Il calendario olandese

Solfanelli, Chieti, 1986
cm. 21x14 pp. 76

Illustrazione di copertina di Stefano Ianni


Il lungo racconto si articola in 21 capitoli, in cui la protagonista, una bambina di nome Lola, narra le sue prime esperienze di vita.
Parzialmente autobiografico, il libro ricrea quel particolare clima che fu proprio degli anni 45/50, tra la guerra e l'immediato dopoguerra, un clima di povertà e di paura, ma anche di grande rigore spirituale e di grandi speranze.

Capitolo Primo

Capitolo secondo

Capitolo sesto


Capitolo Primo Torna su

Questo primo capitolo delinea i caratteri di Ota e della piccola Lola, principali protagoniste del racconto, e il rapporto umano che le unisce.
Ota è una giovane contadina, con i pregi ed i difetti propri della sua gente: generosità, fedeltà, spirito di sacrificio, ma anche ombrosità, ostinazione, durezza di maniere; Lola è una bambina troppo presto sottratta alla sicurezza di una famiglia regolare (il padre è morto, la madre è spesso lontana per lavoro, in casa non ci sono altri bambini): Ota rappresenta, per lei, l'unico punto fermo, l'unica compagnia, per cui non potrà non influire sulla sua formazione interiore, creando la base e il presupposto di ogni futura educazione.

In un ormai lontanissimo novembre, segnato, anche, dall'unghiata della Storia (era, esattamente, il 1939, e in Europa si scatenava la guerra), la mamma, la piccolissima Lola e Ota rimasero sole sulla vasta terra.
La mamma aveva, come unico punto fermo, un diploma di ragioniera che le avrebbe permesso di lavorare e di assicurare la sopravvivenza anche alle altre due.
Ota era una di quelle ragazze magre, nere, intelligenti, ombrose, che dai paesini sparsi sulle montagne abruzzesi scendevano in città, una volta, per andare a servizio presso una signora; oggi, per entrare in fabbrica, o alla Standa, o in un negozio di parrucchiera.
Quando la mamma si impiegò in un ufficio, la piccola Lola fu posta completamente nelle mani di Ota.
Ota era severissima e Lola aveva paura di lei. Ma era anche generosa e fedele come un Ascaro, coraggiosissima; Lola si fidava soltanto di lei.
Quando la mamma usciva per andare a lavorare, Lola rimaneva in casa, sola con Ota. Il diavolo incominciava subito a suggerirle tutti i capricci, e lei finiva sempre col farne tanti da costringere Ota a dargliene di santa ragione.
Quindi Lola si buttava per terra e si nascondeva sotto il tavolo, dove Ota, furibonda, la raggiungeva e tornava a darle le botte.

Alla fine si stancavano tutte e due, e Lola, piangendo a distesa, si rannicchiava finalmente in un angolo vicino alla stufa, se era inverno; o in un pizzo del balcone, se era estate.
Alle cinque, Ota le dava la merenda e poi la portava a giocare ai giardini. Se un cane si fosse avvicinato a Lola per morsicarla, se un bambino le avesse tirati i capelli, certamente Ota li avrebbe uccisi.
Per le otto, Ota preparava la cena e apparecchiava la tavola in cucina.
Mangiavano insieme, tutte e tre; Ota sceglieva per Lola tutti i bocconi migliori; poi faceva la porzione per la mamma, e per sé lasciava l'indispensabile per sfamarsi. Mangiava col piatto sulle ginocchia, presto presto, facendo un grande rumore.
Quando la minestra era nella zuppiera, Lola si alzava sulle punte dei piedi per vedere se, in fondo, c'era rimasta la porzione per Ota.
Una volta c'era un ospite e Lola si accorse che non era rimasto niente per Ota.
Allora alzò la zuppiera e la gettò per terra. Fu un gesto di improvvisa, generosa violenza.
Anche se poi, per anni, Lola sentì il rimorso per aver rotto la zuppiera.

 


Capitolo Secondo Torna su

una educazione che vuole essere signorile, ma che è fondamentalmente sbagliata: inserire un bambino in un mondo socialmente più elevato di quello in cui abitualmente vive è sempre pericoloso: Lola sembra avvertirlo più della mamma e di Ota, offuscate dalle loro buone intenzioni, ma è troppo piccola per poter oggettivare un'analisi così acuta; per cui risponde con un malessere indistinto, una oscura insofferenza, a quanto rifiuta nel profondo.
Le ultime parole del capitolo suggeriscono una capacità di resistenza al dolore da parte del bambino, una sua inconscia autodifesa, che è, forse, solo la forza della vitalità naturale, lo spirito di conservazione della specie.

Furono certo le migliori intenzioni (quelle di cui, si sa, è lastricata la strada dell'Inferno) che spinsero la mamma e Ota a cercare di dare alla piccola Lola un'educazione il più possibile signorile. In quest'ottica rientrò la scelta di un asilo infantile, che già nel nome sembrava alludere alla sua vocazione aristocratica: Giardino d'Infanzia.
Più tardi la maestra, che era donna di gusti raffinati e severi, cultrice di austeri principi pedagogici, ebbe a scrivere un libro (ahimè, perso nell'immenso oceano dei libri), in cui c'era un capitolo intitolato: Bambini tristi. In questo capitolo fu assegnato un posto anche a Lola.
Forse un tale capitolo non sarebbe dovuto esistere, come non sarebbe dovuto esistere il Diano di Anna Frank.
Però esistono: l'uno e l'altro; ed entrambi provano che i bambini possono anche soffrire.
La sofferenza di Lola non era certo lo strazio di Anna Frank; aveva origini molto meno oggettive; però c'era, in Lola, la sensazione, non falsa, che qualcosa la rendeva estranea a quell'elegante Giardino; che una parete di cristallo si ergeva tra lei, la maestra, i bambini, le mamme e le domestiche di quei bambini. C'era, in lei, qualcosa in più e qualcosa in meno: un eccesso e un difetto, che la rendevano inquieta.
E più inquietante era l'impossibilità a chiarire ed esprimere questa cosa, per ottenere dalla mamma e da Ota la libertà da
quella prigione dorata. Più volte Lola meditò la fuga; ma era troppo piccola per attuarla; più volte sperò di ammalarsi, o che un'epidemia facesse chiudere il Giardino.
L'aiutò la Guerra, che incominciò a farsi minacciosa, per cui la mamma ebbe paura a tenere per troppo tempo la piccola lontana da casa, e la ritirò dal Giardino.
Per anni Lola si rifiutò di passare per la strada in cui sorgeva l'Asilo; quando fu proprio impossibile evitarla, si preoccupò di girare la testa dall'altra parte, vilmente: per paura che il colore di una pietra, il profumo di un albero, un gioco di luci sul muro, risvegliassero in lei quell'antico malessere.
Perché in una cosa Lola imparò presto ad essere bravissima: preservare la fragile creta del suo cuore dagli assalti brutali di una realtà ostile.



Capitolo Sesto Torna su

Ancora un passo errato nella introduzione nel mondo alto borghese; e ancora una volta la piccola Lola si sente umiliata ed estranea: forse di più, questa volta, e a maggior ragione: il ballo dei bambini mascherati è un'occasione di confronto, e la vittoria andrà al bambino più fortunato, al più inserito nel mondo in cui la festa ha luogo.
Non rimane che dire, con le parole che chiudono il capitolo: "I bambini non dovrebbero essere esposti a competizioni perdute in partenza. E neanche a competizioni vinte in partenza. Non dovrebbero essere esposti a nessuna competizione."

Un'altra mossa sbagliata fu il ballo mascherato al Circolo Cittadino.
Tutti i bambini bene andavano a questo ballo, per cui sembrò doveroso, per la mamma e per Ota, portare anche la piccola Lola.
Si introdusse anche la Maestra, che per l'occasione rimpannucciò un suo nipotino, di nome Pietro, con una mantella bianca, un elmo di latta e una spadina: doveva essere Orlando, o qualche altro eroe gentile. Per Lola invece fu preso in fitto un vestitino verde da cinesina, con cappellotto di paglia e pettorina nera con sopra ricamati tre ideogrammi cinesi.
Ota confezionò per l'occasione un paio di babbucce di velluto nero, e ci cucì sopra due coccarde di raso verde.
L'arte delle babbucce era una delle grandi virtù di Ota, e una delle fonti di felicità di Lola.
Ota faceva la babbuccia per intero: incominciava dalla suola, che ricavava da una specie di materassino fatto con strati sovrapposti di vecchie pezze di lana, fittamente impunturate; poi, con un panno robusto sagomava la tomaia, che veniva cucita alla suola e quindi rifinita con un cordoncino.
Se era di buon umore, Ota era capace di fare dei capolavori, perché aggiungeva alle babbucce punte di diverso colore, ricami, bottoncini, fiocchi.
Lola aveva una serie di babbucce; solo per sé, Ota non ne fece mai: preferiva, d'estate e d'inverno, gli zoccoli di legno, con i quali correva, scivolava, e spesso cadeva. Quando la mise cinese fu pronta, Lola venne truccata con gli occhi lunghi e la bocca rossa, e così conciata fu portata al ballo.
Lì faceva un caldo d'inferno, c'era un polverone di coriandoli e un urlìo di bambini.
Lola ballò con Pietro, che era di una spanna più basso di lei. Poi la mascherina più bella fu premiata, ed era una damina coi capelli incipriati, alta e grossa come una donna. Lola era convinta di essere meglio di quella gigantesca damina; ma sapeva anche, in partenza, che mai le avrebbero dato il premio, perché nessuno della sua famiglia era iscritto al Circolo Cittadino, e questo la faceva soffrire.
Mai i bambini dovrebbero essere esposti a competizioni perdute in partenza. E neanche a competizioni vinte in partenza.
Non dovrebbero essere esposti a nessuna competizione. Ma i genitori troppo spesso dimenticano di essere stati bambini.





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