Presentazione | Torna su |
Il segno della scrittura viene indicato
dall'impostazione estetica delle composizioni letterarie ma si identifica con
il codice morale dell'autore.
Nella raccolta di racconti di Anna Ventura si può perciò procedere
ad un'analisi di doppia valenza, logica ed analogica, proprio per i caratteri
peculiari che distinguono i suoi episodi narrativi tracciati lungo i percorsi
del segno e del pensiero.
Donna forte e delicata, crede nell'amore e nella virtù - rigore esistenziale
- come un atto di fede per cui i suoi personaggi si muovono all'interno del
racconto in una dimensione scomoda dove la vena romantica non è mai consolatoria,
imponendo loro di scomporsi e ricomporsi in inquietanti paradossi. Ne consegue
che la narrazione si organizza prevalentemente usando gli strumenti della ragione,
i più crudeli, ciò in funzione del rispetto di alcune regole di
ironico decoro, collaudate da effetti che non possono mancare il bersaglio.
Ma poi le situazioni si deformano, si ribaltano ed il trucco fabulatorio del
racconto fa intravedere il declino inarrestabile di una società tradizionale
che ci rendeva sicuri, protetti, confortati.
La cifra femminile che sigla il fascinoso narrare dell'autrice si interseca
nell'impalcatura ideologica classica, dalla grande energia immaginativa che
pone al centro del suo personale universo semantico i complessi scenari di una
coscienza in costante confronto con le forze del bene e del male, muovendosi
su un terreno poco esplorato nonostante le apparenze narrative.
Sotto un tono tranquillo e filologicamente puntuale si celano insieme realtà,
paure non confessate dell'animo umano.
Franca Calzavacca
I diamanti | Torna su |
Nel grigiore di Anversa
- erano circa le nove del mattino, ma il sole freddo del Nord, schermato da
un velo di bruma, faceva sembrare quell'ora antelucana - vide l'ebreo venirgli
incontro, disinvolto nel suo abito nero, su cui la grande barba grigia si apriva
come un ventaglio.
L'occhio acuto dell'altro aveva già arpionato il suo, pur protetto dallo
schermo di due lenti fumé, e il passo aveva subito una leggera accelerazione,
quasi per volere anticipare quell'incontro inevitabile.
L'uomo, che in omaggio ad un passato storico ormai remoto si chiamava Adolfo,
avvertì la morsa del rifiuto. Perché la sorte lo aveva voluto
figlio di un commerciante di diamanti?
Perché era lì, in quell'ora tetra, in quella città tetra,
per incontrare una persona che non desiderava conoscere, per svolgere un compito
al quale non si sentiva
portato?
La sola idea di dover contrattare con il principale fornitore di suo padre gli
dava la nausea; ma non aveva avuto la forza di tirarsi indietro.
Se l'ebreo aveva accelerato il passo, lui, quasi ostentatamente, aveva rallentato.
Che fretta c'era, in fondo?
Avevano tutto il tempo che volevano. - Ma i veri avari, si sa, sono avari anche
del tempo -.
A sinistra vedeva il mare di Anversa: un mare troppo trafficato per essere ancora
mare. Uccelli bui - corvi? - ci si buttavano sopra, stridendo.
A destra vedeva una lunga serie di case grigie; su di una di queste, tondo,
solenne, ammonitore, torreggiava un orologio enorme.
Spinto da un senso di ossequio alle consuetudini turistiche piuttosto che da
un vero interesse, era andato, il giorno prima, ad Amsterdam, in visita alla
casa di Anna Frank. Ricordava ora, come un incubo, l'angustia delle stipo semovente,
le scale ripidissime che salgono alle stanzucce alte.
Il sorriso della piccola Frank, nelle poche foto rimaste, era coraggioso, ironico,
adulto.
Amsterdam, quella città bellissima, non gli era piaciuta; avvertiva che
il vizio, con la sua sorda presenza, serpeggiava dappertutto: sui tetti a scaletta
delle case accese dall'oro del tramonto; sulle chiatte acquattate nell'ombra
dei canali; sulle ragazze belle, linde, composte, esposte in vetrina come bistecche
sul marmo del macellaio.
Nel quartiere a luci rosse aveva visto, dentro una delle stanzette che si offrono
disinvoltamente alla vista di chi passa, un uomo anziano, alle prese con una
giovane negra, che gli sedeva di fronte. Di lei si distinguevano le labbra rosse
e il viso liscio, le treccine lucide appuntate sulla sommità del cranio.
Da come stava seduto, un po' storto; da come piega- va la testa invecchiata
sulle spalle strette; da come muoveva le labbra, si capiva che l'uomo era imbarazzato.
E non tanto, forse, per quell'approccio all'intimità, quanto perché,
probabilmente, lui non parlava la stessa lingua della ragazza.
È la parola, il mezzo dell'umana comunicazione? Per gran parte degli
uomini si può dire di sì.
Per Adolfo, la risposta era diversa: per lui, il mezzo di comunicazione era
la musica.
Da ragazzo, quando era innamorato, si chiedeva come facesse a vivere quel resto
dell'umanità che innamorato non era: come reggeva al grigiore e alla
inutilità dei giorni?
Ora pensava la stessa cosa a proposito di chi non conosce la musica.
La luce fredda del Nord brillava sulle lenti tonde dell'ebreo; Adolfo ne mise
a fuoco lo sguardo, animato da un sorriso di circostanza. Distinse una piccola
vena rossa al culmine del suo naso; vide i fili grigi della barba, contorti
(di metallo?).
Quell'ebreo doveva essere un marito e padre esemplare.
Una ventata di compleanni, di doni fatti e ricevuti, di eredità, di pranzi,
di cerimonie, di imbrogli, di menzogne, di abitudini tetre, investì Adolfo
come una frustata.
La nausea lo sommerse, quasi lo fece vacillare. Giunse,provvidenziale, il vento
del Nord: quello che spinge le vele nere delle navi olandesi a scivolare, solenni,
sul mare colmo. Che accarezza le sponde di castelli sconosciuti, le radici dei
vecchi abeti.
Ormai l'impatto con l'ebreo era inevitabile. L'uomo era a due passi; impossibile
non stringere la mano che si tendeva dalla manica lisa dell'abito nero.
Adolfo ne sfuggì lo sguardo, e si volse (paura?) verso il mare plumbeo.
La banda liscia dei capelli scuri gli cadeva da un lato, coprendogli gran parte
della fronte; i piccoli baffi neri sovrastavano la bocca stretta, il mento sfuggente
era mosso da un tremito.
La svastica, che spiccava nera in campo chiaro sul braccio della giacca, era
in linea con la mano che usciva dal polsino inamidato: una mano bianca, da esteta,
che premeva il grilletto.
Lo sparo fu forte e liberatorio. Da una delle finestre della casa sovrastata
dall'orologio usciva, esultante, la musica di Mozart.
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