Lares due romanzi paralleli

Bastogi, Foggia, 1998
cm 21x14 - pp.176


Presentazioni di Lucilla Sergiacomo e Liana De Luca

Presentazioni

I due romanzi:

Il fuoco di Celestino

Vestito di luce


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Ambientata in Abruzzo, con lo sfondo deì severi paesaggi delle montagne aquilane, a cui si alterna l'anonimo scenario cittadino di una Pescara anni Sessanta, già frastornata dal traffico e dalle trasformazioni edilizie, ma non ancora disumana e stravolta, la storia del romanzo di Anna Ventura si colloca tutta all' interno di un universo privato, le cui vicende rimandano univocamente a quel microcosmo notissimo, ma insieme misterioso e insondabile, che nella memoria prende il nome di famiglia.

Dalla prefazione di Lucilla Sergiacomo
a Il FUOCO DI CELESTINO

 

Non tanto per l'ambientazione nell'arsura dell'Andalusia o per la passionalità dei caratteri o per l'intrigo dell'epopea, ma per la logistica della sovrapposizione fra reale e irreale non si può non fare riferimento afli autori sudamericani, da Borges a Bioy Cesares, da Juan Rulfo a Garcìa Màrquez. Come nella letteratura ispano-americana, alimentata da un forte e profondo rapporto con il mito, i fatti sono trasfigurati da una scrittura immaginifica, in cui la costruzione rigorosa, tanto precisa nei riferimenti alla vita minuta, si vale di spunti anche onirici e allucinati e di motivi metapsichici e paranormali per raccontare storie straordinarie non senza tocchi di disincantata ironia.

Dalla prefazione di Liana De Luca a VESTITO DI LUCE

 


Sotto il segno del Leone Torna su

La villa in cui ha inizio questa storia sorge in una zona appenninica ancora quasi immune dal cemento. Lo scarso spirito imprenditoriale degli abitanti del luogo, prima ancora della loro coscienza ecologica o estetica, ha fatto sì che una larga parte della montagna sia rimasta priva delle strutture necessarie ad uno sfruttamento turistico massiccio.
In un paesaggio, quindi, pressoché privo di cemento, la villa, accompagnata soltanto da altre quattro o cinque abitazioni di fortunati proprietari, e da qualche rudere che funge da ricovero per pastori e mandriani, colpisce l'attenzione di chi passa.
Qui la montagna è quasi brulla; il colore che prevale è il grigio ferrigno della roccia, solo a tratti interrotto dal verde cupo delle macchie di conifere.
Raramente vi compaiono animali: qualche mucca vagante, qualche gregge, accompagnato da grandi cani bianchi, quei pastori abruzzesi con i quali è meglio mantenere le distanze.
Anche la presenza umana è solo sporadica. Fatta eccezione per certe giornate luminosissime, tra gennaio e febbraio, in cui il richiamo della montagna è troppo forte per poterlo ignorare, la zona rimane deserta per gran parte dell'anno, priva come è di piste sciistiche e di attrezzature sportive.

La villa ha molte stanze; di queste, la più bella è quella che apre le sue finestre a Ovest, sulla vallata, e accentra sui suoi vetri l'oro del sole fino all'ultima fase del tramonto. Il paesaggio che appare a chi vi si affaccia è ampio e solitario, austero. Una stanza ideale per leggere, scrivere e meditare. L'arredamento ricorda quello di una camera da letto di tipo alpino, con mobili di legno massiccio, tagliati a spigoli vivi; un grande letto comodo fa presagire lunghi sonni; un'ampia scrivania posta accanto alla finestra fa supporre un lavoro intellettuale. In realtà non è così. In questa stanza passa la maggior parte del suo tempo, quando è in villa, la padrona di casa, che non è esattamente una persona di cultura. E' una signora sui sessant'anni, sicura di sé fino alla supponenza; rimasta vedova di un marito altolocato, senza figli, non ha altro da fare che organizzare al meglio le sue giornate di donna libera e ricca, e ancora in buona salute: giornate in cui l'accompagna un buon numero di parenti e di amici.
E' , la sua, una piccola corte, che si sposta con lei, dal salotto della città in cui abitualmente vive alla villa di montagna, residenza per lo più di vacanze estive.
La corte la segue anche altrove: alle terme, dove lei si reca una volta all'anno, o nei brevi viaggi che talvolta le capita di fare, per piacere o per necessità.
La sua cultura non è particolarmente approfondita, tuttavia lei respira da quando è nata l'aria di una famiglia in cui si sono avvicendate generazioni di avvocati, medici e letterati, una di quelle stirpi di professionisti che, nel secolo scorso, erano la spina dorsale del Meridione d'Italia.
Dei suoi fratelli, cugini, zii e antenati, la nostra protagonista ha l'alterigia e la professionalità, anche se queste le servono soltanto, il più delle volte, a dirigere schiere di servi e ad organizzare feste di compleanno.
Di queste, la più importante è, naturalmente, quella che celebra il suo, che cade in luglio, sotto il segno del Leone, e che si svolge, generalmente, nella villa di montagna.
In questa occasione lei indossa un abito sempre nuovo ma sempre della stessa foggia: una via di mezzo tra il peplo classico e l'abito rinascimentale. Gioielli in armonia.
Il mito dei gioielli di zia Maria (così la chiamano parenti e amici) corre tra le sue nipoti, le quali credono che ci siano, al riguardogià alcune disposizioni testamentarie, sempre suscettibili, comunque, di qualche ritocco.
La zia non usa truccarsi il viso, secondo un costume che risale alle sue ave, ma ha una cura meticolosa dei capelli, che vengono regolarmente tinti, tagliati e acconciati da una parrucchiera di sua fiducia.
In questa donna burbera e generosa, dura e fragile nello stesso tempo, sembrano convivere l'anima di una grande dama e quella di una portinaia: ora nobile e superiore nei giudizi e nei consigli, ora arrogante, insinuante e perfida, capace di parole perfino volgari. Il linguaggio è singolare, in questa donna, e deve trattarsi, anche per questo, di un fenomeno di natura ancestrale: è incredibile, infatti, la duttilità con cui lei passa, come Cicerone, dallo stile attico a quello asiano, da un parlare semplice, chiaro e affabile, ad uno solenne, biblico, infarcito di espressioni oscure, che disorienta chi la sta a sentire.
Convinta di essere sempre nel giusto, non distingue tra bene e male, per cui può beneficare o colpire con la stessa imperturbabilità, certa di avere, sempre, operato per un buon fine, e secondo i suggerimenti di un'anima superiore: un atteggiamento che le deriva, forse, dalla boria di famiglia, ma anche dall'esperienza di una vita in cui non sono mancati gli ostacoli, che lei ha affrontati e risolti quasi sempre da sola.
I suoi occhi bovini si stringono fino a diventare simili a fessure quando lei indaga a fondo, per capire, o rimesta nel pozzo profondo della sua memoria.
In questi momenti il viso della donna, che ha lineamenti classici quasi belli, si indurisce nella maschera di un idolo minaccioso, immerso nel gorgo oscuro dei suoi pensieri.

 


Vestito di luce (cap. XXIV ) Torna su

Al segnale d'imbarco, Inés entrò nel tunnel che l'avrebbe portata dentro la pancia dell'aereo, seguì le indicazioni della hostess e prese posto.
Il velivolo aveva tre file di sedili a destra, tre a sinistra, intersecate da un corridoio. A Inés era toccato un posto a sinistra, vicino al finestrino: da lì avrebbe potuto vedere la terra sottostante, e le nuvole vicine.
Era sera, quando iniziò il volo. Inés vide il cemento della pista scorrere sotto le ruote veloci dell'aereo, e poi scomparire quando questo prese quota; allora la terra, sotto, fu una scacchiera di verdi e di ocra, disseminata di quadratini minuscoli: le case. Un quadrato in mezzo ad altri quadrati era il palazzo degli Herrera, a Ronda; un quadrato tra gli alberi, la villa di Maria Luz; un quadrato più grande, circondato dal verde e dal giallo, la fattoria dei Mendoza.
Il cielo, a mano a mano che avanzava la notte, prendeva una colorazione particolare: azzurro carico, tagliato da una fascia rosa, su cui gli ultimi raggi del sole si condensavano.
Poi a destra, in basso, molto più in basso dell'aereo, nell'azzurro intenso comparve una palla bianca: la luna.
Mai Doña Inés avrebbe creduto che la luna potesse stare al di sotto di lei.

Poi il cielo si fece scuro, tanto scuro da impedire qualunque visuale; eppure c'era, là fuori, una piccola luce rossa, che pulsava: era il segnale dell'ala, che evidenziava il velivolo nelle tenebre. Quel segnale significò, per Inés, la sua infanzia. Si ritrasse dal cielo e si guardò intorno, dentro l'interno illuminato: a destra, nella fila parallela alla sua, stavano sedute due suore, che recitavano il rosario; accanto, verso il finestrino, impettita nel suo abito migliore, c'era Felipa. Inés non se ne meravigliò: quel viaggio le spettava di diritto; ricordò di quando le aveva detto, di ritorno da Madrid: "Adesso devi insegnarmi a volare."
Inés si sentì serena: era in mezzo al cielo. Se l'aereo fosse caduto, niente sarebbe cambiato, sulla terra: Ferdinando aveva le olive; Maria Luz, i figli e il ricamo; Rubina, i sui quaderni; Julia aveva l'America.
Poi considerò i passeggeri che le sedevano accanto: una coppia di sudamericani di mezza età: l'uomo aveva i baffi lunghi e appesi, gli occhi di cane da caccia; la moglie, scura e grinzosa, si stringeva uno scialletto rosso intorno alle braccia ossute.
Passò l'hostess, che offrì le riviste. Inés gliene chiese una in spagnolo.
"Usted habla espanol?" chiese, meravigliato, il vicino: l'aveva scambiata per un'americana.
Inés aprì la borsa e ne estrasse uno specchietto; guardò Il suo volto, così diverso da quello abituale: i capelli corti. gli occhiali scuri, un filo di trucco.
"Una delle due è una controfigura", pensò. "Sono io, che vado in America, mentre il mio doppio è rimasto a Ronda. Oppure è tutto il contrario?"
Intanto l'hostess stava distribuendo i vassoietti con la cena: in uno spazio minuscolo erano compresse scatole, scatolette, bustine. Districarle non era impresa da poco.
Questa complessa operazione distrasse Doña Inés dalle sue profonde meditazioni.



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