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Delitto di falsità ideologica commessa da un medico.(art. 480 C.P.)

Commette il delitto di falsità ideologica di cui all'art. 480 cod. pen. il medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale che, nell'esercizio delle sue funzioni, rilascia ricette prescrivendo, attraverso un certificato non veridico, medicinali a pazienti sconosciuti e non visitati e a loro insaputa.

SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

n. 34814, Sez. V penale, del 13 giugno 2001, dep. 26 settembre 2001 - Pres. Foscarini; Rei. Sica; Imp. G.B.

RITENUTO IN FATTO

In data 13-7-1998, il Pretore di Lanciano dichiarava G.B. responsabile dei reati di cui agli artt. 110, 81 cpv. e 480 C.P., per avere rilasciato - mediante compilazione o mediante mera sottoscrizione delle relative ricette compilate da C.A. - prescrizioni mediche di determinati medicinali a soggetti che non ne avevano fatto richiesta, ai quali quei medicinali non servivano e che non erano neppure a conoscenza di quelle prescrizioni, nonché del reato di cui agli artt. 110, 81 cpv. e 640. 1 C.P., in quanto, con l'artifizio costituito dall'apposizione del bollino di esenzione dal pagamento apposto su ricette intestate ad altri soggetti, procurava a tutti le relative medicine.

L'imputato, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche e ritenuti i reati unificati dal vincolo della continuazione, veniva condannato alla pena di mesi otto di reclusione e lire 1.500.000 di multa, con i doppi benefici di legge (artt. 163 e 175 C.P.).

La Corte di Appello dell'Aquila, con la sentenza impugnata del 2 1-9-2000, ritenendo che non vi fossero prove sufficienti del concorso del B. nell'uso che veniva fatto delle ricette (con bollini di esenzione non pertinenti), ai sensi dell'art. 530 C.P.P., l'assolveva dal reato di truffa continuata, per non avere commesso il fatto, e rideterminava la pena per il reato di falso ideologico continuato, esclusa l'aggravante del nesso teleologico e, con le già concesse attenuanti generiche, lo condannava alla pena di mesi cinque di reclusione. Confermava nel resto.

Ricorre per cassazione il difensore dell'imputato, prospettando l'inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 480 C.P. (art. 606, lett. e, C.P.P.).

Secondo il ricorrente, l'assoluzione dai numerosi fatti di truffa, che erano stati commessi dal solo C., aveva fatto venir meno l'aggravante teleologica tra truffe e falsi, per cui la condanna per questi ultimi era sorretta da una motivazione illogica e contraddittoria.

Precisava, altresì, che le numerose prescrizioni erano state fatte non direttamente, ma tramite il C., vecchio medico mutualistico andato in pensione e del quale aveva preso il posto, per cui non conosceva né gli ammalati né le patologie e, quindi, aveva aderito alle richieste che gli venivano inoltrate, senza pensare che potesse formare dei falsi per fini illeciti.

Contestava, poi, la sussistenza del dolo, ritenuto dalla Corte nella sua genericità, per cui la mancanza di dolo specifico era rivelatrice dell'assenza anche del dolo generico.

In sostanza, non si comprendeva per quale motivo avrebbe dovuto formare ricette false, se non mirate al raggiungimento di altri scopi. Invece, il dolo generico richiesto dall'art. 480 C.P. si sostanziava nella coscienza e volontà della immutatio veritatis, mentre egli non sapeva che le ricette non erano state richieste, né erano destinate alle persone alle quali si riferivano.

CONSIDERATO IN DIRITTO

I motivi di ricorso sono manifestamente infondati.

L'art. 480 C.P. punisce la falsità ideologica commessa da P.U. in certificati (o autorizzazioni amministrative), esaurendosi la condotta delittuosa nella falsa attestazione di un fatto di cui l'atto è destinato a provare la verità, senza privilegiare in alcun modo la dichiarazione con l'affermazione che il fatto è avvenuto in presenza dell'interessato (come avviene, invece, nelle ipotesi di cui all'art. 479).

Quindi, dal punto di vista obiettivo, il reato si concretizza nella lesione della fede pubblica, mentre soggettivamente è sufficiente ad integrare il delitto, la semplice coscienza e volontà della difformità tra atto e realtà, in quanto ciò che rileva è il pericolo determinato dalla falsità, mentre non rilevano altre situazioni quali l'ignoranza o l'eventuale errore.

Pertanto, il certificato con il quale il medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale pubblico prescrive un farmaco all'assistito è atto destinato a provare che è stata effettuata la visita dello stesso e, contestualmente, attesta che il paziente ne ha necessità ed ha diritto a fruire del servizio farmaceutico, consentendone l'esercizio.

Pertanto, commette il reato di cui all'art. 430 C.P. il medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale che, nell'esercizio delle sue funzioni, rilascia ricette, prescrivendo - nella specie, a pazienti sconosciuti e non visitati e a loro insaputa - medicinali, attraverso un certificato non veridico.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di lire 1.000.000 a favore della cassa delle ammende.

Pubblicata su "Il Mondo Giudiziario" del 3 dicembre 2001