LA NOBILTA’ DEI MERCANTI

  

     * Brano da “La nobiltà dei mercanti”(pp .22/23)

     * Racconto “Falso gotico”      

 

                      Bastogi, Foggia 2006   

                         cm. 21/15,pp181

 

      Il volume raccoglie  18 racconti, suddivisi in due sezioni:

      La terra degli avi (pp. 7/79);

      Festa galante (pp.103/179)

 

 


 La “La nobiltà dei mercanti” (pp.22/23)

La casa era costantemente piena di gente: i figli nascevano al ritmo di uno all’anno; i clienti bussavano ad ogni ora; da tutte le parti affluivano parenti e amici. Tra questi, le rare volte che tornava in paese, Ciccillo Michetti, che in quel luogo era stato bambino, e se ne era allontanato presto, fortunatamente, per andare a studiare a Napoli, con una borsa di studio che aveva rappresentato il primo segnale di riconoscimento del suo talento. Ormai viveva a Francavilla, dove riuniva artisti amici nel convento adibito ad abitazione, o nel grande studio che si era costruito sulla spiaggia. Fisicamente era rimasto il ragazzo di una volta: gli zigomi alti, gli occhi cinesi, i capelli spettinati.Ma la sua fama cresceva.

Un giorno arrivò all’improvviso a casa di Domenico: si conoscevano da ragazzi, e il rapporto non era cambiato, non c’era mai stata, in passato, la distanza che potrebbe dividere il figlio di un notaio da quello di un contadino; così come non si avvertiva, ora, il divario tra un professionista di paese e un artista di successo.

In occasione delle nozze con Annina, Domenico aveva ricevuto in regalo da Michetti un suo quadro, poi il cane di casa lo aveva rovinato con un colpo di zampa. L’autore lo aveva ripreso per il restauro, ma non c’era modo che si decidesse a farlo.

Anche allora gli venne ricordato: “E il quadro, Ciccillo? Me l’hai riportato, il quadro?”

“La prossima volta di sicuro.”

“E quell’amico tuo- disse Domenico, già rassegnato sulla sorte del quadro- “quel pescarese, che fa tanto parlare di se?”

“Ah, Gabriele!”, disse Michetti, con l’aria ispirata.

“Spesso sta con noi, a Francavilla. Va e viene. Non sta mai fermo.”

“Un irrequieto”, commentò Domenico, “Non ti far prendere la mano. Ti porta in casa le sue amanti, si dice.”

“Qualche volta.”

Annina, che era presente, guardò Ciccillo con fermezza: avrebbe voluto essere seria, ma le veniva da ridere. Sapeva quanto è sciocco essere severi: è il piacere, che muove le azioni degli uomini.

E quel Gabriele era un dispensatore di piacere.

 ***


 

FALSO GOTICO  

 

 Per Natale fummo invitate dal conte Dracula :io e , al seguito, mia cugina. Lei non era particolarmente gradita: mai disponibile ai capricci del conte, di suo fratello Ulrico, o di suo cugino Teo. Sempre sulle sue, mia cugina.

Ma io la imponevo come “ conditio sine qua non” : sola, non me la sentivo di affrontare un viaggio fino alla Transilvania, e lo stesso soggiorno presso il conte andava gestito con qualche precauzione.

Mia cugina mi assicurava un minimo di sostegno, all’occorrenza.

Già il viaggio non fu facile: per strada ci fermammo in varie stazioni di posta, locande che diventavano sempre più canagliesche, a mano a mano che ci si avvicinava alla meta.

Parallelamente cresceva la stranezza del cocchiere della nostra diligenza, tale Tifo, che, evidentemente, in ogni locanda faceva il pieno non solo di biade per i cavalli, ma anche di liquori per sé; per cui era sempre più brillo.

Nelle stazioni di posta, io e mia cugina approfittavamo di quelle pause per rifarci il trucco , consumare un piccolo pasto e  bere qualche bicchierino e guardare gli avventori della locanda, che giocavano a carte o a dadi.

Anche loro ci guardavano, e più di una volta ricevemmo proposte audaci: che, naturalmente, rifiutammo.

A pochi chilometri dal castello del conte, in mezzo a una selva innevata, fummo aggrediti dai lupi.

Il cocchiere ubriaco raccolse le sue ultime forze per tentare di scacciarli a colpi di staffile, ma quelli erano in gruppo, e affamati. Riuscirono ad atterrare uno dei cavalli, e lo mangiarono a brani.

Credo che avremmo fatta la stessa fine tutti quanti, se non fosse sopraggiunto un soldato del conte, inviato da lui stesso per farci da guida negli ultimi perigliosi chilometri del viaggio.

Il conte ha di queste intuizioni; l’intelligenza non gli manca.

Il soldato era armato, e abituato a fronteggiare i lupi; li  mise in fuga in un momento. Poi aggiogò il suo cavallo alla carrozza, sostituendo quello mancante, e ripartimmo allegramente.

Al cocchiere era passata la sbronza.

Giungemmo al castello del conte nell’ora più adatta: le dieci di sera.

Lui ci aspettava a  capotavola, davanti a una mensa carica di ogni ben di dio.

Ci presentò gli altri convitati, tutti ospiti per le vacanze natalizie: suo fratello e suo cugino, immancabili; un principe polacco con relativa signora; una nobile ungherese, decaduta, di grande dignità e bel portamento; un medico francese, totalmente calvo, con moglie di colore; un  generale russo, con tutte le sue decorazioni appuntate sul petto-non solo in senso metaforico-_; una cantante italiana, rosea, con grandi occhi umidi e neri; un prestigiatore rumeno. Una bella compagnia. Feci il conto: eravamo tredici. Sarebbe stata una vacanza movimentata.

 ***  

Lo fu, infatti.

Il conte era particolarmente euforico: segno che la sua anemia gli dava tregua, e la sua podagra idem.

Correva per le sale come un grillo. Anche sulla neve, correva, incurante del ghiaccio che lo faceva scivolare.

Era sempre pallido e magro, ma l’occhio era vivo; la barbetta poco folta ornava una mascella volitiva, e la bocca, quasi sempre imbronciata, accennava a qualche sorriso.

Di  giorno le cose andavano benissimo: il castello era ben riscaldato; era un piacere poltrire negli enormi divani accanto ai caminetti,  scegliere, dalla tavola, i cibi più prelibati. Fuori, si poteva passeggiare nel parco immenso, innevato, o pattinare sul ghiaccio del laghetto.

Anche la compagnia era piacevole: il principe polacco e signora erano dei veri dispensatori di sorrisi; qualche volta ci si confondeva un po’ per la diversità delle lingue; ma loro avevano sempre un mezzo per salvare la situazione: le loro splendide dentature.

La moglie negra del medico offriva lo spettacolo più ameno: indossava abiti estivi, ricchi di balze e di trine coloratissime, come una ballerina brasiliana. Ci si aspettava di vederla comparire, da un momento all’altro, con le banane in testa, e la collana di fiori tropicali appesa al collo.

Il marito, a contrasto, indossava abiti rigorosamente  scuri, su cui brillava, lucida, la sua impeccabile calvizie.

Il generale e la nobildonna  ungherese presero a farsi compagnia, tanto da diventare felici.

Lo stesso  non accadde tra la cantante e il prestigiatore, indifferenti l’uno all’altra; in certi momenti, quasi ostili.

Il fratello del conte, il cugino, e il conte stesso, approfittarono della solitudine della bella cantante italiana per offrire la loro compagnia.

Al prestigiatore restarono le ancelle del castello, incantate dalle sue magie.

Di giorno tutto andava per il meglio ; i guai incominciavano di notte.

IL castello cadeva nella oscurità totale, e nel gelo. In quella tenebra ostile, l’unica via di scampo era il proprio letto, fornito di ottimi materassi, cuscini paffuti, e coperte di pelliccia.

Lì, si stava al sicuro.

Si poteva, volendo, tenere acceso il caminetto della stanza: c’era sempre una piccola scorta di legna da ardere,lì accanto. Porte e finestre erano rigorosamente sprangate.
Mia cugina  chiese di poter dormire in camera con me, e io appoggiai la sua richiesta; ma in risposta avemmo un diniego netto: il conte imponeva che i suoi ospiti avessero una camera ciascuno.

La prima notte passò tranquilla: al mattino, io e mia cugina ci guardammo, quando ci  ritrovammo, con tutti gli altri,nel salone della prima colazione, e dalla serenità delle nostre  facce capimmo che non c’erano state sorprese.

La seconda notte di vacanza al castello fu più movimentata.

Verso le dieci io mi ritirai nella mia stanza , mi misi a letto e rimasi sveglia a leggere fin verso le undici.

Era una notte quieta; il silenzio era totale,eccessivo.

Quando spensi la candela, e mi nascosi la testa sotto le coperte, tesi l’orecchio per cogliere un sia pur minimo rumore, che indicasse una presenza viva . Silenzio.

Verso mezzanotte il conte bussò alla mia porta. Mi aspettavo quella visita- ne avevo avute altre,in precedenti occasioni di  soggiorno al castello- e perciò non mi spaventai ;anzi, la sua presenza, in quel silenzio irreale, mi giunse gradita.

Il conte aveva maniere sbrigative, e, per fortuna, non originali, come suo fratello e suo cugino, ma dovevo stare attenta che non mi mordesse il collo: era pur sempre il conte Dracula.

Ma era anche un gran signore, e non aveva il malvezzo di insistere: aveva capito da tempo che il mio collo andava rispettato.

Non fu lo stesso, credo, per mia cugina, che, al  mattino seguente, esibì un maglioncino col collo alto.

La terza notte era la vigilia di Natale: bisognò restare svegli oltre la mezzanotte.

All’una, io cascavo dal sonno; anche gli altri erano stanchi, fatta eccezione per il medico e la moglie negra, che volevano continuare a ballare danze sudamericane.

Il prestigiatore dormiva, accanto al caminetto, con il collo riverso e la bocca spalancata.

 Il generale e la nobile russa non smisero un momento di tubare; si capiva che avevano una gran voglia di raggiungere al più presto le loro camere da letto, peraltro vicine.

Vidi negli occhi del conte una luce sinistra, e mi preoccupai: c’erano ancora varie ore da trascorrere, prima dell’alba.

Quando fui in camera, sepolta sotto i peli delle coperte, esitai a spegnere la candela : il buio mi pareva infido. Eppure, avevo bisogno di riposare.

Avevo dormito forse un’ora, quando il conte bussò alla mia porta.

Gli aprii senza entusiasmo. Istintivamente mi strinsi al collo la sciarpetta di seta bianca che porto sempre, di notte, per paura del raffreddore; lui me la tolse con un gesto repentino, e la gettò per terra; doveva aver esaurite tutte le sue risorse ematiche, perché  guardò il  mio collo con un’insistenza preoccupante.

Sapevo che era anemico, ma non era certo affondando i denti nella mia carne, che avrebbe risolta la situazione.

“Ma il tuo medico non ti cura?”, azzardai.

“Le medicine non mi giovano. Avrei bisogno del sole. Il sole del Midi. Il sole della Sicilia.”

“Anche il sole africano, all’occorrenza”, dissi.

“No. Quello brucia e basta. Io ho bisogno di un sole europeo.”

Non avevo mai avuta tanta paura; eppure, tra di noi c’era un’antica amicizia.

Perché, all’improvviso, quella sensazione di estraneità, che mi atterriva?

Aprii la finestra e mi affacciai su un panorama di algida bellezza: gli alberi del parco erano così intirizziti, nella morsa del gelo, che pareva dovessero spezzarsi come cristalli; Dracula si appoggiò a me, e guardò anche lui nelle tenebre schiarite dal lucore della neve.

Sentii le sue mani sulle mie spalle, il suo respiro vicino alla mia nuca; mi girai e vidi che anche il conte, solitamente imperturbabile, aveva dipinti sulla faccia i segni del terrore.

Era inverno, era Transilvania ; fuori, i lupi ululavano a distesa; non c’era scampo, se non nell’interno riscaldato dalle coperte e dalle fiamme del caminetto.

Non ci rimase che superare  quel misterioso attacco di panico e trascorrere insieme l’ultima parte della notte.

 


 

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