La capanna | Torna su |
Come spesso accade, un uomo
si innamorò di una tigre. L'uomo era un indù magro e nero, agile,
con il sorriso luminoso nel bianco dei denti e degli occhi; la tigre era una
vera tigre: lussuosa, gialla, indifferente.
Lui la vide fiammeggiare tra i canneti, mentre un raggio di sole, filtrando
tra il verde e l'acqua, accendeva l'oro del suo vello superbo.
Per molto tempo la tigre sembrò non accorgersi dell'uomo, ma venne
un giorno in cui lui ebbe l'impressione che i loro incontri non fossero più
occasionali, che non a caso la belva gli comparisse davanti all'improvviso,
alta sul picco di una collinetta, o acquattata nel folto di una boscaglia.
"Mia tigre - le diceva - avvicinati, anche per una sola volta!"
Seguendo le orme di lei - larghe, unghiate, felpate - l'indù si trovò,
una volta, nel bel mezzo di una popolosa città, tra gente indaffarata
e frettolosa, mercanzie straripanti, animali frastornati da tutto quel baccano.
Che poteva fare, una tigre, in un posto come quello? La folla sembrò
ingoiarla, e lei scomparve.
L'indù, abituato ad una vita solitaria, si sentiva smarrito.
Certamente la sua tigre aveva inteso ingannarlo, depistandolo in mezzo a quella
gran confusione.
L'uomo entrò in una caffetteria fumosa, dove pareva che entrassero tutti.
Lì, in un angolo,
vide la tigre, seduta su di una poltroncina a braccioli alti: era così
adorna di gioielli e avvolta in veli, che sembrava una donna. Lui avrebbe voluto
avvicinarsi e sedere accanto a lei, sull'altra poltrona che, per l'appunto,
era vuota. Ma la tigre prima lo scoraggiò con lo sguardo ironico dei
suoi occhi gialli, poi con la zampa fece un cenno ed un'altra tigre, vestita
da uomo, venne a occupare il posto accanto a lei.
Dopo quella mortificazione della caffetteria, l'indù pensò che
fosse veramente venuto il momento di rinunciare alla tigre e che fosse opportuno
tornare alle sue occupazioni, che, nel frattempo, aveva molto trascurate.
Una notte se ne stava a dormire nella sua amaca, quando sentì un piccolo
rumore, un graffio sottile, come un solletico, contro la porta di legno della
capanna.
Si alzò e andò ad ascoltare. Al graffio si accompagnava un rantolo
leggero, un uggiolìo sommesso e cauto, quasi il lagno di un neonato.
"La mia tigre!", pensò l'indù, e si sentì inondare
di un calore di gioia. Non volle aprire la porta subito, per non spaventare
l'ospite gradita; preferì arrampicarsi sulla seggiola e poi affacciarsi
all'alta finestretta della sua capanna.
Fuori splendeva la notte d'oriente. L'uomo ne aspirò l'essenza, estasiato.
Una nuvola coprì la luna e tutto lo splendore della notte parve improvvisamente
essere risucchiato dall'ombra e lui si trovò solo, immerso nel buio,
come in fondo a un pozzo.
Anche i rumori sembravano essersi spenti. Non udiva più, infatti, quel
raspìo che gli era sembrato un segnale della tigre.
Cercò di fissare lo sguardo in basso, dove aveva creduto che si trovasse
la belva; ma nessun guizzo della sua pelle dorata, né il lampo del suo
occhio di topazio raggiunsero la sua vista.
La tigre non c'era.
Forse, non c'era mai stata.
O c'era stata e poi se ne era andata, per beffarlo. "Mia tigre!",
sussurrò, e sentì che il freddo lo avvolgeva come un lenzuolo
bagnato.
Al mattino, di buon'ora, aprì la porta e guardò bene intorno alla
capanna: sulla terra umida c'erano tracce di tigre, e nell'aria c'era qualcosa
di lei: un odore forte e denso, un tremolio dorato.
"Mia tigre!": era, ormai, un'espressione inconsapevole, una giaculatoria.
* * *
Venne la stagione delle
piogge e con essa una grande malinconia.
L'uomo se ne stava inerte sulla sua amaca, sotto il tetto della capanna battuto
dalla pioggia incessante.
Anche l'aria era piena d'acqua; le foglie, l'erba, i fiori, i tronchi degli
alberi, la capanna erano completamente intrisi d'acqua.
In quella noia, l'idea della tigre poteva brillare come uno smeraldo.
Ma l'uomo non voleva più pensare a lei.
Qualche volta, meccanicamente, ripeteva: "Mia tigre!"; ma sapeva bene
che non doveva farsi più illusioni.
Fu in un giorno più viscido e cupo degli altri che la tigre balzò
improvvisamente nella capanna, abbattendo il fragile ostacolo della porta di
legno.
L'uomo ne fu sbigottito.
Incontrò la luce gialla degli occhi della belva e pensò che lei
volesse sbranarlo.
"Mangiami! - le disse - Ne sarò felice." Ma forse la belva
non aveva fame.
Percorse in tondo la capanna, urtò con la massa morbida del suo splendido
corpo le povere cose che ne erano l'arredo,
poi infilò il varco della porta attraverso il quale era entrata.
L'uomo non poteva non seguirla. Lo fece subito, d'istinto, senza nessuna protezione
contro la pioggia battente, tra il fango e le piante gocciolanti.
La belva filava, sicura, verso una mèta che solo lei conosceva.
Attraversarono tutta la boscaglia bagnata e giunsero ad una radura.
La tigre tagliò di sghembo, diretta verso una macchia d'alberi che si
intravedeva lontana.
L'uomo era ormai esausto, ma deciso a proseguire. La tigre entrò in una
caverna.
Anche lì l'uomo volle seguirla, pur consapevole del pericolo che correva.
La caverna era immensa e piena di echi, il terreno era viscido e sdrucciolevole.
L'uomo procedeva cauto, fiutando una minaccia. Tendeva l'orecchio, ma i piccoli
rumori che sentiva non gli indicavano niente di preciso.
Lo sgocciolio delle stalattiti pendenti dalle volte altissime, lo sgretolio
di frammenti di roccia staccati dalle pareti, il tenue fruscio prodotto dai
suoi piedi che si muovevano cauti sul terreno infido erano gli unici segni di
vita, in quell'antro buio e spettrale. Sentì un soffio accanto all'orecchio
e fu certo che la tigre gli fosse accanto; forse si era acquattata nel buio,
e ora lo aggrediva alle spalle.
Improvvisamente, le tigri ruggirono tutte insieme. Non una, ma tre, cento tigri
urlarono, all'unisono, la loro ferocia felina, l'innata sete di sangue.
L'uomo si sentì perduto; pensò che, tra poco, di lui sarebbe rimasto
solo qualche resto di carne e ossa sanguinanti.
Eppure, nel momento del supremo sacrificio, fanaticamente, si sentì felice:
aveva finalmente raggiunto l'olocausto, il passaggio senza ritorno.
Solo, inerme, in mezzo al vuoto e al buio, aspettò che il sacrificio
venisse consumato.
Ma le tigri non vollero attaccare. Le sentì muoversi e poi fuggire via,
come un esercito che volge in ritirata: un trotto felpato, una sfilata di corpi
morbidi e lucenti, diretti chi sa dove.
Quando la fuga ebbe termine, l'uomo riprese il cammino a ritroso, verso l'uscita
della spelonca e quando vide un punto luminoso in lontananza, dopo un lungo
percorso nel silenzio e nel buio, fu certo di essere salvo.
Presto raggiunse l'uscita della grotta e, quando fu fuori, sulla terra, tra
gli alberi, le bacche e l'erba, e vide il cielo chiaro sulla sua testa, e avvertì
il calore del sole, capì che un uomo è un uomo, e una tigre è
una tigre. E un uomo che va verso la sua capanna, sotto un cielo fatto per lui,
su di una terra a sua misura, è felice due volte: perché sa di
essere un uomo, e perché va verso il luogo che più gli è
caro.
Quando fu vicino ad uno stagno, si chinò a bere e nell'acqua chiara vide
se stesso come in uno specchio: un volto magro e scuro, tra il lucore della
luce e dell'erba.
All'altro lato dello stagno, immobile, c'era la tigre, che lo guardava con gli
occhi simili a due monete d'oro.
Ma l'uomo non ricambiò il suo sguardo. Ormai aveva solo fretta di raggiungere
la capanna e lì accendere un fuoco.
Perché è del fuoco che le belve hanno più paura.
Il volo | Torna su |
In una notte d'estate caldissima,
una donna dormiva, sola, in una stanza di una casa alta.
Il respiro del cielo, entrando dalla finestra spalancata, le dava un po' di
refrigerio, dopo una giornata estenuante.
La donna aveva quell'età in cui chi ha scelto, per poter vivere, di battere
il marciapiede, viene strangolata dal magnaccia, o da qualche altro occasionale
carnefice; in tal modo, per un giorno, le spettano gli onori della cronaca.
Chi, invece, sceglie mestieri più onorati e meno pericolosi, aspetta
di essere uccisa lentamente, per dissanguamento, come il toro nell'arena sotto
i colpi dei picadores.
Lei apparteneva a questa categoria; l'orgoglio e l'insofferenza non le avevano
permesso di arricchire, nonostante un'intera vita di duro lavoro; la generosità
e la sfortuna avevano fatto il resto, riducendola quasi in povertà.
Nonostante questo, la donna, in quell'ora alta della notte d'estate, si sentiva
beata.
Quel letto, col materasso sporcato dal mestruo, con le lenzuola di cotone liso
e ammorbidito, col cuscino azzurrino, certamente le apparteneva. Lì poteva
riposare, in quella stanza buia e calma, mentre dalla finestra aperta le giungevano,
lontani, i segni della vita di fuori, che si andava spegnendo: voci remote di
passanti, persiane che venivano chiuse, e il treno che scorreva, piccolo e lontano,
con tutti i vagoni illuminati nella notte.
Era il sonno, il suo grande
amico. E, nell'attendere il suo abbraccio, la donna aveva momenti di tenero,
dolcissimo interludio: un dormiveglia nel quale i fatti del giorno appena concluso,
o le vecchie storie, scorrevano nella sua mente come il trenino sui binari:
remoti, irrevocabili, fantastici.
Poi il sonno la portava in altri luoghi, in altre dimensioni.
In quella notte di caldo afoso, un refolo di vento agitò la tenda chiara,
raggiunse la donna fino al guanciale azzurrino e ai capelli sparsi. Il sonno
tardava a venire. Nel dormiveglia, lei ricordò un episodio di per sé
insignificante, ma che le tornava spesso alla memoria.
Una sua zia era morta in ospedale e lei andò a cercarla all'obitorio,
in compagnia di una cugina.
Le salme erano tante, e bisognò guardarle una per una prima di ritrovare
il corpo ingiallito e piatto della zia.
Accanto a lei stava distesa una donna ancora giovane, con gli occhi sghembi
e il naso aquilino, i capelli crespi. La bocca semiaperta lasciava vedere i
denti, che erano bianchi e grandi, tagliati da un'incisione profonda alla base
della radice. In quei denti, forse, erano il segno e la spiegazione della sua
morte precoce. Ma lei, ormai, era assente e intoccabile, una grande bambola
impagliata, e una sola certezza emanava dal suo corpo irrigidito: nessuno, mai,
avrebbe potuto più offenderla.
Di rimando, la storia del gatto, letta in un libro di Gadda.
Un gatto cadde da una finestra, ma non morì: perché, come tutti
i gatti, aveva sette vite.
Un ragazzo, incuriosito da tanta vitalità, prese il gatto e lo gettò
di nuovo dalla finestra, per vederlo ancora rimbalzare, vivo, sul selciato.
Poiché il gioco lo divertiva, volle ripeterlo ancora una volta, ma questa
volta il gatto morì.
Perché ogni oltraggio è morte.
* * *
Ora la donna sognava.
Stava con sua sorella sotto a un ombrellone, al mare. Tutti parlavano.
"Dov'è il mare?", chiese alla sorella.
"Il mare? È fuori la porta", rispose l'altra, e girò
una maniglia.
Oltre la porta non c'era il mare, ma un fiume rapinoso, che correva a precipizio,
trascinando pezzi di legno e rami.
"Ma è pericoloso", disse lei.
"No, c'è la zattera", rispose la sorella.
C'era, infatti, un grande legno cigolante, inzuppato d'acqua.
Ma già la corrente lo stava trascinando via, travolgendolo nella sua
corsa.
Svegliarsi da quel sogno fu piacevole. Dall'immagine tumultuosa della grande
corrente, la donna tornò alla pace del suo letto, alla fresca carezza
della notte che entrava, con i suoi veli neri, dalla finestra spalancata.
Avrebbe voluto poter abbracciare la notte, immergersi nel suo mantello.
Il volo! Percepì un rumore come di nacchere, il rumore del legno che
salpa.
Lentamente, con tutto il suo carico - la donna, il materasso, il guanciale,
il lenzuolo - il letto si mosse.
Imboccò l'apertura della finestra spalancata, ondeggiò nel cielo
nero, planò nella notte.
La donna avvertì l'ebbrezza del volo, ma non volle guardare in basso.
Intuiva ugualmente i passaggi del lungo viaggio; le cime delle abetaie azzurrate,
il respiro umido del mare, il vento secco del deserto, il silenzio inquieto
della metropoli addormentata, il fumo del camino del casolare sperduto nella
pianura.
Fu un lungo, bellissimo viaggio.
Al mattino, la donna si svegliò riposata. Era lunedì, il giorno
migliore della settimana. Mentre beveva il caffè nella sua tazza scura,
mentalmente ripercorreva il suo volo, incerta se attribuirlo alla realtà
o al sogno.
Aveva deciso per questa seconda ipotesi, quando vide sul guanciale la polvere
dorata della sabbia del deserto, portata dal vento africano.
"Veramente, dunque - pensò - ho volato, questa notte!".
Ma poteva anche darsi che quel pulviscolo avesse una origine diversa, che fosse
stato portato, attraverso la finestra aperta, da un forte vento nostrano.
Anche questa era un'ipotesi possibile: così breve è il passaggio
tra la realtà e il sogno.
Note critiche | Torna su |
L'ultima fatica dell'affermata scrittrice
ha tutti i requisiti per essere un prodotto di fruizione immediata, avvincente,
ammaliante, da assaporare lentamente, secondo i ritmi proposti, ma tutto d'un
fiato per l'interesse suscitato. Successo confermato soprattutto a conclusione
della lettura, quando, terminato l'ultimo racconto, ci si accorge di volerne
altri.
Ciò che rende personale la raccolta della Ventura è, paradossalmente,
la stretta aderenza ai canoni letterari della migliore tradizione delle "short
stories", quella che in Edgar Allan Poe ha raggiunto il massimo vertice
espressivo e che rintraccia nella prolifica vena del romanzo fantastico argentino
di un Borges ma anche di un Bioy Casares o di una Ocampo.
Senza truci assassini, morti violente per colpe inconfessate, o saghe orgiastiche
al sole di mezzanotte, il racconto della Ventura dona al lettore il senso autentico
dell'inquietudine, suscita l'archetipo istinto alla paura, quel timore che l'uomo
awerte, sempre e comunque, al di là dell'ovvia razionalità."
Laura Quieti
in: "Post Scriptum" - Pescara - agosto/ dicembre 1989
In questi racconti l'atmosfera è onirica, trasfigurata e trasfigurante nel sogno, che è comune a tutti noi come una regola del subconscio a contatto con una realtà temuta. Alcuni passi dei racconti, poi, assumono una vera aura poetica specie nelle descrizioni surrealistiche, dove "il duro sonno della ragione" predomina e si impone.
Antonio Caggiano
in: "Il Resto del Carlino" - Ferrara - 8 marzo 1990
Di Anna Ventura è ben nota e apprezzata la produzione poetica. Con "I sogni della ragione" ella mostra di voler continuare ad alternarlo con quella in prosa, esibendo un passo narrativo abile, maturo, affascinante.
Enrico Bagnato
in "La Vallisa" - Bari - anno IX n° 25, aprile 1990
Anna Ventura è sicuramente una delle non molte voci letterarie abruzzesi che può testimoniare una continuità e una serietà di impegno assieme alla garanzia di un'autentica ricerca. Ora, con quest'ultimo libro di racconti, "I sogni della ragione" (Book Editore), l'autrice aquilana conferma le sue doti di limpida narratrice, di attenta e matura tessitrice di storie che hanno il dono dell'immediatezza e della poesia."
Marco
Tornar
in "Vario", Pescara, n° 10, dicembre 1990
Nella sua duplice partizione il libro
accoglie prose brevi e prose lunghe, minimi scandagli e costruite architetture
che crescono e stringono verso l'epilogo. Nelle una come nelle altre l'epilogo
è insieme disvelamento e sigillo, nodo estremo che serra le istanze e
dà senso al viaggio.
Ma si badi, con ribaltamenti e colpi imprevisti: un po' alla maniera del giallo
puro, in una o due battute fulminee che mettono e riassestano un mondo sconvolto.
Pasquale Maffeo
in: Abruzzo Letterario - Avezzano - anno III n°1, marzo 1991
Quando le short stories si aprono al canto, l'occasione d'incipit, seccamente realistica e descrittiva, d'improvviso si sposta dalla sfera concreta a quella immaginaria. L'intensa carica simbolica tende a provocare nel lettore come un effetto d'ipnosi, con un ritmo di sottofondo entro il quale i racconti si snodano. E' forse la musica dei sogni che si stempera nel mistero delle notti lunghe.
Elena Salibra
in "Stazione di Posta" - Firenze - n° 38/41, novembre 1990/ giugno
1991
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