Lo specchio vuoto
M. Solfanelli Editore, Chieti, maggio 1992
cm 21x14 - pp. 121

Illustrazione di copertina di Stefano Ianni


Il libro consta di 4 rocconti:

La rondine
Le margherite
I cavalli bianchi
Lo specchio vuoto

Presentazione

I cavalli bianchi

Note critiche


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Nell'interessante saggio dello studioso Roger Caillois "Dalla fiaba alla fantascienza", l'autore fa notare come "meraviglioso, narrazione fantastica, fantascienza assolvono nella letteratura una funzione equivalente, che sembrano trasmettersi: da un lato prolungano nell'immaginario stato presente della potenza e della conoscenza di un essere la cui ambizione è senza limiti. Dall'altro poiché quel medesimo essere è fragile e bisognoso, lo cullano nell'eterno miraggio dell'efficacia della magia, istantanea, totale che non esige da lui se non un gesto o una parola fondamentali."
Del perché questo genere letterario, sia esso fantasy o fantascientifico, venga negli ultimi anni così frequentato dalle donne, come autrici e lettrici non è facile a dirsi. Certamente non è stata solo la volontà di entrare in uno degli ultimi luoghi quasi esclusivamente maschili; anche se questo fatto ha comunque contribuito non poco a cambiare la sensibilità e lo spessore di molta parte di questa
letteratura.
Di certo c'è che le autrici di fantasy e fantascienza prediligono partire dal quotidiano e dalla "semplicità" della vita piuttosto che affollare i loro lavori letterari di massicce astronavi e intricate storie di esseri fiabeschi: una certa stringatezza nella scrittura e un senso di rigore, quasi di pudore contrario alla ridondanza, è una caratteristica molto comune tra le scrittrici.
Una prova dello stile che contraddistingue le donne in questo genere narrativo eccolo nei racconti Anna Ventura.
Niente colpi di scena eclatanti: nessuna concessione allo strabiliante: soltanto sottili e insinuanti suggestioni, che potranno portare chi legge sulle strade della nostalgia e del dubbio circa la certezza realtà che crediamo di avere, sempre e comunque in pugno, con la razionalità della mente.

Monica Lanfranco


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Analizzò il suo stato d'animo e fece una diagnosi: una aristocratica rassegnazione. La stessa che provava, da bambina, quando a scuola non le assegnavano il voto giusto, o i genitori non indovinavano i doni che lei si aspettava dalla Befana.
Non si cambiano, le persone. Tra le sue imprese più disperate c'era stata quella, appunto, di voler nobilitare gli imbecilli, elevandoli a livelli di intelligenza o anche di semplice razionalità, a cui loro non potevano - né volevano - accedere.
Da tempo, ormai, aveva rinunciato. Ma non gliene veniva uno stato d'animo allegro, bensì un'uggia, una cupezza opprimente: se la sentiva pesare addosso, Luisa, mentre camminava nella brughiera, avvolta nel suo loden verdebosco, con accanto la cavalla bianca che manteneva il passo, retta con la briglia.
Il paesaggio era il solito, che lei amava: una vasta distesa brulla, interrotta qua e là da ciuffi di alberi e spineti; lontane le colline, lontanissimi i monti, e nessun casolare in vista, nessun segno della presenza dell'uomo.
Quel percorso solitario e selvatico portava ad un laghetto livido, o meglio uno stagno, meta abituale delle sue passeggiate.
Il percorso tra casa sua e lo stagno era di tre/quattro chilometri, ma la sensazione di solitudine che dava il paesaggio - la casa presto scompariva, ad una svolta del sentiero - rendeva quelle passeggiate simili ad un abbandono del mondo reale, una immersione nel mistero di una natura magica, imprevedibile e consolante.
Durante quelle camminate, Luisa sentiva che la distanza che la separava dagli altri esseri umani si rarefaceva in una calma accettazione, nel sussurro amico degli elfi nascosti tra gli alberi, l'erba e l'acqua.
Ma, quella volta, il suo cruccio stentava a sciogliersi. Non era stata una beffa da poco, quella che aveva subita. Un uomo l'aveva circuita, simulando un sentimento spontaneo e sincero, con uno scopo per lo meno ignobile, che si era rivelato chiarissimo soltanto alla fine: ottenere da lei l'appoggio presso suo marito, arbitro quasi unico in una gara accademica che vedeva l'altro come svantaggiato concorrente.
Ma il gioco si era inceppato sul suo stesso ingranaggio: lei aveva ritenuto indiscreto raccomandare presso il marito quello che poteva essere un suo probabile amante; ignara dell'impostura, aveva seguito ciecamente la sua illusione abbacinante, in una dimensione esaltante ed ingenua, che l'aveva resa, per qualche tempo, felice.
L'aspetto grottesco della faccenda era poi rappresentato dal fatto che Ludovico, il corteggiatore ambizioso,era anche amico di famiglia: la sua audacia si era spinta tanto avanti non per sprezzo del pericolo, ma per cialtroneria e superficialità.
Aveva avuto una battuta d'arresto solo quando lui stesso, pur nella mediocrità della sua intelligenza, aveva capito che il gioco poteva farsi pericoloso, e controproducente, giacché Luisa aveva preso la cosa sul serio, ne andava facendo il peggiore uso che una donna può fare di un corteggiamento: un drammone sentimentale.
Intanto la tenzone accademica si era risolta a sfavore di Ludovico; Luisa aveva lentamente capito il gioco, fino a sottrarsene con disgusto; ma l'ipocrita amicizia di famiglia era rimasta, giacché non c'erano motivi palesi perché venisse meno.
In quel momento, mentre Luisa camminava con accanto la cavalla bianca, suo marito e Ludovico erano rimasti a casa, per passare il pomeriggio festivo giocando a carte.
Era un pomeriggio invernale, e tra poco il sole, che dilagava basso sulla radura, sarebbe tramontato dietro le colline, lasciando un paesaggio coperto di ombre viola.
L'idea di quei due, testa a testa intorno a un tavolinetto tondo, nella quiete ovattata del salotto alto borghese, appariva a Luisa tanto ridicola da farla sorridere.
Sorridere di sé, anche: della sua ingenuità da adolescente, nonostante il passare degli anni.
Ma non è l'ingenuità, in fondo, il segno della forza degli ideali e dei sentimenti, delle innumerevoli suggestioni letterarie che una certa cultura e una certa educazione riescono a inculcare, e che resistono, nonostante l'aridità suggerita dal cinismo e dalla ottusità della gente?
La severità con cui aveva giudicato se stessa, nei giorni brutti della rivelazione dell'impostura, la durezza con cui si era autocensurata per la propria ingenuità e sventatezza, lasciavano il posto, ora, ad una cena tolleranza, alla comprensione per una debolezza che non era stata vanitosa, né volgare.
Ciò non toglieva, tuttavia, che lo spettacolo della grettezza dell'uomo in cui aveva creduto la deprimesse profondamente.
In questi pensieri aveva raggiunto la fine del viottolo, che sbucava in una radura aperta, che bisognava attraversare per raggiungere lo stagno. Luisa rifletteva sull' ingenuità, sull' omnia munda mundis di manzoniana memoria. Da bambina e da adolescente aveva fatto più di un brutto incontro; ma non era a quegli squallidi episodi che, in quel momento, aveva voglia di pensare. Si fermò invece a riflettere su di un fatto marginale, che le era accaduto quando aveva diciassette anni: un episodio dimenticato, forse per una rimozione dell'inconscio. Ora riemergeva, per uno di quegli strani fenomeni della memoria, che ogni tanto attinge al suo pozzo di acqua torba.
All' epoca del fatto, lei aveva un ragazzo, il suo primo ragazzo, impacciato e pieno di scrupoli.
A casa di Luisa lavorava una donna di servizio svelta, sui quarant'anni. Un giorno, la donna invitò la signorina e il ragazzo a farle visita a casa sua.
Andarono. La donna abitava in un vecchio quartiere di vicoli e bassi; la casa era a piano terra.
Bussarono; fu lei stessa che aprì la porta e li introdusse in una stanza poco illuminata, con un arredo modestissimo: un letto turco, un tavolo, qualche sedia, un credenzino e un mobile basso con sopra un grammofono e una pila di dischi.
Nonostante la povertà, la stanza non era priva di qualche attrattiva. C'era, in quell'ombra, in quella umidità avvolgente, qualcosa di misterioso, di cui la sensibilità di Luisa intuiva la presenza, senza saperne definire i contorni.
Sul grammofono un disco girava e spandeva una musichetta lamentosa. La donna uscì dalla stanza e rientrò, dopo poco, con un vassoietto e due bicchieri.
Dal credenzino estrasse una bottiglia di rosolio e la posò sul tavolo. Poi uscì di nuovo, per non fare più ritorno.
I minuti passavano. Il ragazzo, già nervoso, divenne nervosissimo. Luisa era incerta tra lo stupore e il divertimento; quella situazione strana, tutto sommato, non le dispiaceva.
Poiché la musichetta continuava, propose al ragazzo di ballare. Ballarono. Poi il suono finì e tra loro due cadde un silenzio imbarazzato. Luisa versò il rosolio nei bicchieri e ne offrì uno al ragazzo; cercò un altro disco e lo mise a girare sul grammofono. Ballarono ancora.
Dalla finestra che dava sul vicolo entrava l'ombra della sera; l'assenza prolungata della donna li lasciava sempre più perplessi: era ora di andare, ormai. Luisa si alzò di scatto e andò ad aprire la porta; vide, nel corridoio che divideva le stanze, un soldato seduto su di una panca, con l'aria di uno che aspetta.
Finalmente, da una delle porte uscì la donna di servizio, e guardò Luisa e il ragazzo con una curiosità strana, intensa e indiscreta. Loro se ne tornarono a casa in silenzio, mortificati per qualcosa che non sapevano ben definire, e che si trasformava, specialmente nel ragazzo, in un imbarazzo angoscioso.
L'episodio tornava, ora, alla mente di Luisa, a distanza di quasi trent'anni, con incredibile chiarezza; e con chiarezza lei capiva, finalmente, che quella era una casa per appuntamenti, che la donna aveva cercato di coinvolgerli in una tresca da cui, forse, sperava di trarre qualche vantaggio. Ma la loro ingenuità aveva evitato l'imbroglio.
Omnia munda mundis, anche allora.


L'aria si era fatta grigia. Piccoli fiocchi di neve volteggiavano come petali di mandorlo. Il paesaggio era spettrale.
Luisa ricordò che, un anno prima, più o meno a quell'ora, si era incontrata con Ludovico, in quello stesso posto.
Il ricordo le mise in cuore una lama di struggimento; si sentì senza forze, inutile e pesante. Sempre la leggerezza era, per lei, un segno di benessere, mentre il dolore, le disillusioni e le offese la rendevano ottusa e greve.
Il nuovo anno si annunciava opprimente.
Si chinò e raccolse un piccolo ramo: era nero, infradiciato dalla neve e stecchito dal gelo.
Sentì il freddo e l'umidità salire dal basso, come un albero che ha immerse nel gelo le radici; desiderò tornare a casa, per trovarsi in un luogo asciutto e caldo, luminoso.
Ma l'idea dei due uomini intenti a giocare a carte la deprimeva, le rendeva quasi preferibile trovarsi in quella campagna gelida, nell'imminenza di una bufera.
Dal cielo scendeva l'ombra; dalla terra saliva una nebbia lattiginosa, umida e silente. Gli alberi, i rovi, i sassi sporgenti dalla neve si erano fatti ostili. La cavalla aveva preso a fremere, inquieta; strattonava la briglia.
"Buona, Emma," disse lei. "Torniamo a casa." Si accorse di avere affrettato il passo, e volutamente lo rallentò, per non innervosire di più la bestia.
Aveva avvertito un rumore, alle sue spalle, un tonfo appena percettibile, ingigantito dal grande silenzio di quell'ora.
Ilrumore si ripeté, questa volta più chiaro: era un tonfo pesante, ovattato dalla neve, come prodotto da un balzo.
Si girò, scrutando l'ombra: forse uno scoiattolo, una lepre, uno dei tanti piccoli animali pelosi che popolano le campagne, si muoveva dietro di loro.
Non vide nulla, e riprese a camminare. Iltonfo si ripeté, più vicino. Questa volta la cavalla si impuntò, testarda.
La donna temette la sua ostinazione; per la prima volta si rese conto di essere in compagnia di un animale, un essere appartenente ad una razza diversa, misteriosa.
Più volte spronò la bestia, incitandola a camminare; ma quella, impietrita, fissava la riva opposta dello stagno, come se vi vedesse qualcosa. Luisa era miope, strinse gli occhi per guardare meglio: sull'altra sponda c'era una forma grigia e alta: poteva essere un uomo, ma anche un tronco d'albero, o un'altra cosa inanimata.
Chiunque o qualunque cosa fosse, stava immobile, nella neve che volteggiava.
L'occhio della cavalla era fisso, ottuso, inespressivo; di fronte a quella incomunicabilità totale, Luisa ebbe paura. Ma non volle precipitare la situazione, perciò tentò di parlarle, come era abituata a fare.
"Insomma, Emma, non ti vuoi più muovere. Ebbene, sai che facciamo? Ce ne torniamo subito a casa. Ora ti salgo in groppa. Basta a passeggiare; corriamo!"
Nel montare sulla bestia, sentì che il corpo era rigido, marmoreo.
Dio mio! pensò. Forse sta male. Forse si è congelata.
Le toccò le orecchie, e sentì la consistenza dura della pietra. Le narici avevano smesso di fumare; la criniera era dura, un ammasso di fili di ferro.
Scivolò giù dai fianchi della bestia e la guardò dal basso: era una statua, un monumento di pietra bianca, come quelli che stanno nelle piazze, cavallo e imperatore.
Dall'altro lato dello stagno, la figura grigia aveva preso a muoversi, e avanzava dalla sua parte.
Luisa capiva che, ormai, abbandonare quel luogo le era impossibile. Quella campagna, quel silenzio, lo stagno poco lontano, l'ottusità misteriosa della neve, le impedivano di allontanarsi. Come nei sogni, non riusciva a procedere. In quell'atmosfera, ogni timore si acquietava; ogni vicenda, ogni persona, si collocava al posto giusto, che era un posto insignificante.
Il tonfo che aveva udito alle sue spalle si ripeteva, a intervalli regolari, tutt'intorno.
Allora seppe di essere in un cerchio, prigioniera.
Poi tornò il silenzio, e nel silenzio sentì la neve che frusciava leggera, e la copriva tutta di bianco, a mano a mano.
Passò un tempo indefinito, durante il quale il sonno si alternò ad una veglia torpida. Poi dall'ombra venne un fruscio di passi: qualcuno si avvicinava.
Poteva essere l'uomo grigio, che arrivava dallo stagno, e forse era già lì vicino, nascosto dalle tenebre.
Poi sentì un parlottìo animato, riconobbe voci che conosceva. Una luce forò la notte, e dietro al cerchio giallo della torcia elettrica Luisa riconobbe le figure ingobbite di suo marito e di Ludovico. Arrivavano, gli uomini di casa.
Allora i suoi nervi cedettero al buio e al silenzio, e il mondo scomparve, per lei, con i suoi orrori e i suoi mezzi di salvazione.


Si svegliò nella sua stanza, che le sembrò piccolissima e raccolta, un'urna foderata di carta a fiori minuti. Poi la stanza si animò delle presenze umane che più amava: suo figlio Luca, e Amelia, la governante buona.
A primavera la cavalla partorì un puledrino bianco, al quale fu messo il nome di Ciro.
Visti da lontano, dalle alte finestre della villa, immobili in mezzo al prato, parevano due statue bianche.
Due statue di marmo, scolpite dai maestri della Grecia antica.




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Da "La strada ebrea" (197S), che segnò l'esordio dell' Autrice nella narrativa, sono passati diversi anni. Pur tuttavia, due considerazioni ci sentiamo di esprimere: l'una, riguarda la riconferma di quelle "favorevolissime intenzioni" che riportava Vittoriano Esposito in una sua nota al libro: l'altra, nonostante il lasso di tempo trascorso, riguarda il persistere in Anna Ventura di quella sorta di freschezza di osservazione che la porta a guardare il mondo con la curiosità meravigliata degli occhi e delle orecchie di Alice ("occhio intento e orecchio avido"): le stanze, gli arredi, i giardini, i trapassi della luce solare, i tagli delle fisionomie, l'ingegneria degli stati d'animo, le coordinate della allusioni e delle delusioni.

Alfredo Fiorani
in "Oggi e Domani" - Pescara - anno XXI, gennaio/febbraio 1993



Nei racconti de " Lo specchio vuoto" la tematica chiaramente esistenzialista, non so se d'ispirazione Kafkiana, buzzatiana o d'altri, raggiunge la leggerezza di pure esercitazioni allegoriche, di limpide parabole di poesia, il cui nucleo essenziale è costituito dal rifiuto implicito di tutto ciò che di angoscioso il presente storico ci ammannisce quotidianamente, come rinuncia e denuncia, a livello squisitamente creativo (ossia oltre ogni intenzionalità gnomica), d'una condizione esistenziale non più umanamente sostenibile.

Pietro Civitareale
in "Stazione di Posta" - Firenze - n° 51/52
1983



Un surreale concepito come prolungamento del contingente e dell'effettuale razionale. Non è la realtà a fuggire nel sogno, ma il sogno a essere concretizzato. Si scopre così che il linguaggio descrittivo e realistico non è che un pretesto per attirare il lettore nella trappola del fantastico, per aprirgli, con una narrazione semplice, le porte del labirinto e dischiudergli i segreti del sogno.

Marco Tabellione
in: "Il Centro" - Chieti - 6 febbraio 1993



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