Le spighe incrociate | Torna su |
Lontano, nelle stanze dell'orzo,
passano le anime morte.
La polvere ricopre
le spighe di grano incrociate,
segno di fertilità improbabile,
inutile scongiuro.
Sopra ai letti di ferro,
il sogno è avaro,
difficile la veglia -
dure madonne guardano dall'alto -
Fuori la notte scorre
stritolando il gelo
i coppi dei vecchi tetti.
Anche domani sarà breve il giorno,
ora che è inverno
e i vecchi
siedono al fuoco con le mani grandi,
la neve copre le case,
passa il tempo senza ragione.
La specie | Torna su |
Questi stracci neri
che vedi appollaiati sulle panche
sono donne che
hanno fatto i figli
servito la terra
vestito i morti.
Il loro quoziente di intelligenza
è spesso superiore
a quello di una laureata.
Lo dice l'esatta geometria
con cui si dispongono
sulle scale di pietra,
ai ferri dei balconi,
accanto allo stipite della porta di casa.
O qui, nella casa del Signore che,
uno e trino,
le sa fedeli, uno dei tanti teoremi
che la natura con matematica certezza
formula, attua
e lungamente conserva
Piccolo ritratto | Torna su |
Donna al telaio
curva al legno e ai fili,
esprimi quello che da sempre si vuole l'ubbidienza.
Se alzi gli occhi per un attimo,
donna al telaio,
ti chiederanno perchè non torni a guardare la tua tela.
Hai solo un attimo di tempo,
donna al telaio,
per osservare il mondo
e possederlo.
Il quadro | Torna su |
Mai mi pentirò abbastanza
di una pigra omissione:
non aver comprato un quadro
di un oscuro pittore:
quattro contadine anziane
con la pezza in testa,
quattro sedie impagliate,
una caffettiera sul tavolo nudo.
Certo l'autore ignorava
le leggi della prospettiva
ma conosceva benissimo
lo squallore assoluto
della solitudine delle donne
quando é consolata
dalla solitudine di altre donne.
Il lupo | Torna su |
E' l'ora i cui si accoppiano
le tigri
e scoppia il fiore delle serpi.
Gli dei camminano scalzi, il capo ornato di foglie.
Sul tronco duro del pino
la goccia si fa resina
e la capra avida morde l'ombra,
diavolo contadino.
Ora che il sole è nero
anche il lupo sta immobile
come il bufalo e il leone.
Ma una foglia che cade,
un filo d'erba che si muove,
un vento labile,
gli riporta la rabbia delle vette;
allora fugge con i fianchi stretti
e gli occhi sghembi,
giù nella gola secca del torrente,
non lo tormentano la fame e la sete,
ma la sua lupità,
un modo di esistere in natura.
Il calendario dell'Avvento | Torna su |
Se un giorno spezzerà
anche i cuori di ghiaccio
Il calendario dell'avvento,
non sarà con la festa degli abeti,
né con l'oro dei canti liturgici.
Ma col fumo di un solitario camino,
contro il freddo compatto
della sera che avanza
azzurra su campagne nude
e lontani acquitrini,
sulle zolle che covano
le tane sigillate
nel letargo invernale.
Una possibile dimora | Torna su |
C'è un'ora d'inverno
in cui i paesi esposti ad occidente
splendono all'ultimo sole.
Altri, di fronte,
già affondano nell'ombra della sera.
La natura avalla
queste situazioni ingiuste.
Eppure è lì, nell'ombra precoce,
nelle piccole voci,
nelle stanze già buie,
già disposte ai riti della sera,
è lì che mi sembra di scegliere
una possibile dimora.
Hic et nunc | Torna su |
Qui dove si stringe l'interno,
dove il raggio di ponente
riscalda il cuore
e gli oggetti scombinati e vecchi
tranquilli convivono;
qui dove la vecchia lampadina
conserva la pulce nera
della mosca estiva,
le piastrelle non brillano,
la polvere pacifica
sta sulle cose,
qui c'è la pace dell'inutile,
il tempo immobile del dolce far niente,
lo sguardo che osserva dietro le garze rosse e bianche
altre case,
altri comignoli e tetti,
balconi, finestre, ballatoi
dove la vita dei semplici
scorre
senza chiedersi come
e perché, e fino a quando,
e con quale fine o mistero.
No, non ha questa presunzione
la vita dei miei dirimpettai,
perciò qui sto bene anch'io
come loro
nel grande fiume delle cose
che non aspettano niente.
Note critiche | Torna su |
Sul piano squisitamente sociale fa da sfondo alle urgenze ontologiche della Ventura la comunità contadina e pastorale d'Abruzzo, al cui respiro la poetessa consegna anche gli spazi profondi e solitari della propria anima mediante un continuo suggere di antiche e mitiche lontananze. Si può dire, dunque, che questo sia il libro dell'Abruzzo primigenio, dell'Abruzzo nel suo essere-in-natura, fuori, in ogni caso, da impeti lirici (o liricizzanti) fine a se stessi o da cartoline rigurgitanti di colori e d'affetti. L'Abruzzo della Ventura è l'Abruzzo considerato nel suo stesso sorgere; è l'Abruzzo che ritorna alle leggi primigenie che gli appartengono per costituzione propria. Che gli appartengono, dunque, per virtù ontologica, anziché storica, o, come anche si potrebbe dire, dopo le conquiste del Cassirer e di Eliade sulle ceneri di un illuminismo distruttivo di miti, scongiuri e superstizioni, per stratificazioni antropologiche. [ ]
E' un linguaggio asciutto, scheletrico,
espressivo "quel tanto che basti" - si direbbe - per dire dell'essenza.
Anzi, è essenza esso stesso, scarnificato com'è nel taglio e nell'economia
delle scelte lessicali e retoriche. E' un linguaggio che conserva la sua genuina
originalità sia quando indugia, per così dire, quasi per gustarne
fino in fondo l'aromatico sapore, sulle leggi naturali che regolano la vita
dei contadini e dei pastori abruzzesi, sia quando si accende con la forza del
lampo al fine di aprirsi il varco necessario per "toccare" il brivido
dell'assoluto.
Regina inaccostabile al pari di Emily Dickinson, la Ventura de Le spighe
incrociate oggettivizza il proprio "delirio d'immobilità"
nella comunità contadina e pastorale d'Abruzzo, proprio come la poetessa
degli Stati Uniti aveva fatto con la comunità contadina del New England,
Amhers. Entrambe, certamente, mosse dalla stessa premura di penetrare nel cuore
delle tradizioni, rifugio e scoperta insieme, e principalmente, di autentiche
"bassure", intrise di pulita rugiada mattutina.
Dalla presentazione di Francesco Di Gregorio
Queste pagine hanno il potere straordinario
di ricondurci nel cuore vivo di una realtà divenuta, in gran parte, già
quasi vagante fantasma del passato.
Sommesso colloquio, quello di Anna Ventura, da sempre, con le cose non meno
che con i sentimenti che esse suscitano, in un misto di abbandono patetico,
istintiva simpatia e sottile ironia. Su tutto, poi, domina il senso di una profonda
"pietas", espressa con tono antiretorico, ossia senza coloriture particolari
di seducente languore.
Si direbbe che il fascino maggiore di questa poesia sia tutto nel sondaggio
di una psicologia ingenua e forte, rivissuta sul filo di un difficile equilibrio
tra nostalgia e distacco, tra superstizione e purezza.
Il tocco magico, ovviamente, è dato dallo stile, ridotto a forme per
nulla appariscenti, disseccate eppur così vive, disadorne eppur così
vere, in linea con quella che a me pare la migliore tradizione della lirica
novecentesca, anche se non è propriamente la più celebrata, per
la rara virtù di controcanto che reca con sé.
Vittoriano Esposito
Nel risvolto di copertina
e anche
In: Il Ragguaglio Librario, Milano, anno LV, n.4 aprile 1988
Ricorre nella poesia di Anna Ventura
quel profondo senso di solitudine che si accompagna alle immagini immobili,
quasi che la ispirazione lirica si compiaccia della staticità della dimensione
che proviene da un remoto evocante fantasmi inespressi, ma pur veri nella concretezza
della realtà.
Si intrecciano, dunque, aspetti e momenti interpretati quasi con puntigliosa
speculazione psicologica tesa a cogliere, nella musicalità del verso,
vertici di purezza che sfiorano fascinose meteore trascendentali.
Ma è una poesia, quella di Anna Ventura, essenziale anche se può
sembrare scarna, ma non priva di significati profondi che affondano le radici
ispirative dalla fonte popolare, l'unica che possa offrire immagini immortali
colte dalla "veglia" del poeta per essere affidate al tempo.
Giuseppe Catania
In: Il Nuovo, Vasto, 15 novembre 1987
Si avverte, nella poesia della Ventura,
un continuo altalenare tra dramma del finito e luce di una fede riscoperta attraverso
l'amore per le piccole cose.
L'Abruzzo, pertanto, sembra, ispirare la Ventura sino a suggerirle il tono particolare
del suo linguaggio e a conferire anima e cultura alla sua lirica; ma tutto ciò
non si esaurisce nel colore locale, anzi permette di veleggiare, utilizzando
la saggezza elementare di un popolo antico, sino agli estremi limiti dell'orizzonte
della poesia, intesa come liberazione dai mali della terra.
Lungi dall'agitare l'annosa problematica meridionalista, che pure ha nutrito
tanta poesia del secondo dopoguerra, la Ventura, dalla sua terra d'Abruzzo,
prova, non senza trepidazione, a domandare alla realtà di ogni giorno
quale sia il segreto dell'eternità.
Gennaro Manna
In: Ipotesi Ottanta, Cosenza, Fascicoli II/III 1988
Si tratta di un tipico esempio di
poesia la quale, al di là di ogni schematizzazione primitivistica e psicologistica,
è continuamente proiettata verso un'acutezza dell'emozione e dei sensi
fortemente incisiva sui dati consueti della natura, in direzione di una mitizzazione
della realtà, sorpresa nel suo più fresco allegorismo, nella sua
durata di stato dell'anima, di osservazione o di preterintenzionale giudizio
sulle cose, entro una figurazione terragna raccolta nei suoi più segreti
elementi saggiati con intatta e sempre convinta attenzione.
Quella della Ventura, infatti, è una esperienza di poesia che si mosse
quasi come documento "postumo" di conoscenza, di descrizione e rappresentazione
"storica" del tempo che passa e quindi come "referto" di
un profondo atto d'amore, d'una superiore sapienza di vita, volta non tanto
al possesso quanto alla celebrazione delle cose che contano, secondo una concezione
della poesia come solitudine non distaccata dalla realtà, epifania d'un
assoluto entro i dati elementari dell'esistenza.[
]
La luminosità delicata delle sue figurazioni, la musicalità sottile del verso, e soprattutto una coscienza avvertita dei limiti indispensabili per la poesia, dopo l'assolutezza inventiva e rivelativa del novecentismo, un intento di diario discreto e sommesso, di tranquillo disegno delle cose care (unite al raccogliersi di una gnomicità cristallina, moralmente certificata), ne fanno un esempio di libera espressione di una memorabilità che non conosce preordinati codici letterari, ma si affida unicamente ala forza della sua "passione" comunicativa pudicamente dominata nella semplicità e nella "decenza" di una suggestiva elegia.
Pietro Civitareale
In: Oggi e Domani, Pescara, anno XVI, n.3 maggio 1988
E' attraverso le immagini dell'immoto mondo contadino che la poetessa scandisce i temi sui quali si annoda la sua ricerca: lo scandaglio della condizione umana, che quella femminile ben sembra esemplare divisa tra la tensione ad immettersi nella storia e l'accettazione che nulla muta in una natura retta dalla geometrica, immobile necessità: gli "stracci" perpetuano "la specie".
Francesca Pecora
in: Il Tempo, Abruzzo, 8 marzo 1988
E' il libro dell'Abruzzo primigenio, considerato nel suo stesso sorgere, l'Abruzzo interno, dove, dopo il rullo distruttore del razionalismo, sono visibili ancora i segni superstiti dei miti e delle tradizioni, radici di un passato duro a morire.
Giovanni Nativio
in: Il Tempo, Abruzzo, 20 agosto 1988
Dalla incisiva grata dei versi si
respira un clima d'alta temperatura umana e lirica, dove vita e morte si susseguono
onestamente e testardamente con la tipica "costanza feroce dei contadini".
La Ventura, sempre sapiente ed abile nell'alchimia del codice linguistico, ritrova
la sua vena più autentica quando, allineando cose ed eventi che giacevano
a diverse distanze e profondità, rintraccia quel filo di speranza che
cuce la continuità dell'esistere.
Comunque la silloge "Le spighe incrociate" non è solo poesia:
è anche storia, pittura e quindi colore, sentimento del tempo e poi testimonianza,
fiducia nei valori umani, fedeltà ad una scelta di austerità e
di coraggio morale, condanna alle disumanizzazioni della civiltà della
macchina. Cattura il lettore con la forza dell'immediata comunicativa e con
un ritmo di canto che possiede il dono della naturalezza.
Mirella Taverna
in: Silarus, Battipaglia, Anno XXVI, n. 137/138, mag./ago. 1988
La poesia di Anna Ventura in Le
spighe incrociate affronta, tematicamente, il ritorno ad un "lontano"
che nell'Abruzzo è persistenza di un tessuto contadino.
Il problema centrale è come si innestino i residui di una società
contadina nella struttura della società attuale e, quindi, come tali
presenze affollino la memoria dell'autrice battendo al pari di un ricordo doloroso
e stridente o di un'ispirazione di fronte alla realtà in cui viviamo.
La matrice dannunziana dal recupero di tradizioni paesane ben poco si rileva,
è solo come un'eco culturale in questa che è poesia di dolorosa
attualità mentre "passa il tempo senza ragione".
E cenni di attualità riguardano l'atavica condizione della donna che
esprime,da sempre, l'ubbidienza, che non dispone di tempo "per osservare
il mondo e possederlo", che è sola nello squallore assoluto della
solitudine di altre donne.
I caratteri del mondo contadino sono in quella religiosità del lavoro,
nella pazienza della rassegnazione, nel duro prammatismo che si fa saggezza:
il tutto avvolto da un senso di sortilegio che tocca il destino umano, dallo
scongiuro per bloccare il male.
Perfino la fede acquista qualcosa di duro, si accende come la speranza cui si
perviene attraverso la disperazione del vivere. Uno spazio, insomma, quello
che Anna Ventura delinea, tanto vicino ad un modo di esistere "in natura",
fatto di persone e di cose che nel loro vissuto lasciano un labile segno come
quello del colpo degli zoccoli di un cavallo in fuga, come lo scintillio di
colori, fra il nero e il rosso, che si smorza attorno alla lepre, come il passaggio
delle stagioni opulente e fredde.
Rita Baldassarri
In: Parsifal, Pescara, anno V, n. 22, 1988
Qui stiamo ai versi. Questi che il
libro propone, con a fronte un eloquente testo iconografico in nero, non puntano
a recuperi celebrativi, non innescano nostalgiche affabulazioni: rampollati
sui rimandi della coscienza che s'interroga, essi piuttosto configurano la ricognizione
memoriale d'un vissuto antico, d'una sapienza che nella sua casta perentorietà
si rivela oramai compiuta e inaccessibile.
Il dialogo che la Ventura instaura col passato si articola in minime visitazioni,
sottende un'ansia di riappropriazione, si dipana sulle corde d'un sospetto,
d'una sofferenza che affiora e morde e che, forse, in qualche misura, tutti
abbiano disatteso, tutti abbiano tradito. Donde il ritorno e la confessione:
"...qui sto bene anch'io / come loro / nel grande fiume delle cose / che
non aspettano niente".
Eternità e stagioni, con quel che portano di misterico e doloroso, la
felicità del nascere, l'ineluttabilità del morire, e nel breve
tempo la necessità di essere, si rinfrangono entro uno specchio impietoso
che è poi, dilatato a perdita d'occhio, il cielo dell'infanzia che continua
a vivere e a stupire.
Pasquale Maffeo
In: Abruzzo Letterario, anno I, n.1 gennaio/marzo 1989
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