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SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE n. 6778, Sez. VI penale, del 22 marzo 2000, dep. 7 giugno 2000 - Pres. Pisanti; Rel. Ambrosini; P.M. De Sandro; Imp. Minicapilli e D'Alessandro.

Il silenzio della P.A. può configurare omissione di atti d'ufficio Se un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio omette ingiustificatamente di dare una risposta dovuta commette il reato di Omissione di atti d'ufficio

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d'appello di Messina con sentenza 26-4-1999, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa città che condannava Minicapilli Pietro e D'Alessandro Salvatore alla pena di lire 1.000.000 di multa ciascuno per il reato di cui all'art. 328, c. 2, c.p., applicava ad entrambi gli imputati la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici per il periodo di un anno.
Gli imputati, amministratori straordinari della USL-41 succedutisi nel tempo, erano stati dichiarati responsabili del reato loro ascritto per avere omesso di provvedere e di rispondere alla dott.ssa Caputo che, essendosi dimessa dall'incarico di assistente medico presso l'ospedale Papardo di Messina, aveva richiesto e sollecitato per iscritto la propria riassunzione. Essi si erano giustificati assumendo di non avere alcun obbligo di rispondere all'istanza.
Ricorre la difesa del Minicapilli per violazione di legge e mancanza di motivazione in quanto: a) la norma richiede la duplice condotta del mancato compimento da parte della P.A. dell'atto dovuto e della mancata esposizione delle ragioni del ritardo; b) non vi era prova che la richiesta fosse pervenuta a conoscenza dell'imputato; c) non vi era prova che la Caputo non fosse stata informata della difficoltà di accogliere la sua domanda a causa della mole di lavoro dell'ufficio e della complessità della pratica.
Ricorre altresì la difesa del D'Alessandro per violazione di legge e mancanza di motivazione:
a) avendo il giudice d'appello ignorato che l'ipotesi di riassunzione della Caputo era venuta meno con l'assunzione nel posto da lei lasciato vacante della dott.ssa Scimone, seconda nella graduatoria del concorso; b) avendo il giudice d'appello disatteso le ragioni difensive in punto elemento soggettivo del reato.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Le difese contestano entrambe che l'atto richiesto dalla dott.ssa Caputo, ossia la riammissione in servizio quale assistente medico presso l'ospedale Papardo di Messina dopo le volontarie dimissioni, fosse atto dovuto da parte dell'amministrazione e, conseguentemente, che sussistesse l'obbligo di rispondere alla richiedente.
Al proposito invoca in particolare il disposto dell'art. 59 D.P.R. 20-12-1979, n. 761, rubricato riammissione in servizio, laddove stabilisce che " il dipendente cessato dall'impiego per dimissioni... può essere riammesso in servizio con provvedimento motivato " e subordina la riammissione stessa a vari requisiti, tra cui " la vacanza del posto ". La vacanza non si sarebbe verificata in quanto il posto reso vacante dalle dimissioni della dott.ssa Caputo spettava di diritto a chi la seguiva immediatamente nella graduatoria (la dott.ssa Sciamone), a norma dell'art.9 L. 20-05-1985, n. 207.
La situazione normativa, se pur vincolante l'amministrazione della USL in linea astratta, non è tale da escludere l'obbligo dell'amministrazione stessa di dare risposta alla richiesta di riammissione in servizio e di esporre le ragioni dell'eventuale ritardo. Infatti, sulla base di una risposta negativa (quale, secondo l'amministrazione, avrebbe dovuto essere la risposta stessa), l'interessata ben poteva agire in via amministrativa o in via giudiziaria per far valere le sue eventuali ragioni alla riammissione.
Non appare logico, come pretende la difesa del Minicapilli, affermare che, non essendo l'atto (la riammissione in servizio) dovuto, non occorreva neppure l'esposizione delle ragioni del ritardo, non essendo l'amministrazione tenuta a rispondere a tutte le richieste, anche se " strane o infondate ". Nella specie non si è in presenza di una richiesta incongrua, posto che la riammissione in servizio del dipendente che si è dimesso è espressamente prevista dalla legge a determinate condizioni e che in ordine alla sussistenza di tali condizioni ben può sorgere controversia. In ogni caso non si può confondere l'atto discrezionale della pubblica amministrazione con l'atto dovuto. Nel caso di specie non vi era alcuna discrezionalità nel porre in essere l'atto, in quanto un atto era comunque dovuto, nel senso che o veniva disposta la riammissione in servizio, o veniva negata tale riammissione.
Il diritto di ottenere il compimento dell'atto (sia pure la reiezione dell'istanza di riammissione) e il diritto di conoscere le ragioni dell'eventuale ritardo appaiono in questo quadro di tutta evidenza e, conseguentemente, la condotta dei pubblici ufficiali (amministratori straordinari della USL, succedutisi nel tempo, cui competeva la risposta) appare illegittima.
Né valgono ragioni di fatto quali eventuali difficoltà dovute alla mole di lavoro dell'ufficio o alla complessità della pratica, perché in entrambi i casi le ragioni del ritardo potevano (quindi dovevano) essere esplicitate attraverso la risposta. D'altra parte, proprio l'invocata complessità della pratica smentisce la linearità del primo assunto, secondo cui la richiedente non aveva in assoluto diritto alla riammissione in servizio.
Tali ragioni non impingono sull'elemento soggettivo del reato, da un lato perché la conoscenza della richiesta rivolta all'ente di cui si è responsabili è presunta, salvo prova contraria da fornirsi dal soggetto che invoca la propria ignoranza incolpevole; dall'altro lato perché la pretesa personale convinzione di non dover dare risposta non scusa, trattandosi di violazione del precetto penale.
Ed infine, che l'interessata fosse stata altrimenti posta a conoscenza delle difficoltà dell'amministrazione a fornire risposta alla sua richiesta, è mera illazione, non suffragata da concreti elementi probatori, e comunque irrilevante rispetto alla previsione normativa.
I ricorsi devono pertanto essere rigettati con la conseguente condanna in solido dei ricorrenti a pagare le spese processuali.
P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido a pagare le spese processuali.