Premio Chianti 1989

La diligenza dei santi

La diligenza dei santi

Gli sposi di pietra

Gli specchi

La meridiana

Campeggio a mare

Come una fragile tazza

Note critiche

 

Foggia, Bastogi - 1978
cm. 21 X 14 - pp. 56

Il titolo trae origine da un verso di Emily Dickinson (Oh, come alto è il cielo per la lenta / diligenza dei Santi), come spiega la lirica posta in apertura del libro, che vuole essere, appunto, una risposta alla Dickinson.
Seguono 4 sezioni che corrispondono a 4 diversi momenti poetici:
Emily, Le spighe incrociate, Gli sposi di pietra, La ciotola del servo scemo.


La diligenza dei santi Torna su

 
"Fragile cielo, cautamente amato.
Raggiungerlo sarebbe
impresa folle, come chi volesse
toccar le vesti
dell' arcobaleno.
Ma quanto più lontano, più sicuro
se perseguito.
Oh come alto il cielo per la lenta
diligenza dei santi."

Emily Dickinson

Se troppo alto è il cielo
e troppo fragile,
e troppo cauto è l'amore,
ascolta, Emily,
il tenue tintinnio dei sonagli
sulla strada gelata:
è qui fuori, la diligenza dei santi.
Il postiglione entrerà dalla porta,
dentro, dove
è acceso il camino,
rosso è il riverbero di fiamma.
Vengono voci
come dal fondo di un bosco,
le mani si toccano,
il calendario
parla di semi,
di fioriture, di stagioni.


Gli sposi di pietra Torna su

Forse la tartaruga di Volterra
parla con i sarcofaghi sommersi
nella terra morbida del giardino del museo.
Sono sempre due,
gli sposi etruschi di nessuna bellezza,
stretti in una scatola di pietra,
che non si annoiano e ridono
di un sorriso che non si spiega ed è beffardo.
Il mistero etrusco non è la scrittura,
non è la remota provenienza,
ma la tenacia testarda dei loro matrimoni eterni.
Contro la durezza quadrata
di queste scatole di pietra
si spezza
e diventa segatura
il biondo dell'oro sibarita.
Sommerso nella terra, minuscolo,
l'ultimo sarcofago aspetta di sopravvivere
al giorno del Giudizio.
Ha gli sposi mangiati dal tempo,
caduti i nasi di pietra,
interrotto il sorriso sulle bocche,
il filo d'argento di una solitaria lumaca
li percorre e ammiccano
nell'ombra della fratta pià nascosta,
dove è il mistero del mistero,
la tana della tartaruga di Volterra.


Gli specchi Torna su

Dal ventre della terra esce lo specchio
etrusco,
verde, opaco, con gli esili graffiti
ancora parlanti vanità,
il manico consunto
da una mano che fu viva.
Assurdi, gli specchi imperiali
rimandano la mite immagine
del turista accaldato,
sbigottito ospite di tanto splendore.
Bello è il piccolo specchio del ridotto,
nella gola rossa dei velluti, avido
allo scintillio delle gemme,
alla bellezza d'oro della gente futile.
Ma lo specchio degli specchi
è l'acqua,
quando riflette le bestie
che si abbeverano
e l'erba che cresce.
Specchio dell'anima è la parola.


La meridiana Torna su

Non ti angosci la sabbia
che rapida scivola nella clessidra
sottraendoti un tempo liquefatto.
Non ascoltare il battito
della sveglia che pulsa
col suo cuore di passero
né il cucù alpigiano
che fa il verso al tempo
a ritmo inesorabile.
Ma tua guida sia la meridiana
che registra non il tempo
che passa,
ma le stagioni che vanno e vengono
e ritornano, e bagnano di pioggia
il vecchio muro lo bruciano di sole,
proiettano l'ombra dei rami secchi
e di quelli carichi di mele.
Al mattino vi si accende una luce
bianca da alba del mondo,
a sera un tramonto vasto
gli rimanda gli ultimi raggi,
rossi, caldi, stremati,
e poi il buio fascia il vecchio muro
ed è notte. E di notte
non contare il tempo,
non ascoltare i colpi
della grande torre,
ma piuttosto l'ala
dell'uccello di passo,
il rodio sordo del vecchio tarlo,
il viaggio del topo, vicino,
e quello del treno, lontano;
misura sia lo spazio, non il tempo,
lo spazio vuoto, infinito e indifferente.


Campeggio a mare Torna su

La tenda azzurra è più azzurra
contro l'azzurro del mare.
A sera brucia la sabbia
il fuoco del bivacco,
e il vento muove la fiamma.
Abitano la tenda sconosciuti.


Come una fragile tazza Torna su

Come una fragile tazza
a ricami verdi
questo pomeriggio vuoto;
che orribile spreco - imperdonabile -
di splendore.

 

 


Note critiche Torna su


Nella raccolta si precisano e si approfondiscono i temi più cari alla poesia di Anna Ventura, nella quale le occasioni del quotidiano diventano poesia filtrate da una mente lucidissima che tende, con sofferta partecipazione, a comprendere il presente e ad interpretare la presenza del passato.
Tornano così i grandi temi dell'amore e della morte, il dolore per la giovinezza che muore, per il disfacimento, per il trascorrere del tempo che poco spazio sembra lasciare al ricordo.
Il ricordo: uno dei temi di fondo della poesia di Anna Ventura: il ricordo che invano la mente brucia e l'animo nasconde, e che emerge improvviso e ossessivo tra le pieghe di una poesia di lucido timbro e di linguaggio serrato.
E tornano anche antiche suggestioni della nostra terra, religione e superstizione, che affondano le radici in un passato inattingibile che ne universalizza le esperienze, e affiora la solitudine della donna che vive il suo tempo e le sue contraddizioni in una continua tensione ad interpretare il senso del quotidiano nel tempo.

Francesca Pecora
in: IL TEMPO/ ABRUZZO, 9 marzo 1983


Un temperamento singolare contraddistingue le sue raccolte, caratterizzato da una capacità di sintesi di pensiero e di emozioni che richiama il calore incandescente e le fantasie delicate di Emily Dickinson. (...) conferma l'affinità elettiva, celebrando la felicità del sentirsi niente, la predilezione per le umili cose, amate non col superiore sorriso dei crepuscolari, ma con più antico, misterioso richiamo che, un poco audacemente, diremo metafisico, tanto al di là di esse (le piccole cose) si sente la vita di un'anima solitaria, felice, malinconicamente felice.

Ugo Maria Palanza, Il Tempo
(pagina nazionale, Nel mondo dei libri, 8/7/1983)


Ma quali sono le stratificazioni del libro o, se si preferisce, le stratificazioni dell'anima di Anna Ventura? Innanzitutto, la cautela. Che non é tanto, o non é soltanto, da intendersi nell 'accezione di 'circospezione' (che pure sembra circolare per tutto il libro), come di chi manifesti costantemente una preoccupazione indaffarata e timorosa, quanto piuttosto in quella di 'prudenza', nel duplice senso di un saggio e previdente controllo d'argomentazione e di comportamento.
(...) Accanto alla cautela-prudenza, il cui significato s'é visto risiedere nella definizione del mondo poetico della scrittrice, si affiancano, e fanno corona, gli atti emozionali della poetessa che di quel mondo poetico si fanno irrequieti e, insieme, gelosi custodi.
Il primo atto emozionale, e forse la più densa stratificazione dell'anima della Ventura, é, a mio parere,l'indifferenza, la quale, si badi, non consiste nella ostentata mancanza di partecipazione o d'interesse verso l'altro da sé, verso il mondo delle piccole cose, ma risiede, piuttosto, in un atteggiamento di equilibrata rinuncia, che é consapevolezza del limite, ma é anche, e forse più, sofferta e dolorosa e quasi voluta inespressività. (...)
Dall'indifferenza alla solitudine, un'altra stratificazione dell'anima della poetessa che colloquia in rispettoso silenzio con le piccole cose che la circondano, il passo é breve. La solitudine, che pure a prima vista darebbe l'impressione d'uno spazio impietosamente desertico ed inospitale, privo del dono e del senso degli oggetti, si precisa, al contrario, come accarezzata speranza d'una possibilità d'incontro, e, insieme, di raccolte certezze.
Altro aspetto della poesia di Anna Ventura, che per altro appare come naturale sbocco dell'indifferenza e della solitudine, é il silenzio: silenzio che si precisa nel duplice senso di silenzio-arca, come spazio, cioé, che raccolga e conservi, in quasi religiosa e pia custodia, il pullulare di risonanze del cuore della poetessa; e di silenzio-esistenza, come spazio, cioé, in cui trovi senso e giustificazione il senso stesso delle cose.

Francesco Di Gregorio
in: Letture novecentesche
per l'Università degli studi di L'Aquila - Istituto di lingua e letteratura italiana - Edizioni dell'Urbe
Roma 1983 - pp.11-29


La poesia di Anna Ventura si segnala per una capacità di cordiale abbandono alla dizione dei fatti e delle cose della quotidianità: fra musicalità distese, luminose malinconie, esperienze vissute con umanissima partecipazione e ricondotte sulla scena del presente sul filo di una memoria inverante (giacché se l'oggi è arduo da vivere ed il futuro gravido di minaccia, il passato è una realtà indistruttibile: la sola in grado di conciliarsi con la sorte nella sua misteriosa ma indubbia vocazione metafisica).
C'è in questo tentativo di una prosecuzione, abbastanza fedele, di una concezione novecentesca della poesia, nella misura di una rinnovata edificazione di un mondo ancora contemplabile nella serena scansione dell'idillio o nella pulsante immediatezza del sentimento, dove le cose conservano il valore di un alfabeto di conforto e riposo: di riferimento emblematico ad una realtà più alta di quella della comune esperienza, destinata a durare, se non come fede assoluta, almeno come certezza relata di fronte alla scoperta rottura d'ogni mitologia, al fallimento di una creatività storica che non riesce più a creare. Da qui la necessità del ripiegamento, o della parenesi esorcistica, nell'ambito melanconicamente luminoso, di una cosmicità espressa - con una parola piana ed acquietante, ma non priva di malie e di ironici ammiccamenti - in un arresto di divenire, in un continuo ritorno della contemplazione su oggetti e valori circoscritti, facenti parte dell'orizzonte "terrestre" o quanto meno "comunitario" della nostra esistenza: luoghi, certo, non assoluti di presenza, ma dove la vicenda dell'uomo è ancora una dimensione attingibile e verificabile.

Pietro Civitareale
in: MARSICA DOMANI, Avezzano, anno VIII, n. 7 - luglio 1984


Il registro lirico della Ventura privilegia i toni piani, la dimessa pronuncia che ben coglie e quasi sublima l'umiltà del quotidiano, i piccoli e minimi moti delle cose, le ombre sciolte in cadenze discorsive e narranti.
Ed è qui, mi pare, in questa dimessa e sottile insidia di poesia interamente giocata su equilibri d'aria a scoprire e sorprendere qualche barlume di eterno, che la pagina trova il suo calor bianco, il suo terrestre respiro che non esclude e semmai evoca spiriti angelici: "lo non so/ chi mi cammini accanto" (Passeggiata di un'ora).
Non che ci sia mistero nella grazia di questo concluso universo. Al lettore anzi è dato scorgere, identificare e annettere quello che sentirà più suo dentro una geografia rivisitata in ogni suo angolo, in ogni sua piega.
Ma il segreto, e direi l'incanto di questa voce corre appunto sul filo assai teso e duttile che alle semplici parvenze del reale ha dato il riscatto di una semplice pronuncia.
Fuori avanguardia, su un periglioso versante.

Pasquale Maffeo
in: SILARUS, Battipaglia, anno XXIII, n° 112 - marzo/aprile 1985



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