La strada ebrea
Racconti

Carabba, Lanciano, 1975
cm 20x14 - pp. 95
Illustrazione di Gino D'Alfonso


Il libro consta di 18 racconti di varia lunghezza:

Umanesimo
Atto quinto; ultima scena
La strada ebrea
Paese
Allo specchio
La donna gialla
L'uovo di sole
Hidalgo
Memoria
Maestri
Vecchi amanti
Marco e Maria
Figlio e padreL'esploratore cattivo e il piccolo torero
Strega e treghino
Diana
I due vecchi di Metz

Diana

Note critiche


Diana Torna su

Quando, verso le cinque, aveva finito di mettere ordine in cucina, la donna, che si chiamava Diana, si metteva a pulire le scarpe.
A quell'ora, veramente, tutta la famiglia stava fuori, chi per un motivo, chi per un altro; ma di scarpe in giro ce ne erano sempre.
Lei le riuniva tutte, e, steso un giornale sul tavolo di cucina, ce le disponeva sopra in ordine simmetrico.
Poi prendeva una scatola di latta, che conteneva le spazzole, le pezze gialle e i tubetti di crema di vario colore, la metteva in un angolo del tavolo; in fine si sedeva su una sedia di paglia, là vicino, e incominciava, piano piano, a spolverare, a spalmare di crema, a lucidare.
La cucina aveva un balcone esposto a ponente, e i raggi dell'ultimo sole le spettavano di diritto.
Il loro chiarore rosato batteva sulle mattonelle bianche e blu, che incorniciavano la nicchia dei fornelli, e sugli sportelli di legno dell'armadietto che li sovrastava; l'acquaio, grigio e umido come una lumaca, rimaneva nell'ombra.
A quell'ora molte signore alzano e abbassano, a ritmo costante, la mano ingioiellata per prendere e poi poggiare la porcellana del tè; ma Diana non apparteneva a quel limbo.
Maestra elementare, aveva rinunciato a lavorare per dedicarsi al marito e ai figli.
Nella sua vita c'era un giorno ineffabile, ormai perso nel passato, ma eterno nella sua memoria, in cui era comparso il marito.
Un'aureola di fulgore, come sempre, lo attorniava: perché di una cosa Diana era certa: che suo marito splendesse.
E non solo perché era biondo e dorato, ma perché in ogni suo gesto, o azione o movimento, spandeva, intorno a sé, una specie di luce.
Di notte, certe volte, Diana alzava la testa sul cuscino, e sollevandosi, poi, con estrema delicatezza, sul suo busto pesante, si protendeva timidamente sul marito che le dormiva accanto; stava così immobile per vari minuti, finché le pareva di distinguere, nel fitto delle tenebre, un chiarore verdino, che disegnava dolcemente la linea del pigiama del dormiente.
Considerava questa sua piccola indiscrezione notturna una specie di peccato, e se ne vergognava perfino con se stessa; tuttavia, per lei, era una gioia tale, che rinunciarci le sarebbe sembrata una pazzia.
Certe volte, poi, prima di riimmergersi nel folto delle coperte, con la mano percorreva per un attimo, in superficie, senza nemmeno sfiorare il corpo, quella linea chiara che lo modellava.
Di giorno, le occasioni per vedere il marito non erano molte, ma costanti, sicure: al mattino, quando lui si svegliava, e, ancora intontito dal sonno, prendeva dalle sue mani la tazza del caffè bollente; a pranzo, quando chiacchierava coi ragazzi di partite e di politica; a cena, non sempre: ma, quando c'era, sorridente sempre come un sole,
l'occhio attento al televisore bene orientato sulla sua visuale. Diana non era gelosa: sapeva che niente e nessuno le avrebbero tolto, mai, quelle occasioni di incontro, a cui si aggiungeva, ancora, la costante presenza indiretta del marito, rappresentata dai suoi vestiti, dai portasigarette, dalle riviste e da qualche carta che lui lasciava in giro per casa.
Anche quando, alle cinque, Diana si metteva a lucidare le scarpe, avvertiva la presenza dell'uomo: le scarpe dei figli avevano sempre qualche difetto: o larghe o storte, sempre segnate da qualche botta o graffio o ammaccatura; solo quelle del marito erano lisce, diritte e in ordine come il giorno in cui erano state comprate.

* * *

Alle sei di sera Diana aveva finito di lucidare le scarpe e se ne stava perplessa, seduta davanti al tavolo di cucina, con le mani in mano.
Si sentiva colpevole, come sempre quando le pareva di sprecare il tempo, e perciò con premura rimise a posto la scatola di latta e le scarpe, ripiegò il foglio di giornale e lo mise nella pattumiera, spolverò il tavolo di cucina.
Era primavera e la sera sarebbe stata lunghissima; non avendo altro da fare, Diana si avviò verso la camera dei due figli, dove c'era sempre da mettere ordine: i maschietti avevano le loro esigenze.
Sul tavolo da studio c'erano i libri sparsi, e uno era rimasto aperto.
Diana non subiva il fascino della cultura; tuttavia, l'occhio le andò al libro, e, siccome lo vide figurato graziosamente, ci volle dare uno sguardo.

Seduta sull'orlo della poltroncina, troppo stretta per lei, che stava davanti alla scrivania, Diana, lentamente, con cautela e timore incominciò a sfogliare le pagine.
Qualche cosa ricordava ancora: mitologia.
Riconobbe Ercole neonato in mezzo ai due serpentacci che lo volevano uccidere, ma che lui, invece, riuscì a sopraffare; vide Giove con l'occhio bovino sotto la testa spaccata, da cui usciva, in trionfo, Atena vergine.
Vide anche Diana, signora delle Amazzoni.
Considerò: in un'epoca remotissima, un essere meraviglioso, con i capelli sciolti e l'arco al fianco, aveva avuto il suo stesso nome.
Diana quasi se ne vergognava: come se, dal suo Olimpo, la dea potesse sdegnarsene.
Ma non era colpa sua, povera Diana, se suo padre era stato cacciatore!
Né colpa era (ma vaglielo a fare capire) quell'ansia di bosco che la prendeva, certe volte.
Le accadeva di domenica, quando sentiva il botto metallico della porta del garage di sotto, che si apriva, e poi il rumore del motore acceso, e lo sgretolio delle ruote sulla rampa di uscita, l'inizio della corsa verso l'ignoto.
Nessuno invita - è la norma - l'angelo del focolare; ma il suo povero cuore ne soffre: è l'unico momento, forse, di sotterranea rivolta, mai detta, mai nemmeno esplicitamente pensata.
Diana sa che, finché sarà viva, mai potrà passeggiare in un bosco: perché così è; così stanno le cose.

* * *

Eppure avvengono, i miracoli.
Intruppata in un drappello di parenti venuti in visita da lontano, lo spolverino azzurro arieggiato e stirato di fresco, la borsetta minuscola appesa al braccio, il velo sui capelli, - è in gita - Diana si avvia, vacillante, verso un'inattesa felicità.
Dove vanno? Il marito lo sa: gli occhiali gialli, sportivi, gli schermano gli occhi verdi, fitti di lunghe ciglia.
In uno spazio minuscolo del sedile di dietro, Diana, cercando come può di limitare la sua mole, compressa tra altre, di calibro non inferiore, si lascia andare alla beatitudine di essere trasportata.
Poi la gioia di arrivare - stranieri - nel paesino grazioso, respirare un'aria diversa, guardarsi intorno per conoscere volti mai visti; e il rinfresco nel piccolo bar, le quattro chiacchiere intorno al tavolino tondo.
È girandosi per chiamare il ragazzo del bar, che Diana, in uno spicchio tra due case, vede un lembo di bosco.
Diana sa che, se lo chiedesse, in questo momento di grazia, la truppa dei parenti, e perfino il marito, acconsentirebbe ad accompagnarla nella passeggiata; ma in lei è nata, per la prima volta, l'assurda determinazione di andarci da sola. E senza chiedere permesso.
<< Diana dov'è? >>
<< Dov'è Diana? >>
Il cognato: << Starà al bagno >>
La cognata: << Sarà alla toilette. >>
Il marito: << Tornerà presto. >>

* * *

Diana non è mai stata in un bosco se non con la fantasia guidata da quei ciceroni bugiardi che sono gli scrittori di storie per ragazzi.
Nei boschi libreschi ci sono funghi, fragoline e scoiattoli a ogni pié sospinto; in quello vero, invece, Diana trova piatti e bicchieri di carta, posatine di plastica e ossi di pollo.
Ma è pur sempre bosco, con la sua voce sussurrante, l'invisibile vita dei nascondigli.
E più cammina, più è bosco, più è anima verde di bosco.
Ormai è quasi notte, e un ramo strappa il velo sulla testa di Diana.
Da un viottolo sbucano due vecchie uguali, che spingono dai lati una carretta carica di legna; una bambina magra, con le trecce di canapa e le babbucce a punta, spinge da dietro, aiutando come può.
Il gruppo passa davanti a Diana, senza guardarla: hanno fretta, e la carretta, pesante, a ruote basse e larghe, non scorre sul terreno accidentato del bosco.
Diana la vede scomparire dentro gli alberi; poi, quando il rumore è ancora appena percettibile, incomincia a seguirle.
Dove vanno? Non lo sa, ma le segue.
Chi sono? Tre amazzoni. Tre fate. Tre povere diavole.
E chi è, Diana?
Non se lo è mai chiesto; ma cammina.


 


Note critiche Torna su

Per l'uscita de "La Strada Ebrea" di Anna Ventura voglio rompere la tradizione e da reo occulto mi voglio trasformare in reo - confesso: sono stato io a portare alla Carabba il libro e qualunque sia l'accoglienza che riceverà della critica e dal pubblico, voglio qui rendere ragione della mia scelta.
La Strada Ebrea è un libro strano. A prima lettura può sembrare un libro semplice, quasi superficiale, debole. In realtà invece è un libro difficile, difficile perché i racconti in esso raccolti, essendo racconti senza storie, sono modulati su risvolti psicologici.

Agostino Bonecra
in: ABRUZZOSETTE - L'Aquila - anno IX , n° 48 - 24 dicembre 1975


L'autrice si rivela sensibile soprattutto ai moti intimi del sentimento, ma non soltanto in termini che, con una punta di sufficienza, si usa definire "femminili". La sua scrittura, anzi, la sua sobrietà stilistica, allontanano subito ogni eventuale equivoco, penetrando verticalmente dentro le situazioni e rivelandone l'essenza, con bella naturalezza. Alcuni racconti più estesi, a incominciare da "La strada ebrea" che dà il titolo all'intera raccolta, godono di una singolare grazia, coinvolgendo in poche pagine squarci naturalissimi di vita, sull'ordine di una presa di coscienza attenta ma insieme affettuosa di condizioni umane non certo eccezionali, ma vere, o verosimili, e degne nella loro umiltà di essere elette a fare storia, a definire un tempo e una società.

Giuseppe Rosato
in: Rivista Abruzzese - Lanciano - anno XXIX n° 4 - ottobre / dicembre 1976


Sono volti umani e paesaggi, giorni e stagioni che il lettore riconosce e dei quali si sente vivere in qualche remoto angolo del proprio essere e che appunto, la penna leggera ed apprezzabile della Ventura, scava e scava, riportandoli alla luce, senza che le ombre brune dell'oblio, talora impenetrabili in molte nature umane, le lasciassero altrimenti dissolvere in polvere, in nulla. E' dunque questo piccolo libro un delicato strumento che ci spinge verso uno struggente desiderio di amore.

Giovanni Nocentini
in: Michelangelo - Firenze - anno VI n° 22 - luglio / settembre 1977


Non possiamo non condividere se da molte traspare una chiara sollecitazione sociale per la quale ho messo come epigrafe sul volumetto "Caro babbo Natale, io vorrei una mela" - Intervista ad una bambina meridionale.

Enzio di Poppa Volture
In: Gabbiola - Parma - dicembre 1980



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