tesi sostenuta da costui, soltanto con le dichiarazioni rese dallo stesso rispondendo all'interrogatorio libero assunto in appello, in contrasto con le precedenti giustificazioni, ed ha ritenuto che il Dragonetti, con la denuncia alla Guardia di Finanza, potesse andare esente da responsabilità per l'assenta compartecipazione nella frode fiscale.
Con il secondo motivo la società ricorrente denuncia violazione dell'art. 437 cod. proc. civ., nullità dell'interrogatorio ed illegittimità della sentenza, violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 117 cod. proc. civ., dell'art. 2697 cod. civ., vizio di motivazione (ari. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.). Sostiene che l'interrogatorio è stato assunto dal Tribunale contro il divieto di nuove prove in appello, in assenza di un atto dispositivo che ne giustificasse l'indispensabilità e in violazione del principio del contraddittorio. Deduce l'errore in cui è incorsa la sentenza impugnata nel valutare le dichiarazioni rese dal lavoratore, che, modificando la precedente linea difensiva, costituivano nuove allegazioni, non consentite.
I primi due motivi, che per la connessione delle argomentazioni addotte vanno congiuntamente trattati, sono infondati.
E' pur vero che, come sottolinea il ricorrente richiamando la costante giurisprudenza di quèsta Corte, l'obbligo di fedeltà imposto al lavoratore dall'ari. 2105 cod. civ. non si esaurisce nei comportamenti omissivi elencati dalla norma, ma si sostanzia anche nell'obbligo di un leale comportamento del lavoratore nei confronti del datore di lavoro e deve essere collegato con le regole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., con la conseguenza che il prestatore di lavoro deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 cod. civ., ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell'impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto di lavoro (cfr. Cass. 16 maggio 1998 n. 4952, Cass. 3 novembre 1995 n. 11437).
Autorevole dottrina ha osservato che, in considerazione della natura dell'interesse protetto dalla norma in esame, individuato in quello oggettivo dell'impresa alla sua posizione di mercato e nei confronti delle imprese concorrenti, e della specifica formulazione della norma, l'obbligo del segreto aziendale imposto al lavoratore deve essere riferito soltanto alle notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione industriale, e non può essere esteso sino a comprendere nel divieto anche notizie inerenti agli aspetti amministrativi e commerciali della vita dell'impresa. E tale tesi è condivisibile, sia per il dato testuale della disposizione, che altrimenti non giustificherebbe la specificazione adottata, sia perché si tratta di aspetti amministrativi e commerciali, i quali possono avere una incidenza solo indiretta in relazione ai vantaggi che dalla loro conoscenza possono conseguire le imprese concorrenti operanti sul mercato, nel medesimo settore.
Si è altresì messo in luce come l'obbligo di fedeltà sancito dalla norma non possa essere configurato nel senso più ampio di fedele personale dedizione del lavoratore al perseguimento degli interessi dell'imprenditore, sì da imporre al primo l'obbligo di astenersi da qualsiasi comportamento che possa essere in contrasto con quegli interessi.
Ma, anche se le notizie concernenti l'amministrazione aziendale, e più in particolare quelle inerenti l'osservanza o meno delle disposizioni fiscali in tema di alienazione dei prodotti, in quanto hanno oggetto diverso dall'organizzazione e dai metodi produttivi dell'azienda, esulano dal divieto di divulgazione imposto dalla norma in esame, si deve verificare se un qualsiasi uso da parte del dipendente di tali notizie possa, laddove si ponga in contrasto con il diritto di riserbo che senza dubbio spetta all'imprenditore per le notizie riservate riguardanti la sua azienda, anche se non protette dal divieto di divulgazione di cui all'art. 2105 cod. civ., integrare o meno una violazione dei comportamenti di buona fede e correttezza, cui è tenuto il dipendente nell'esecuzione del contratto di lavoro.
A questo proposito sembra evidente che l'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 cod. civ., e quelli ad esso collegati dl correttezza e buona fede, devono essere funzionali soltanto in relazione ad una attività " lecita " dell'imprenditore, non potendosi di certo richiedere al lavoratore l'osservanza di detti obblighi, nell'ambito del dovere di collaborazione con l'imprenditore, anche quando quest'ultimo intenda perseguire interessi che non siano leciti, quale appunto quello dl evadere il fisco occultando le vendite delle merci prodotte.
Esattamente perciò il Tribunale ha escluso che il comportamento del Dragonetti costituisca un inadempimento ai suddetti obblighi nei confronti del datore di lavoro, ed il ricorrente non può utilmente dolersi che il giudice del merito non abbia proceduto ad un bilanciamento degli interessi coinvolti nel caso concreto. Il ricorrente richiama in proposito i principi elaborati da questa Corte con le sentenze 25 febbraio 1986 n. 1173 e 16 maggio 1998 n. 4952, in cui si è posta in evidenza la necessità, in considerazione della rilevanza degli interessi là contrapposti, di ricercare un bilanciamento fra quello individuale alla reputazione con l'altro, nell'ambito del diritto di critica, di non introdurre limitazioni alla formazione del pensiero costituzionalmente garantita, e si è quindi affermato che detto bilanciamento non legittima un esercizio del diritto di critica del tutto libero e del tutto svincolato dal doveroso rispetto della logica e delle fondamentali regole del vivere civile, e che non è consentito richiamarsi al diritto di critica per legittimare una condotta diretta, in modo ripetuto, a ledere il prestigio ed il decoro di una persona con ingiurie e diffamazioni sulla base di condotte aventi finalità diverse da quelle che si vorrebbero accreditare (cfr. in motivazione la sentenza citata n. 4952 del 1998). Tali principi non sono conferenti, in quanto nelle fattispecie esaminate dalle richiamate pronunce il raffronto è fra interessi di pari rilevanza, mentre qui a fronte di un diritto soggettivo pubblico di denuncia di un fatto penalmente rilevante, esercitato dal Dragonetti a salvaguardia di un interesse pubblico, quale è quello che ogni cittadino adempia al carico tributario cui è tenuto in ragione della propria capacità contributiva, interesse che è avvertito nell'opinione pubblica in un contesto in cui l'evasione fiscale è notoriamente elevata, almeno in alcune categorie di contribuenti, tanto che il combatterla rientra fra le linee programmatiche di ogni Governo della Repubblica - la ricorrente vuole contrapporre il diritto al riserbo dell'imprenditore in ordine alla gestione dell'impresa, per evitare le conseguenze dell'evasione fiscale commessa.
Il Tribunale ha pure evidenziato che il comportamento del Dragonetti era rivolto a tutelare la propria posizione lavorativa nei confronti del datore di lavoro per evitare che questi, occultando parte dei redditi d'impresa, potesse precostituirsi le condizioni per poi procedere ad una riduzione del personale. Questa argomentazione - che conforta ulteriormente la valutazione di legittimità, sotto diverso profilo, della rivelazione delle notizie riservate, in vista di una (all'epoca) futura tutela del posto di lavoro - è desunta dall'interrogatorio libero reso dal lavoyatore~nel corso del giudizio di appello, e la doglianza della ricorrente, la quale sostiene l'operatività della preclusione di cui all'art. 437, secondo comma, cod. proc. civ. anche per l'interrogatorio libero, è infondata: infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte (v. sentenze 4 maggio 1987 n. 4145, 24 maggio 1986 n. 3509, 15 aprile 1982 n. 2298, 29 maggio 1981 n. 3534), nella nuova disciplina del rito del lavoro, il giudice ben può disporre l'interrogatorio libero delle parti anche in secondo grado, ove lo ritenga, sia pure implicitamente, indispensabile, ricavandone elementi da valutarsi secondo il sue prudente apprezzamento. Né, del resto, la deduzione relativa alla difesa del proprio lavoro, introdotta dal ricorrente rispondendo all'interrogatorio e poi utilizzata dal giudice di appello come elemento sussidiario del proprio convincimento, costituisce una modificazione della causa petendi, che, nel caso di impugnazione del licenziamento con richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro, è costituita dall'inesistenza, in capo al datore di lavoro, del potere di determinare l'estinzione del rapporto, ed integra piuttosto un'allegazione difensiva, che ben può essere sviluppata per la prima volta nel giudizio di appello al fine di sollecitare il giudice nella verifica delle condizioni di legittimità del recesso (Cass. 27 giugno 1994 n. 6172).
Infondato è anche il rilievo della violazione del principio di diritto in base al quale, nell'ipotesi di sottrazione di documenti riservati aziendali, di cui il lavoratore abbia la disponibilità per ragioni inerenti al suo ufficio, ricorre la violazione del dovere di fedeltà, che può determinare la sussistenza degli estremi della giusta causa di licenziamento, posto che unico ed esclusivo titolare dei documenti è il datore di lavoro (Cass. 24 maggio 1986 n. 3156, citata dalla ricorrente), trattandosi qui, invece, secondo l'accertamento compiuto dalla sentenza impugnata, di fattispecie diversa, in quanto il lavoratore si era limitato a fotocopiare le bolle di accompagnamento delle merci, che, come è dato comprendere dalla sentenza impugnata, affidate al Dragonetti incaricato del trasporto delle merci vendute, per essere poi consegnate, unitamente alle merci, all'acquirente, erano oramai fuori della disponibilità dell'azienda venditrice che le aveva emesse.

I primi due motivi vanno perciò rigettati.

Con il terzo motivo, anche questo riconducibile all'art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 18 legge 20 maggio 1970 n. 300, 8 legge 15 luglio 1966 n. 604, come modificato dalla legge n. 108 del 1990, 2697 cod. civ., 115, 116 e 117 cod. proc. civ., vizio di motivazione. Assume che il giudice del gravame ha affermato, senza alcuna spiegazione, la sussistenza del requisito dimensionale dell'impresa ai fini della tutela reale richiesta, omettendo di considerare le prove documentali (risultanze del libro matricola) e testimoniali (deposizioni Di Natale e Soldano) acquisite sul punto.
Questo motivo è fondato. La sentenza si limita ad affermare apoditticamente che sussistevano i requisiti dimensionali d'impresa previsti dalla legge all'epoca dei fatti (anche perché l'allontanamento della lavoratrice Di Natale, risultante formalmente per un breve periodo, appare strumentale a eludere la tutela della legge). Orbene, oltre alla mancanza di qualsiasi spiegazione in ordine alla affermazione di una cessazione soltanto formale del rapporto di lavoro di quella dipendente e alla omessa valutazione della deposizione della medesima Di Natale, la quale aveva evidenziato che, alla data della cessazione del suo rapporto, in azienda erano presenti numero quindici dipendenti, si deve rilevare che, ai fini della valutazione della sussistenza o meno del requisito numerico richiesto dall'art. 35 legge n. 300 del 1970, in relazione alla c.d. tutela reale del posto dl lavoro, atteso che la norma fa riferimento ai lavoratori dipendenti e non semplicemente agli addetti o agli occupati, non possono essere considerati tra i dipendenti tutti coloro che prestino stabilmente la propria attività lavorativa per l'azienda, prescindendo dalla qualificazione del rapporto che ad essa li lega (cfr. Cass. lì dicembre 1997 n. 12548).
Cassata la sentenza in relazione al detto motivo, la causa va rimessa per il nuovo esame, in ordine alla sussistenza o meno del requisito dimensionale di cui innanzi, alla Corte di appello di Bari, che si atterrà- al principio di diritto affermato da Cass. il dicembre 1997 n. 12548 e provvederà anche alla regolamentazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta i primi due motivi di ricorso ed accoglie il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Bari.