Limite di un pomeriggio d'inverno

Edizioni Solfanelli, Chieti, 1995


Il libro consta di 15 racconti:

Musica nel bosco
Il colombo
Le rocce dipinte
Trote vive
La piazza grande
L'uomo che dipinse le fate
Gli ex libris
Tre ritratti di Ceresa
I diamanti
La torre e l'ora
Gli ingrati
Le Parche
Ultima lezione sentimentale
Limite di un pomeriggio d'inverno

Presentazione di Franca Calzavacca

I diamanti


Presentazione Torna su

Il segno della scrittura viene indicato dall'impostazione estetica delle composizioni letterarie ma si identifica con il codice morale dell'autore.
Nella raccolta di racconti di Anna Ventura si può perciò procedere ad un'analisi di doppia valenza, logica ed analogica, proprio per i caratteri peculiari che distinguono i suoi episodi narrativi tracciati lungo i percorsi del segno e del pensiero.
Donna forte e delicata, crede nell'amore e nella virtù - rigore esistenziale - come un atto di fede per cui i suoi personaggi si muovono all'interno del racconto in una dimensione scomoda dove la vena romantica non è mai consolatoria, imponendo loro di scomporsi e ricomporsi in inquietanti paradossi. Ne consegue che la narrazione si organizza prevalentemente usando gli strumenti della ragione, i più crudeli, ciò in funzione del rispetto di alcune regole di ironico decoro, collaudate da effetti che non possono mancare il bersaglio. Ma poi le situazioni si deformano, si ribaltano ed il trucco fabulatorio del racconto fa intravedere il declino inarrestabile di una società tradizionale che ci rendeva sicuri, protetti, confortati.
La cifra femminile che sigla il fascinoso narrare dell'autrice si interseca nell'impalcatura ideologica classica, dalla grande energia immaginativa che pone al centro del suo personale universo semantico i complessi scenari di una coscienza in costante confronto con le forze del bene e del male, muovendosi su un terreno poco esplorato nonostante le apparenze narrative.
Sotto un tono tranquillo e filologicamente puntuale si celano insieme realtà, paure non confessate dell'animo umano.

Franca Calzavacca


I diamanti Torna su

Nel grigiore di Anversa - erano circa le nove del mattino, ma il sole freddo del Nord, schermato da un velo di bruma, faceva sembrare quell'ora antelucana - vide l'ebreo venirgli incontro, disinvolto nel suo abito nero, su cui la grande barba grigia si apriva come un ventaglio.
L'occhio acuto dell'altro aveva già arpionato il suo, pur protetto dallo schermo di due lenti fumé, e il passo aveva subito una leggera accelerazione, quasi per volere anticipare quell'incontro inevitabile.
L'uomo, che in omaggio ad un passato storico ormai remoto si chiamava Adolfo, avvertì la morsa del rifiuto. Perché la sorte lo aveva voluto figlio di un commerciante di diamanti?
Perché era lì, in quell'ora tetra, in quella città tetra, per incontrare una persona che non desiderava conoscere, per svolgere un compito al quale non si sentiva
portato?
La sola idea di dover contrattare con il principale fornitore di suo padre gli dava la nausea; ma non aveva avuto la forza di tirarsi indietro.
Se l'ebreo aveva accelerato il passo, lui, quasi ostentatamente, aveva rallentato. Che fretta c'era, in fondo?
Avevano tutto il tempo che volevano. - Ma i veri avari, si sa, sono avari anche del tempo -.
A sinistra vedeva il mare di Anversa: un mare troppo trafficato per essere ancora mare. Uccelli bui - corvi? - ci si buttavano sopra, stridendo.
A destra vedeva una lunga serie di case grigie; su di una di queste, tondo, solenne, ammonitore, torreggiava un orologio enorme.
Spinto da un senso di ossequio alle consuetudini turistiche piuttosto che da un vero interesse, era andato, il giorno prima, ad Amsterdam, in visita alla casa di Anna Frank. Ricordava ora, come un incubo, l'angustia delle stipo semovente, le scale ripidissime che salgono alle stanzucce alte.
Il sorriso della piccola Frank, nelle poche foto rimaste, era coraggioso, ironico, adulto.
Amsterdam, quella città bellissima, non gli era piaciuta; avvertiva che il vizio, con la sua sorda presenza, serpeggiava dappertutto: sui tetti a scaletta delle case accese dall'oro del tramonto; sulle chiatte acquattate nell'ombra dei canali; sulle ragazze belle, linde, composte, esposte in vetrina come bistecche sul marmo del macellaio.
Nel quartiere a luci rosse aveva visto, dentro una delle stanzette che si offrono disinvoltamente alla vista di chi passa, un uomo anziano, alle prese con una giovane negra, che gli sedeva di fronte. Di lei si distinguevano le labbra rosse e il viso liscio, le treccine lucide appuntate sulla sommità del cranio.
Da come stava seduto, un po' storto; da come piega- va la testa invecchiata sulle spalle strette; da come muoveva le labbra, si capiva che l'uomo era imbarazzato.
E non tanto, forse, per quell'approccio all'intimità, quanto perché, probabilmente, lui non parlava la stessa lingua della ragazza.
È la parola, il mezzo dell'umana comunicazione? Per gran parte degli uomini si può dire di sì.
Per Adolfo, la risposta era diversa: per lui, il mezzo di comunicazione era la musica.
Da ragazzo, quando era innamorato, si chiedeva come facesse a vivere quel resto dell'umanità che innamorato non era: come reggeva al grigiore e alla inutilità dei giorni?
Ora pensava la stessa cosa a proposito di chi non conosce la musica.
La luce fredda del Nord brillava sulle lenti tonde dell'ebreo; Adolfo ne mise a fuoco lo sguardo, animato da un sorriso di circostanza. Distinse una piccola vena rossa al culmine del suo naso; vide i fili grigi della barba, contorti (di metallo?).
Quell'ebreo doveva essere un marito e padre esemplare.
Una ventata di compleanni, di doni fatti e ricevuti, di eredità, di pranzi, di cerimonie, di imbrogli, di menzogne, di abitudini tetre, investì Adolfo come una frustata.
La nausea lo sommerse, quasi lo fece vacillare. Giunse,provvidenziale, il vento del Nord: quello che spinge le vele nere delle navi olandesi a scivolare, solenni, sul mare colmo. Che accarezza le sponde di castelli sconosciuti, le radici dei vecchi abeti.
Ormai l'impatto con l'ebreo era inevitabile. L'uomo era a due passi; impossibile non stringere la mano che si tendeva dalla manica lisa dell'abito nero.
Adolfo ne sfuggì lo sguardo, e si volse (paura?) verso il mare plumbeo. La banda liscia dei capelli scuri gli cadeva da un lato, coprendogli gran parte della fronte; i piccoli baffi neri sovrastavano la bocca stretta, il mento sfuggente era mosso da un tremito.
La svastica, che spiccava nera in campo chiaro sul braccio della giacca, era in linea con la mano che usciva dal polsino inamidato: una mano bianca, da esteta, che premeva il grilletto.
Lo sparo fu forte e liberatorio. Da una delle finestre della casa sovrastata dall'orologio usciva, esultante, la musica di Mozart.



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