Storia di Dugenta Cenni Il territorio comprende la media valle del Volturno,
compresa fra il Matese a nord, il monte Maggiore ad ovest, le colline
tifatine a sud, e il Taburno ad est, e comprende una parte della valle
Caudina.
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Una nota storica è opportuna per riscoprire le comuni radici
dei paesi residenti la valle. Nella storia recente dell'uomo, il
territorio appare quasi totalmente sannita. La successiva conquista romana
delle roccaforti di Allifae (Alife), Kubulteria (Alvignano), Teleria
(Telese), Saticula (Sant’Agata de’ Goti) e del territorio caudino,
durò fino al crollo dell'impero romano. Il territorio bagnato dal
Volturno e dal Calore, rimase abbastanza compatto nelle circoscrizioni
amministrative di Goti e Longobardi. Ma l'unificazione del
territorio fu opera dei normanni. La conquista del principato di Capua, da
parte di Riccardo Quarrel, e la fine del principato beneventano,
portarono alla unificazione delle contee di Alife, Caiazzo, Telese e
Sant'Agata de' Goti col Taburno e la Valle Caudina, nella
persona dello stesso signore feudale, il conte Rainulfo Quarrel
(1066-1087). Le grandi figure del figlio, conte Roberto (1087-1115
colui che fece edificare anche il castello di Sant'Agata de' Goti e,
contemporaneamente, ad esso anche la Chiesa di San Menna )
e soprattutto di Rainulfo di Alife (1115-39) segnarono il periodo
d'oro dello stato normanno, detto di Airola, dal nome dell'importante
castello prossimo alla pontificia Benevento. Cronache e documenti di
mezza Italia meridionale ci consentono di tracciare un quadro abbastanza
confortante delle condizioni di vita generale, complice lo sviluppo del
commercio, l'edificazione di nuovi edifici, rocche e castelli, chiese o più
grandi cattedrali, in tutte e quattro le città. Un interessante
documento, memoratorium, scritto in Sant'Agata, nel maggio del
1122, e conservato nell'Archivio capitolare di Caiazzo, coinvolge le
quattro contee, e individui di etnia normanna e longobarda. Nella riunione
richiesta da Roberto presbitero abate della chiesa di S.Nicola
intra civitatem Kaiatie, alla presenza del giudice Giovanni (in
documenti precedenti è detto caiatiano atque allifano iudex) fanno
dichiarazione Guglielmo del fu Stefano, ex genere normannorum,
e la madre Maria filia quondam Alfani comitis ex civitate Telesina.
Essi dichiarano di possedere terre nel comitato telesino per concessione
della Chiesa telesina, e per acquisto da Riccardo figlio del fu Enrico
di Bellomonte, barone di una rocca in tenimento di Caiazzo. Scrive Petrus
clericus et notarius prefate civitatis Sancte Agathe, sottoscrivono Iohannes
iudex e Alexius clericus. Altri documenti, come
l'importante donazione del conte Rainulfo II sono redatti in questo
periodo a Sant'Agata de'Goti, pur riguardando altre città dello stato.La
guerra contro Ruggero II di Sicilia (1132-39) fu combattuta con
eroismo da parte delle popolazioni. L'eco della magnifica vittoria in
battaglia campale a Nocera nel luglio 1132, da parte di Rainulfo
e Roberto di Capua, fu mondiale. Ne parlano, in una lettera, Enrico
vescovo guerriero di Sant'Agata, e nella sua biografia di Ruggero II,
il grande intellettuale della nostra terra, Alessandro abate del
cenobio di San Salvatore Telesino, autore pure della Historia
Allifana nella quale racconta il contemporaneo trasporto delle
reliquie di San Sisto dal deposito sul Vaticano ad Alife. Nonostante la conquista
di rocche e cittadelle, la precipitosa caduta degli alleati pugliesi
contribuì alla resa di Rainulfo, che ottenne, tuttavia, dal cognato re
Ruggero, la conferma dello stato e la restituzione della contessa Matilde
e del primogenito Roberto. Dopo nuovi venti di rivolta, nel 1135, lasciate
indifese dall'esercito comitale, le rocche di Caiazzo e Sant'Agata
cedettero dopo assedio, mentre una dopo l'altra furono occupate Alife
e la rocca di Rupecanina, Telese, la rocca di Tocco Caudio e così
tutti i borghi e castelli. La riconquista, nel
1137, di Rainulfo al seguito dell'esercito imperiale, la sua investitura
nel ducato di Puglia e il governo di Riccardo di Rupecanina,
durarono in tutto pochi mesi. Gli incendi di Alife
e Telese, nel 1138, le nuove occupazioni di Caiazzo e S.Agata,
la fine a Troia di Rainulfo, che preparava la liberazione delle
"sue" città, e infine, la sconfitta a Galluccio di Riccardo,
riportarono tutto il territorio nelle mani del re. Le successive discese
degli esuli, guidate dall'eroico Andrea di Rupecanina, guerriero
dei due imperi, non riunificarono che per brevi periodi le città. Solo
alla fine del periodo normanno, Giovanni di Rupecanina, l'ultimo
discendente del primo Rainulfo, riuscì a comprendere in un
ministato il territorio da Sant'Angelo d'Alife al Taburno, ma senza
Telese. È chiaro che
l'unificazione del territorio era finita con la morte di Rainulfo. Le più grandi città e i più piccoli centri passarono di
mano ai vari signori feudali Svevi, Angioini... che si alternarono
nel regno napoletano fino all'unificazione nazionale. Delle contee normanne
non restavano che le quattro Diocesi (Alife, Caiazzo, Cerreto Sannita-
Telese e Sant’Agata dei Goti). Credo
sia opportuno precisare, almeno per chi non conosce Dugenta, dov’è
situato questo paese.
Dugenta
si trova nella valle dell’ Isclero, un tempo lago vulcanico, e zona
altamente sismica per cui, più volte, fu distrutta da terremoti. Sono
rimasti memorabili i terremoti del’11 ottobre del 1125, del gennaio
1349, del 9 settembre 1456, del 5 novembre 1468, del 5 giugno 1688 e del
14 marzo 1702. Questi due ultimi la distrussero completamente. Altro sisma
di discreta entità ci fu nel 1930. L'ultimo il 23 novembre 1980, lambì
il territorio Comunale, distruggendo, di contro, i territori dell'Irpinia
e della Basilicata con migliaia di morti. Il territorio beneventano
sud-occidentale, che comprende la Valle
Caudina, la Valle dell'Isclero e quella del basso Calore, presenta
emergenze archeologiche di particolare valenza che si concentrano
intorno alle antiche città romane di "Caudium", "Saticula" e
"Telesia". La ricerca che la Soprintendenza Archeologica di Salerno,
Avellino, Benevento conduce da circa trent'anni in tale complesso,
ha permesso di ricostruire la storia di tali centri, originati da
realtà insediative precedenti, in un percorso a ritroso nel tempo
nel quale è emerso; in una variegata e ricca massa di dati,
l'avvicendamento delle fasi culturali che caratterizzano l'Italia
preromana: le frequentazioni preistoriche, la cultura dell'Età del
Ferro, la cultura sannitica. I
confini comunali di Dugenta partono dal Volturno ad Ovest, scendendo verso sud si
arriva a Terranzano,seguendo l’Isclero controcorrente si arriva
al ponte, detto dei “quaqueri”, che passa sopra l’Isclero in
località Biferchia e tira su fino a lambire Presta (Plistiam
di Tito Livio) fino a giungere la sommità della collina chiamata Torretta,
scendendo , poi, per la Piana del mondo, o Scassati, e poi per Monte
Leone, o Bosco Cupo, Masseria Vallona, all’Ischitella,
al Piano e Fienile, Adocchia, Conca, Fossi, Campo e sale
fino a sopra i Guarini (o Tore di San Nicola), per Orcoli
e per il primo Torello, per la strada Nazionale statale
n.265 e scende nuovamente fino al Volturno. Il fiume Isclero nasce in tre rami: rio Varco, rio Cola e rio Querci, che hanno origine fra la Cima Recuorvo (m 968) e il monte Pizzone (m 756), in Provincia di Avellino. Presso Airola riceve a destra il torrente Tesa lungo 10 km che scende dal monte Cesco di Luccaro (m 765) e bagna Montesarchio. Tutti i torrenti attraversano le Valli Caudine. L'Isclero si tuffa nel Volturno presso Limatola. In
altri tempi, prima delle guerre d'Indipendenza Italiana, Dugenta aveva una
vera e propria autonomia Comunale, in seguito fu aggregata al Comune di Limatola
per poi essere unita a Melizzano, il primo maggio del 1861, per
facilitare questo paese ad un maggior sviluppo. E' solo nel 1956 che
Dugenta guadagna nuovamente la sua autonomia Comunale. La
divisione dal Comune di Melizzano comportò anche la spartizione della
giurisdizione ecclesiastica; infatti, mentre Dugenta dipende dalla Diocesi
di Sant’ Agata de’ Goti, Melizzano dipende da Telese-Cerreto Sannita. Come
giurisdizione giudiziaria dipende dal mandamento di Solopaca. Tempo
fa la Valle dell'Isclero apparteneva alla provincia Terra del lavoro
di Caserta, mentre ora da Dugenta incomincia la Provincia di Benevento. Il territorio comunale è situato all’imbocco della valle
dell’Isclero,provenendo dalla parte di Valle di Maddaloni.,
percorrendo la statale 265, si arriva alla contrada di Cantinelle,
appartenente al Comune di Sant’Agata de’ Goti, attraversando il Ponte
dei Quaqqueri ha inizio
il territorio Comunale. Dopo aver sorpassato il dosso in località Campellone, ci
si trova di fronte alle prime case; appena oltrepassatele, in prossimità
del ruscello San
Giorgio, sulla sinistra, su di un poggio, si
notano le rovine del castello Angioino, franato per l'incuria e scarsa
manutenzione a febbraio 1980.
Il castello Angioìno, lato sud, come era prima che franasse all'inizio degli anni 80.
...e come si presenta oggi dopo.
Parecchi storici sostengono che qui era sita Orbitania,
conquistata da Fabio nel 538 a. C.; secondo alcuni pare che fosse l'antica
Trebula Sannitica, secondo altri la Trebula menzionata fosse
l'attuale Treglia di Formicola, in provincia di Caserta. Ma se così
fosse come si spiegherebbero le parole di Tito Livio il quale
scriveva: “Marcellus per agrum saticolanum (Sant’Agata dei
Goti) per Plistiam (Presta, contrada di S.Agata) Trebulanunque super Suessulam per Montes Nolem, pervenit,
Volturno traiecto”. Fino ad un certo
punto apprezzatissimi storici e studiosi d’antichità, non escluso il
tedesco Monsen, il quale esaminò questa zona etnica della stirpe
italica presente nella Campania Felice con tutte le altre contrade
adiacenti sostennero che Dugenta, questo antichissimo castello Angioino
era l’antica Trebula Sannitica e l’Agro Trebulano tutta
la pianura Dugentese per dove passò Marcello per recarsi da Canosa
di Puglia a Nola. Così trovano esatta spiegazione le parole Liviane,
difatti Dugenta di oggi, Agrum Trebulanum antiquum, o Trebula, è
situata in una vastissima pianura a quasi Oriente, tra Sant’Agata dei
Goti di oggi, o Agrum Saticolam, o Saticola, la contrada Presta
di oggi è la Plistiam antiqua, ad occidente tiene il Volturno e
poi la regione montuosa di Caiazzo e del Matese. Anzi
Dugenta, secondo l’opinione dell’illustre archeologo Momsen
segna la delimitazione di confine con la Campania con il vecchio Sannio
con il quale il Sannio ebbe rapporti di civiltà, di dominio, distinti da
quelli Romani. Perciò si può congetturare che Trebula Sannitica sia
appunto Dugenta di oggi. Sembra, però, che le parole di Tito Livio non
lasciano dubbi in merito al loco. Infatti, Tito Livio è fra gli
storici il primo che più diffusamente parla di queste contrade nei suoi
libri delle Storie Romane, dove egli fa passare per la via Appia i
grandi Romani, Consoli, Proconsoli, Imperatori, i quali vinti e vincitori
calpestarono la polvere di questa Regina delle vie del mondo antico,
passando per queste contrade, che allora forse non erano meno belle
di oggi. Ed ecco tanti pensieri si affollano alla mente curiosa di
sapere la verità ed in una nebbia di tempi lontani, lontani appaiono ora,
sul nostro suolo le ombre dei prodi Sanniti, di un Quinto Fabio
Massimo, d’un Papirio Cursore, di un Decio Mure,
d’un Sempronio Cracco, di un Marcello, di un Annibale
(accampatosi con il suo esercito presso il ponte sul Volturno, all’estremità
ovest della Valle dell’Isclero, in località Piana di Monte Verna, un
tempo Piana di Caiazzo, nell’attesa di sottomettere Roma, dando vita ai
famosi Ozi di Capua), e poi di Augusto, di Orazio, di
un Virgilio, i quali ultimi due nei loro poemi cantarono pure i vini
(famoso il Falerno tanto caro ai Romani) e le biade delle nostre
contrade, di Nerone scortato dalle Guardia Pretoriane , e
dei cavalieri germanici, coronato di alloro e di un Traiano
trionfatore, reduce dalle sue grandi imprese, per Benevento tornando a
Roma per questo Agro Dugentese. E poi più appresso i Barbari,
Totila, Narsete, Longobardi, Normanni, Goti, Saraceni. Pontefici, Onorio
II, Pasquale II, Gregorio VII, Innocenzo III, gli Imperatori Federico
d’Aragona, i D’Angiò, Manfredi, il biondo Corradino di
Svevia per questa via imperiale, attraversando questo paese, fino agli
ultimi combattimenti delle guerre dell’Indipendenza italiana e scomparsa
del Regno di Napoli. Scorcio del castello Angioìno visto da piazza castello L’unificazione dell’Italia comportò anche il sopraggiungere
del fenomeno sociale più diffuso della seconda metà del 19° secolo: il brigantaggio
nell’Italia meridionale. Tale fenomeno politico-sociale diffuso nelle campagne del
Mezzogiorno all'indomani dell'Unità d'Italia, associò le forme
tradizionali del ribellismo contadino a una violenta protesta contro lo
stato italiano, appena costituito, favorita dall'appoggio dei Borboni
e del governo pontificio. Il brigantaggio mise radici sulle condizioni
materiali e morali in cui vivevano le popolazioni del Meridione ed esplose
contro lo stato unitario, che aveva imposto misure amministrative e
fiscali considerate esose e punitive. La dissoluzione dell'esercito borbonico, che reclutava truppe tra
i contadini poveri, l'abolizione dei vantaggi dell'ordinamento feudale per
i contadini, l'introduzione della leva obbligatoria furono alcune delle
ragioni che scatenarono il brigantaggio. Le bande di briganti colpirono con attacchi e imboscate i soldati
e le forze di polizia, assassinando chi si era espresso a favore dello
stato italiano e commettendo atti di brutale violenza. La risposta del
governo fu prevalentemente repressiva: fu inviato un ingente corpo di
spedizione al comando del generale Enrico Cialdini e quindi del
generale Alfonso La Marmora, e furono emanate leggi eccezionali
(legge Pica del 1863) sotto la giurisdizione dei tribunali militari.
Vennero comminate oltre 7000 condanne a morte e uccisi più di 5000
banditi; diversi paesi che avevano solidarizzato con i briganti furono
incendiati. Nella Provincia di Benevento fu abbastanza folta la schiera di
briganti; qualcuno afferma che i primi nacquero proprio sulle montagne del Sannio. Rimembranze
gloriose, che abbracciano oltre 30 secoli di storia dei nostri progenitori
Sanniti; tempi eroici e gloriosi ed anche tempi miserabili, ripieni
di disordini, di devastazioni, d’eccidio,
di guerre, di peste, di terremoti. E'
comunque indiscutibile la sua antichità. Il nome Dugenta ha remote
origini, giacché si trova in un diploma con la data del 833, di Sicardo,
Principe di Benevento, in favore del celebre monastero di S. Vincenzo
al Volturno, con le parole....ab latere, via antiqua, quae venit de
Ducenta......la quale conduce da Roma a Benevento. Certo
è che di Dugenta nessuna notizia si trova nel Catalogo dei Feudi,
appartenenti ai Baroni nell’epoca Normanna, per quanto alcuni storici la
facessero Città Baronale Normanna, poi rasa al suolo da un orribile
terremoto, per cui venne meno la sua grandezza. La prima notizia, che ne
ha, risulta dalla donazione fatta da Carlo D’Angiò a Guglielmo
di Belmonte, in cui si comincia a chiamare Casale e
viene valutato poco più di “once 42”. Nei frammenti rimasti
del cedolario degli anni 1268-1269, il primo che sia stato fatto dagli Angioini,
Dugenta è numerata con sole 23 famiglie tassate con “once 5”
ciascuna. Nel successivo cedolario del 9 ottobre 1320, formato sotto il
Governo del Re Roberto è segnato “Ducenta Once 6 - Tari 6-
Grani 12”, sempre nel giustizierato di “Terra del lavoro”.
Quando l’unica figlia di Guglielmo di Belmonte, Conte di
Caserta, non volle lasciare la dimora di Francia e bisognò provvedere
alla vacanza della Contea, è indubitato che Dugenta fu data a Guglielmo
di Vandemonte e più precisamente a Addo De Souliac,(”dominus
Casertae et Casalis Ducentae”) ed in seguito a Pietro Braherio
nel 1291. Ancora venne distinto il feudo di Dugenta dal castello dello
stesso nome, il quale difendendo il passo della valle, anche dal lato di
Caiazzo e di Alife, ebbe sempre un’importanza militare di prim’ordine
e grande reputazione strategica. Per tale ragione la concessione del
castello si trova fatta nei tempi degli Angioini ad un De Vasis,
a Ludovico De Robertis, a Roberto D’Herville, a Filippo
De Villeclube, perché fu sistema degli Angioini della prima stirpe
affidare al più forte e capace i luoghi più interessanti e i castelli
del Regno più importanti ed a Capitani Francesi. In seguito ai tempi di Bonifacio
VIII, il fratello di questi, un certo Ranfredo Gaetano, ebbe
Caserta “Cum Turri castri Ducentae” il quale la donò al
fratello Bonifacio. In seguito il paese passò ai Siginolfo di
Telese, ai Lharat e poi ad altri possessori della Contea di
Caserta finché nel 1511 lo comprò Andrea di Capua, Duca di
Termoli e nel 1563 Annibale Monsorio li portò in dote nel 1567 al marchese
di Treviso di Casa Loffredo, il quale nel 1589 lo vendette
insieme al Feudo di Orcola e Torello a Paolo Cossa,
Duca di Sant’Agata de’ Goti. Al tempo dell’abolizione del dominio
feudale si trovò investita del titolo di Marchese di Dugenta la nobile
famiglia Corsi di Firenze. E qui si deve notare che i Folgora,
Marchesi di Dugenta, parenti della famiglia patrizia dei marchesi Pacca
di Benevento, hanno il loro titolo sulla Ducenta d’Aversa, per
l’ acquisto fatto fin dal 1608 e non su questa Dugenta Telesina,
come fino ad un certo punto si era creduto. E’
comunque opinione degli storici che nel castello di Dugenta si siano
incontrati il Re Ruggiero con il Conte Rainolfo, aspri ed
accaniti combattimenti vi furono ai tempi di Tancredi verso la fine
del secolo XII e poi nel 1439, allorquando il celebre condottiero Giacomo
Caldora, combattente per Renato d’Angiò, ne voleva forzare
il passo, contrastato da Alfonso d’Aragona in persona, il quale
sconfisse pienamente il nemico. Non
vi è stata inoltre, nei tempi posteriori, dimostrazione, armata o azione
guerresca con l’obiettivo contro la Campania, che non avesse fatto punto
d’appoggio su Dugenta per mantenere integre le posizioni e le
comunicazioni verso le Valli Telesine-Caudine-Beneventane. In
questo castello fu tenuto prigioniero il Duca di Guisa nel 16489,
quando fuggiva nella non riuscita impresa di Napoli. Ancora Carlo III
di Borbone, nell’aprile del 1734, passò per Dugenta con il suo
esercito di Spagnoli, Valloni, Francesi prima di
recarsi a Maddaloni , e di là a Napoli, nella conquista che poi
fece. Non
si può terminare senza dare accenno alle contrade di Orcola,Ortolae
Torello, che si trovano nel territorio comunale. Il paese con il nome
di Ortola (o Ortella) faceva parte della Contea di Caserta,
quale feudo, diviso nei tempi dei Normanni, ed era posseduto per
una metà da Umfrido, figlio di Simone, e per l’ altra metà
da Riccardo di Bari. Difatti si legge nel catalogo dei feudi “967
Umfridus filius Simonis, tenet de praedicto comite Roberto medietatem
Ortellae quod est feudum unius militis - 968 - Riccardus de barolo, sicut
ipse dixit, tenet de eodem comite medietatem Ortellae quod est feudum
unius militis” nel cedolario del 1320 è messo dopo Valle di
Maddaloni e Dugenta; Ortula vel Orcula “once 6- tari 29 -
grani 12”. Torello
è anche adesso il nome di una località prossima al ponte sul Calore,
tra Dugenta e Amorosi, quello che prima si chiamava Ponte
Iacobelli, ora posseduto per metà dalle Ferrovie dello Stato e per
l’altra dalla provincia di Benevento. Nessun’altra
notizia si trova di questo ex feudo nel catalogo dei Baroni Normanni.
Compare unicamente nel ricordato cedolario del 1320 con la parola ”Torellum
unc. 7, Tari 8, Grani 7”. S’intende già che sia Orcola che
Torello erano siti nel giustizierato di Terra del Lavoro e facevano
una sola cosa con Dugenta. Nella contrada Torello c’era una chiesa
Curata, la quale era dedicata a Santo Spirito con un fiorente Monastero
Benedettino. Orcula
una volta era in possesso dei duchi di Sant’Agata. Il Torello fu
dato da Ferdinando D’Aragona nel 1469 al suo maggiordomo Giovanni
De Montorio. Ignota
è l’ epoca del declino di queste due contrade, probabilmente i vari
terremoti succedutosi dal 1456, periodo in cui anche Dugenta si trovò
pochissimo popolata. Nel 1461 vi si trovavano 29 famiglie, 26 nel 1545, 22
nel 1561, 18 nel 1648. Spopolata del tutto e distrutta dal terremoto e
dalla peste nel 1656. Posteriormente qualcuno dei luoghi vicini tornò ad
abitarla e così verso la fine del XVIII secolo numerava 146 abitanti”. La
Valle dell'Isclero è fertilissima ed è bagnata, per un buon
tratto, ad occidente, dal fiume Volturno e verso il cosiddetto ponte
dei quaccheri,(o quaqqueri) dal fiume Isclero, l’ Isclerius
di Tito Livio, che va a versarsi nel Volturno; inoltre è circondata dai
monti del Taburno, di Longano, di Limatola, di Caiazzo
che la riparano dalla forza dei venti ed in lontananza si vedono le cime
nevose del Matese.
Insomma
da uno sguardo fugace e rapido ne traspare subito un panorama magnifico. Guardata
Dugenta dalle colline circostanti sembra, nelle ore nebbiose, un
vastissimo e poetico lago con le sue magnifiche e ridenti campagne che
producono in abbondanza cereali, frutta di tutti i tipi, soprattutto mele annurche,
cachi e ciliege tanto copiosi da farla ritenere senza timore di sbagliare,
il granaio più florido di tutta la provincia di Benevento. E’ percorsa
per intera dall'antica strada Regia Borbonica (oggi via Nazionale statale
n.265),in tempi remoti via Appia che meritatamente si chiama Regina
Viarum. Nel
tenimento di Dugenta, e nelle zone limitrofe, si combattette la
grande battaglia dei Romani, con Pirro nel 275 a.C.. In questa
pianura si combatterono le sanguinose lotte Sannitiche, le quali ci
dimostrano la lunga e disparata lotta fra i due popoli, anelanti ad una
vittoria decisiva, che aveva stabilito finalmente a quali spettasse la
conquista dell’Italia, che allora abbracciava soltanto il Lazio e la
Magna Grecia. Ne riuscì vincitore il Lazio, insanguinato e
ferito dal passaggio sotto il giogo delle Forche Caudine, ad opera
del giovane generale Caio Ponzio Telesino, di Telese, nel 321
a.C., nei pressi del luogo ove sorgono le attuali cave dette di Tairano,
presso Montesarchio. Intanto
il Sannio dovette poi riconoscere la supremazia di Roma e ne
dovette seguire le vicende ed i trionfi e Dugenta, le duae gentes,
sarebbe il ricordo della fusione di questi due popoli. Dopo
la caduta dell’Impero Romano, quando i barbari invasori
s’impadronirono dell’Italia, Dugenta fu luogo di passaggio dei Longobardi,
condotti da Narsete, attratto dal clima e fertilità delle campagne
circostanti, diretti a Benevento passando per Montecassino, Capua
e l’agro telesino, come si ricava dallo storico Paolo Diacono Longobardo.
Poi vennero i Saraceni ed i Normanni. A
Dugenta si fermò, proveniente da S. Agata de’ Goti, il papa Pasquale
II, diretto a Benevento, qui fu ospite nella Casa Ducale(castello),
dove fu accolto come un vero trionfatore. E’ tradizione che sia stato
questo papa, nel 1110 e nel 1112 a consacrare la chiesa arcipretale, posta
nel recinto del castello, come si ricava dai libri parrocchiali. Nella
stessa casa ducale di Dugenta si fermò il papa Alessandro III ,
nel 1159 e nel 1181, fuggiasco dalle prepotenze di Federico Barbarossa
e trovò asilo sicuro a Benevento il papa del Carroccio e della Lega
Lombarda. Per
Dugenta passava nel 1265 Manfredi di Svevia, inseguito
dall’Esercito di Carlo d’Angiò. Papa
Urbano VI aveva stretto nel 1263 con Carlo I D'Angiò, fratello del
re di Francia Luigi IX, un accordo in cui Carlo, in cambio dell'appoggio
della Chiesa alle sue azioni politiche, si sottometteva ad un rapporto di
dipendenza vassallatica. Questi, figlio illegittimo di Federico II, aveva sottratto nel 1258 al nipote Corradino (di Svevia) la corona di Sicilia, suscitando il malcontento dei baroni svevi e dei Comuni e delle Signorie italiane di parte ghibellina. L'esercito di Manfredi e quello angioino vennero allo scontro diretto il 26 febbraio del 1266. Quando Manfredi percepì la disfatta, preferì gettarsi nella mischia e morire da valoroso piuttosto che essere fatto prigioniero: morì “in co’” il ponte di Benevento, trafitto dai Francesi. La morte di Manfredi è ricordata da Dante nel canto III del Purgatorio. In seguito a questi eventi tutto il progetto di Federico II sul meridione circa la valorizzazione delle arti e delle lettere, fiore all'occhiello della scuola siciliana, crollò: Carlo d'Angiò si impadronì di quest'area e vi insediò dei funzionari francesi, trasferendo la capitale da Palermo a Napoli. Nel frattempo i ghibellini furono nuovamente scacciati da Firenze, dove ripresero il potere i guelfi. Con
l'avvento dei Guelfi a Firenze e la decadenza della corte dei Svevi il centro culturale
letterario si sposta dalla scuola Siciliana alla Scuola Toscana. Si deve a
questo evento la nascita del “Dolce Stil Nuovo”, movimento che sarà
precursore della nostra lingua Italiana.
Papa Bonifacio VIII, di fronte a quelle decine di migliaia di fedeli
che chiedevano l'indulgenza, si risolveva ad indire il primo solennissimo Giubileo,
cioè l'indulgenza plenaria a chi, confessato e comunicato, avesse
visitato (15 volte se straniero, 30 se romano) le due basiliche di San
Pietro e di San Paolo (nel 1350 sarebbe stata aggiunta San
Giovanni in Laterano e nel 1390 Santa Maria Maggiore). Bonifacio VIII aveva decretato che il Giubileo, in
cui ognuno avrebbe potuto lucrare l'indulgenza plenaria e assicurarsi così
il Paradiso, venisse celebrato ogni 100 anni. Ma già nel 1350 papa Clemente
VI stabili' che il Giubileo si svolgesse ogni 50 anni. Paolo II,
poi, nel 1471 fissò la cadenza ogni 25 anni e ne illustrò il significato
penitenziale con il nome di "Anno Santo". Nel 1475 Sisto IV celebrò il primo
Giubileo della stampa: il
primo, cioè, che dopo l'invenzione dei caratteri mobili da parte di Giovanni
Gutenberg nel 1444, venisse bandito in tutta la cristianità con
stampati, Bolle e preghiere rituali ancora oggi conservati nella
Biblioteca vaticana. Da allora la storia del Giubileo si intreccia ancora
più strettamente con
la storia d'Europa e della Chiesa cattolica: da quello del 1500 conosciuto
come il Giubileo di papa Borgia, che inaugurò il mercato delle
indulgenze che avrebbe poi suscitato le ire di Martin Lutero
e lo scisma del 1517, agli spettacolari Giubilei del '600, in pieno
barocco. Papa
Bonifacio VIII fu anche il Papa dell’ insulto storico di Anagni, ricordato
dal Divin Poeta. Egli rivendicò l’assoluta indipendenza del dominio
spirituale e temporale della chiesa dai princìpi secolari. Fu
perseguitato dalla famiglia Colonna e dai Francesi. Fu fatto
prigioniero ad Anagni. Fu anche un papa Santo, nel 1605 fu fatta nelle
grotte Vaticane la ricognizione della sepoltura e dopo tre secoli il suo
corpo fu trovato intatto, vestito dei preziosi abiti Pontifici e di un
ricchissimo camice lavorato in oro. Morì in Vaticano nel 1303. Dunque
il castello di Dugenta l’ebbe in possesso la famiglia Caetani ed
in porzione toccò proprio al Papa Bonifacio VIII, il quale
fino ad un certo tempo ebbe qui un suo rappresentante (o Vicario) ed anche
oggi vengono additate dei vecchi caseggiati, di proprietà degli eredi Martone,
confinanti con la Chiesa e Casa Canonica, dette appunto “Vicario”
dal nome antico. In seguito, il Castello di Dugenta fu esposto in vendita
e fu acquistato dalla famiglia Corsi di Firenze, i cui eredi
s’intitolarono Marchesi e signori di Dugenta e di Caiazzo. Della
storia si conosce pure che i Papi Nicolò II, accompagnato dal
Cardinale Ildebrando, poi Pontefice Gregorio VII, nel 1059, Vittore
III nel 1087, Urbano II nel 1091, Pasquale II nel 1108,
andando a Benevento si fermarono, graditi ospiti di quei baroni, nel
castello di Dugenta, il quale, come tutti gli altri castelli di allora fu
teatro di macabre scene di terrore, di sevizie crudeli, di sangue, che vi
si commettevano dai signori Feudatari, nei suoi sotterranei, nei suoi
trabocchetti non del tutto ancora esplorati. Vi si vedono ancora labirinti
e trafori, che lo mettevano in comunicazione con altri castelli. Aveva
il suo tribunale e il suo carcere giudiziario, il suo quartiere dei
soldati, il campo di esercitazione di questi, tanto che anche oggi viene
ricordato con il nome di “Quartiere” un caseggiato antico e dal
nome di “Sopracampo” una vasta estensione di terreno che
serviva per le esercitazione per i soldati avventurieri, assoldati dai
feudatari. Bisogna
ancora notare che i signori feudatari cercavano se non di essere, almeno
di apparire religiosi, perché si sa che furono sempre munifici con la
Chiesa di S.Andrea Apostolo, la quale era attaccata al
castello, ne
osservavano fino allo scrupolo i doveri, erano ossequienti all’Autorità
Ecclesiastica, sempre in comunione con Roma e l’arciprete era il
dignitario principale della Corte feudale. Di qui passò San Paolo per la via Appia nelle sue peregrinazioni apostoliche con i suoi discepoli per andare a Benevento. Giova ripeterlo, Dugenta
cadde sotto la dominazione e supremazia di Roma, come le altre città
limitrofe, come Saticola, Telese, e forse fu allora che cambiò il suo
primo nome in questo di Dugenta cioè “Duaes gentes”, ad indicare la
fusione dei Sanniti con i Romani. In
tempi remoti Dugenta aveva una popolazione molto estesa e racchiudeva nel
suo seno molte parrocchie e la Matrice era l’Arcipretale di S.Andrea
Apostolo sita nel recinto del castello, mentre poi altre due Arcipretali,
una a “Orcoli”, dedicata a S.Nicola di Bari, ed a ricordo di questa è
stata di recente costruita presso la stazione ferroviaria una cappella
sulla dote di detta Arcipretale, l’altra a “Torello” dedicata a
S.Spirito, ov’era anche un monastero benedettino di grande rinomanza.
Tutte e due le Arcipretali per mancanza di anime furono annesse all’
Arcipretale S.Giuliana di “Frasso”. Dugenta
fu luogo, dove per l’ultima volta si avvicinarono i due pretendenti di
queste regioni, che formavano il Regno di Napoli: Rainulfo Conte
della città di S.Agata dei Goti, di Alife e di altre località, e
Ruggiero I Re di Napoli, nel 1129, in quel tempo Corte di Sicilia. Fu
qui che si abbracciarono e si baciarono, giurandosi fedeltà reciproca. Le
più antiche famiglie che possedettero il castello sono la “De
Vasis” e la “Saliaco” le quali l’ebbero in Feudo. In un
diploma di Carlo D’Angiò dell’11 dicembre 1282 fu fatto
Patrono di Dugenta Lodovico De Roberiis, soprannominato “il
Miles”. Il De Roberiis, non si sa perché, rassegnò in mano
del Re Dugenta ed il castello di Caserta ed in compenso ne ebbe 160 once
di oro annuali. Carlo II D’Angiò, nel 1309, elesse il De
Roberiis a giustiziere di Bari, con l’incarico di determinare i
confini di questi feudi, ad evitare ogni questione per l’avvenire. Si
trova in seguito patrono di Dugenta Roberto di Herville e poi Guglielmo
di Vandemonte, dopo la triste sorte di Manfredi e poi di Corradino
e nel 1269 Filippo di Vallecublana, Signore di altri Feudi, e
finalmente la famiglia Caetani, che lo diede in porzione al Papa Bonifacio
VIII, autorevole membro della stessa famiglia, la quale poi lo
perdette per aver seguito il partito di Renato D’Angiò contro Alfonso
D’Aragona. Pare
che Dugenta sia anche zona archeologica, secondo il giudizio autorevole
del celebre storico tedesco Monsem, il quale fece di questa
pianura, centro di studi, da scavi fatti, si ricava che abbia sentita
tutta quanta la civiltà Sannitica-Romana, VolsciaEtrusca,
Gotica-Longobarda, Normanna.. Ancora nel linguaggio dialettale di
questo popolo si trovano di continuo espressioni latine e greche e ciò
serve a dimostrare che Dugenta abbia risentito l’influenza di Roma,
della Magna Grecia e Bizantina. Nella
prima metà del 19° secolo a Dugenta si continuavano a scavare tombe dei
tempi pre-romanici, con casse di creta, oggetti, lucerne, monete,
iscrizioni sepolcrali, dal lavoro nei campi si rinvenivano capitelli con
fogliame, busti, mosaici, pavimenti interi, ma rovinati in frantumi perché
non se ne conoscevano l’importanza. I ritrovamenti in contrada Campellone
e Masseria della Chiesa mostrarono ruderi di grande valore storico
ed archeologico i quali attestarono la grandezza Sannitica e Romana e poi
le posteriori incursioni dei barbari, dopo la caduta dell’Impero e le
origini del Cristianesimo. Nella
storia di questo borgo sono da ricordare alcuni avvenimenti. Il
Regno Longobardo,caduto con la sconfitta di Desiderio, il quale va a farsi
monaco Benedettino a Montecassino, Arichi II si fa incoronare principe ed
assume il titolo di Re, ma poi aumentata la sua ambizione, vuole estendere
i suoi dominii altrove. Ottiene i principati di Benevento, Capua e
Salerno. Spesso fa incursioni con le sue soldatesche sull’ Agro Telesino
e per Dugenta passa e ripassa da terribile dominatore. Ma poi i suoi
successori inetti per l’ invasione continue dei Saraceni, si fanno
guerra l’uno contro l’altro e si distruggono a vicenda e permettendo
l’ entrata dei Normanni, che muovono alla conquista finanche delle
Puglie e della Sicilia. Una
volta il territorio attorno il castello era di aria malsana per le tante
acque stagnanti che racchiudeva nel suo seno, tant'è vero che si diceva
che a "Ducent pure l'erv è malament" (a Dugenta pure l'erba
è cattiva). Perché
non ricordare, almeno fugacemente, altri avvenimenti luttuosi del secolo
appena passato cui fu protagonista e vittima la cittadinanza? Il
1° ottobre 1860, in questo paese risuonò lo strepito di armi, dopo che
ottomila uomini del Generale Von Meclel, avanzando per il Volturno
superiore, si recarano a Valle di Maddaloni ed ai celebri Ponti di
Valle (o Vanvitelliani) per occupare Maddaloni e poi avanzare. Si
sa l’eroica e vittoriosa difesa delle posizioni sui monti Caro e Longano,
fatta da Bixio , coadiuvato dai Generali Dezza, De Eberhard
- Spinozzi, Fabrizi, con la perdita di 46 morti sul campo e
275 feriti; ed a Castelmorrone con Pilade Bronzetti.
Quest’ultimo, in tale scontro vi lasciò la vita a causa delle forze
soverchianti borboniche irrompenti da Dugenta, e Dugenta appunto salvò la
posizione dei Garibaldini, i quali sconfissero i borbonici, di Von
Meclel, la battaglia fu aspra e dura e si combattette dall’ 1 al 2
ottobre 1860 e così l’esercito garibaldino prese la via libera verso
Napoli. Un
monumento a perenne ricordo è situato presso i Ponti Vanvitelliani.
Durante
la II guerra mondiale, oltre cinquemila tedeschi, reduci dalle azioni
guerresche di Sicilia e di Calabria, si accamparono nel latifondo Selvolella
del Commendatore Micillo, e fecero di Dugenta scempio, mettendo a
ferro e a fuoco ogni cosa, portandovi distruzioni, rovine e morte, da veri
predoni, fino a che giunse la V armata Americana, la quale mise in rotta
quei nuovi saraceni spingendoli di là del Volturno. Lo stesso latifondo
di Selvolella diventò scuola di addestramento di soldati
Americani. Una
volta a Dugenta si pagava il così detto pedaggio per quelli che vi
passavano ed a riscuotere questo vi erano soldati armati. Ancor oggi si
addita il luogo, denominato “quartiere”, dove questo avveniva e
per dove si passava la così detta vita doganale. Dunque
Dugenta era un castello Angioino, un vero titolo nobiliare, un feudo
giurisdizionale di quei vecchi Signori e Baroni, che veniva concesso ora a
questo ora a quello con diritto feudale. Gli
ultimi quarant’anni sono stati per Dugenta periodo di rigogliosità e
benessere; sviluppo industriale notevole dovuto soprattutto alla presenza
del Consorzio Agrario Provinciale il quale pianificava, ed interveniva con
aiuti, alla coltivazione, al ritiro ed all’esportazione del tabacco,
maggiore fonte di reddito per centinaia di famiglie contadine. A
tutt’oggi l’attività del Consorzio è ridotta, anche in virtù di
decisioni politiche assunte in sede Europea, circa la riduzione della
produzione del tabacco. Ed
ecco che vi è rimasto soltanto il ricordo, peraltro molto vago, di quello
che fu; così il Novelleto, sparpagliato in tanti proprietari, era
del Marchese Tommaso Capece Minutolo, il Frasso, acquistato
insieme al castello, dal Barone Ricciardi, il latifondo Terranzano
del Barone Meoli prima e del Duca D’Aquara-Caracciolo dopo,
la Selvolella del Comm. Micillo, Trentalance ed il
latifondo della Marchesa Gambacorta, acquistato all’asta dal
Dottor Perlingieri soffiandolo ai Dugentesi,
il più grande, suddiviso dallo stesso in 15 masserie rurali
(affidate contrattualmente in mezzadria e colonia parziaria),
sovrasta il paese ad est sul pendio del colle della Torretta. Oggi
le masserie non esistono più ed i terreni formano uno splendido giardino
di un 1.000.000 di mq., coltivato a vigna di tutte le qualità, in cui fa
bella mostra il villino, che ha tutta l’aria di un castello baronale,
contornato da giardini e piscina Le
ultime vicissitudini inducono il proprietario alla vendita della tenuta.
E’ in progetto la costituzione di una società per la rilevazione della
proprietà. |
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