Michael O'Shea
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Michael O’Shea: Michael O’Shea 

Per una volta Keltika si occupa di un disco “al passato”, di un artista del tutto atipico rispetto alla media della scena musicale irlandese; di un musicista che ebbe addirittura l’ardire di inventarsi un proprio strumento, ma soprattutto di una storia tragica e affascinante, e di un uomo che condusse un’esistenza sempre “ai margini”, e che morì tragicamente la vigilia di Natale del 1991.

Michael O’Shea era nato a Newry, nell’Irlanda del Nord, l’11 luglio del 1947. A dire il vero, la sua famiglia viveva al di là del confine, ma – con grande rabbia del padre – l’ospedale dove Michael vide la luce si trovava in Ulster; e per di più solo per 24 ore il piccolo Michael non era un “Orangeman”, termine con cui vengono chiamati coloro che nascono il 12 luglio, giorno delle parate orangiste in Irlanda del Nord. Da ragazzo a scuola non era proprio il massimo, ma grande era la passione di Michael per la lettura. Probabilmente fu questa la molla che all’età di sedici anni lo spinse ad abbandonare gli studi e la famiglia, con il desiderio di andare a scoprire il mondo.

La prima mossa fu l’arruolamento nell’esercito britannico, esperienza del tutto infelice che durò solo un paio d’anni. O’Shea decise quindi di recarsi a Londra, dove per sopravvivere si diede da fare con i mestieri più svariati ed assurdi. A Londra Michael fece conoscenza con grandi del folk inglese come Ewan MacColl e Peggy Seeger, e con i Chieftains degli inizi. La sua dimora divenne una comune nel quartiere di Shepherds Bush. Iniziò così la sua attività di volontariato sociale, che lo spinse a una permanenza di sei mesi nel Bangladesh in un campo di rifugiati. Lì Michael contrasse una grave forma di amebiasi associata ad un’epatite: la convalescenza si protrasse per oltre un anno, trascorsa per lo più ad acquistare confidenza con un sitar, unica nota positiva della sua esperienza indiana.

Rimessosi in sesto, Michael iniziò a viaggiare per l’Europa ed il Medio Oriente scoprendo, per usare le sue stesse parole, “quel qualcosa di speciale, quella magia che pervade la musica di qualsiasi parte del mondo”.  In Francia O’Shea conobbe un musicista algerino, Kris Hoslyan Harpo, ed il suo “zelochord”. Per sostenere le spese di un viaggio in Turchia, lo stravagante musicista vendette in Germania il suo sitar, e sempre in Germania gli venne in mente di inventarsi un proprio strumento musicale, che battezzò “Mo Cara”. Si trattava di una via di mezzo tra un hammered-dulcimer, lo zelochord di Harpo e un sitar: si trattava in pratica di una cassa in legno su cui erano tese 17 corde, con altre 6 corde di risonanza. Ad esso veniva applicato un amplificatore con vari effetti (phader, phaser).

Alla fine degli anni ’70 Michael aprì un laboratorio di liuteria – specializzato in dulcimer – nella sua casa londinese di West Hampstead. Ogni tanto O’Shea tornava anche in Irlanda, dove si esibiva nei pub, e anche come busker nelle strade.

Molti ricordano, ancora oggi, questo strano personaggio che suonava uno strumento ancora più strano, nelle fermate della metropolitana di Londra, agli inizi degli anni ’80. Questo il ricordo di Will Sproule, uno dei talent-scout del famoso jazz club londinese Ronnie Scott’s: “Non avevo mai sentito nulla del genere! Sembrava una via di mezzo tra Ravi Shankar, musica irlandese e Koto giapponese, suonata da questo strano individuo su uno strumento mai visto. Chiesi a Michael di venire con me al Ronnie Scott’s. Quando arrivammo salii in ufficio a chiamare Ronnie, per farlo scendere ad ascoltare questo strano uomo che suonava una strana musica su uno strano strumento….Dopo solo cinque minuti, Ronnie Scott mi disse di scritturarlo immediatamente!

Era la prima volta che un artista del tutto sconosciuto si esibiva nella storica Downstairs Room at Ronnie Scott’s!

Dopo le classiche due settimane di esibizione, lo stesso Ronnie Scott divenne l’impresario di Michael O’Shea, che riuscì così, grazie alla grande esperienza dello stesso Scott, ad avere l’onore di esibirsi al sitar alla Royal Festival Hall, come “spalla” del grande maestro Ravi Shankar. Anche il grande del pop Rick Wakeman apprezzò la “strana musica” di O’Shea, al punto di invitarlo ad alcune registrazioni in sua compagnia, registrazioni che però non videro mai la luce.

Personaggio schivo, Michael viveva però con grande disagio personale queste esibizioni pubbliche: in fondo continuò a difendersi da quelle che lui chiamava “le trappole del successo”. In altri termini, abbandonò ogni mira di “successo” per tornare ad esibirsi nelle strade e nelle fermate della metropolitana. Si racconta, al proposito, un aneddoto: O’Shea dormiva all’addiaccio in una strada di Dublino, quando gli si avvicinò un poliziotto, incuriosito anche dal fodero del suo strumento. Alla domanda di cosa ci fosse in quella scatola, l’imperturbabile Michael iniziò a suonare la sua Mo Cara nel cuore della notte, in una strada deserta, espressamente per soddisfare la curiosità di quel poliziotto!

Per un breve tempo Michael fu anche membro del gruppo “The The”, con cui incise il single “Controversial Subject”. I produttori di quel disco, Bruce Gilbert e Graham Lewis, colpiti dalla singolarità di Michael e della sua musica, gli offrirono di pubblicare un album. Sempre in quel periodo (1982-1984) Michael apparve in un programma televisivo della RTE (la televisione nazionale irlandese), si esibì in un progetto audio-visivo al museo di Arte Moderna di Oxford, e partecipò ad alcune incisioni deel musicista irlandese John Denver Stanley.

Per il resto degli anni ’80 Michael O’Shea smise gradualmente di esibirsi in pubblico, confondendosi in modo sempre più totale nel mondo edonistico della scena “Rave” londinese tipica di quel periodo.

Il 18 dicembre del 1991, a Londra, scendendo da un bus, Michael O’Shea veniva investito da un furgone delle poste. Michael sarebbe morto dopo pochi giorni, l’antivigilia di Natale.

Michael O’Shea fu per tutta la sua vita un anticonformista, uno spirito libero, impossibile da “catalogare” in qualche modo. Il suo stile di vita fu perennemente in bilico, precario e pieno di pericoli, ma paradossalmente l’accidentalità della sua morte non ebbe nulla a che vedere con i rischi derivanti dalla sua “vita spericolata”. Ogni volta che gli venne offerto un’attività potenzialmente redditizia in campo artistico, Michael decise invece di scappare da queste “trappole”.

La musica di Michael O’Shea era caratterizzata dalla musica indiana, ma con forti influenze delle linee melodiche irlandesi: di certo non si trattava di musica tradizionale nel senso universalmente accettato del termine, bensì di un qualcosa difficilmente definibile, che faceva tesoro delle molteplici esperienze artistiche e musicali del suo autore.

In questi mesi la WMO ha ri-pubblicato su CD l’intero corpus delle registrazioni di Michael O’Shea in un album omonimo, che ci permette di fare conoscenza con questo artista così atipico, e con la sua musica altrettanto particolare: i quindici minuti di “No Journey’s End” sposano ad esempio le atmosfere ipnotiche di un raga indiano con gli echi melodici della musica irlandese. Altri brani presenti sul CD furono eseguiti da O’Shea alla chitarra elettrica, ed insieme a John Denver Stanley e al musicista-poeta Larry Cosgrave. Dall’album Michael O’Shea è tratto il brano “Kerry”, presente sulla nostra compilation di questo mese: una proposta diversa dalle solite, ma comunque interessante.

 

                                                                                              Testo di Alfredo De Pietra

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