Aggiungi Guidaldiritto.it ai preferiti

Fai di Guida al Diritto la tua pagina predefinita cliccando qui.

Commette il delitto di estorsione l'imprenditore che, con minacce, costringe un lavoratore ad accettare una retribuzione inferiore alle ore effettivamente lavorate. Suprema Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, sentenza n.5426/2002.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

SENTENZASVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il G.i.P.

presso il Tribunale di Catanzaro, con ordinanza in data 26 marzo 2001, applicava nei confronti di Rossi Mario, la misura cautelare degli arresti domiciliari, in quanto indagato del delitto di estorsione continuata, nell'ambito di un procedimento che vede indagate 14 persone, che, nella loro qualità di imprenditori, amministratori, capi squadra e coordinatori di aziende operanti nel settore delle imprese di pulizia avrebbero posto in essere un sistema estorsivo generalizzato nei confronti dei dipendenti delle aziende stesse, che sarebbero stati costretti ad accettare trattamenti retributivi deteriori e non corrispondenti alle prestazioni effettuate, in quanto non avrebbero avuto altre possibilità lavorative proprio in considerazione della diffusione di tali comportamenti estorsivi nel contesto delle attività delle imprese di pulizia.

I reati contestati nell'ambito del suddetto procedimento sono quelli di associazione per delinquere ed estorsione, mentre allo Rossi è contestato unicamente il reato di estorsione nella sua qualità di gestore di fatto della impresa Pulizie Jonica.

Il Tribunale osservava che poteva configurarsi il reato di estorsione soltanto nei confronti di un dipendente dell'impresa di pulizie, che in effetti aveva ricevuto minacce esplicite, mentre nei confronti degli altri dipendenti non si evidenziava la ricorrenza della minaccia, in quanto questi avevano dichiarato di essersi accordati verbalmente con la titolare dell'azienda nel senso di percepire una retribuzione non parametrata alle effettive ore lavorative.Ciò precisato, il Tribunale non riteneva sussistenti le esigenze cautelari inerenti alla acquisizione della prova essendo stati acquisiti i documenti societari e non emergendo altri elementi di pericolo; ne riteneva sussistente il pericolo della reiterazione criminosa atteso che la commissione del reato risale al 1997 e che lo Rossi, sostanzialmente incensurato, nel frattempo si è astenuto dal commettere azioni criminose.

Propone ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro, il quale deduce la contraddittorietà dell'argomentare della ordinanza impugnata che ritiene configurabile il reato di estorsione nei casi in cui le minacce nei confronti del lavoratore siano esplicite, in considerazione delle condizioni di soggezione morale e sociale del lavoratore stesso, mentre poi esclude la configurabilità dello stesso reato nei casi in cui vi sia stato un accordo contrattuale.Infatti, secondo il P.M. ricorrente non potrebbe essere valutato come accordo contrattuale il comportamento del lavoratore che è indotto ad accettare le condizioni impostegli dal datore di lavoro per la consapevolezza della posizione di supremazia di costui e delle conseguenze inevitabili della mancata accettazione delle condizioni stesse.Il P.M., inoltre, deduce assoluta carenza motivazionale con riferimento alla asserita mancanza delle esigenze cautelari, in quanto il cardine dell'intera indagine sarebbe costituita dalla prova orale e da ciò discenderebbe la necessità di tutelare le fonti di prova nei confronti di concrete azioni volte a condizionare l'agire collaborativo dei dipendenti dell'impresa.Per quanto concerne le esigenze di cautela sociale, il P.M. ricorrente afferma che lo Rossi avrebbe posto in essere condotte gravi e reiterate nel tempo in danno di moltissimi dipendenti, segno di un agire per nulla occasionale ma stabile e organizzato.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I motivi di ricorso sono fondati.Il collegio osserva che è giurisprudenza costante di questa Suprema Corte che, in tema di estorsione, ai fini della configurabilità del reato sono indifferenti la forma o il modo della minaccia, potendo questa essere manifesta o implicita, palese o larvata, diretta o indiretta, reale o figurata, orale o scritta, determina o indeterminata, purchè comunque idonea, in relazione alle circostanze concrete, a incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo.

La connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità ad integrare l'elemento strutturale del delitto di estorsione devono essere valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali l'ingiustizia della pretesa, la personalità sopraffattrice dell'agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, le particolari condizioni soggettive della vittima, vista come persona di normale impressionabilità, a nulla rilevando che si verifichi un'effettiva intimidazione del soggetto passivo (Sez. I, 10/1- 21/5/1980, n. 6416, Del Cosimo, riv. 145382; Sez. I, 22/1- 21/5/1980, n. 6424, Cassaro, riv. 145387; Sez. II, 1/10/1982, n. 969, Borin, riv. 151919; Sez. II, 8/6- 12/10/1983, n. 8224, Paraino, riv. 160268; Sez. Vi, 25/2- 13/5/1998, n. 5569, Pera, riv. 210526; Sez. Vi, 26/1- 16/3/1999, n. 3298, Savian, riv. 212945).

Nel caso di specie, pertanto, la circostanza che vi sia stato un accordo contrattuale tra il datore di lavoro e il lavoratore non esclude, di per se, la sussistenza degli estremi del reato di estorsione, in quanto uno strumento giuridico teoricamente legittimo può essere usato per scopi diversi da quelli per cui è stato apprestato e può integrare, al di la dell'apparenza esteriore, una minaccia ingiusta, perché ingiusto è il fine a cui esso tende, idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, particolarmente interessato ad assicurarsi una possibilità lavorativa che sarebbe altrimenti esclusa.In altri termini, il giudice di merito deve valutare se la condotta dell'indagato sia stata posta in essere nella sola prospettiva di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno, attraverso un percorso comportamentale che, al di la dell'aspetto formale dell'accordo contrattuale, poneva certamente la vittima in uno stato di soggezione, ravvisabile nell'alternativa di accedere all'ingiusta richiesta dell'agente o di subire un più grave pregiudizio, anche se non esplicitamente prospettato, ravvisabile nella specie nell'assenza di altre possibilità occupazionali, escluse dalle generali circostanze ambientali e/o delle specifiche caratteristiche assunte (anche per l'eventuale configurabilità di un'associazione per delinquere) da una speciale settore di impiego della manodopera.

Alla luce di tali principi, la semplice dichiarazione dei dipendenti dell'impresa Pulizie Jonica di essersi accordati verbalmente con la titolare dell'azienda nel senso di percepire una retribuzione non parametrata alle effettive ore lavorative non è sufficiente di per se, in assenza di una complessiva valutazione di tutti gli elementi sopra evidenziati, ad escludere il reato di estorsione e, quindi, risulta giuridicamente viziata la motivazione sul punto della ordinanza impugnata.

Tale vizio incide sulla valutazione delle esigenze cautelari, in quanto, solo alla luce di un a corretta decisione in merito alla configurabilità dei reati contestati sarà possibile effettuare la valutazione delle suddette esigenze, anche in considerazione della necessità evidenziata dal P.M. ricorrente di tutelare le dichiarazioni testimoniali a supporto dei reati eventualmente configurabili in applicazione dei principi di diritti come sopra formulati.

L'ordinanza deve, dunque, essere annullata con rinvio al Tribunale di Catanzaro per nuova decisione che si uniformi alla presente sentenza per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa.

PQM

Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuova decisione al Tribunale di Catanzaro. Roma, 13 novembre 2001. Depositata in Cancelleria l'11 febbraio 2002.
Inviata da www.edizioniweb.com