Diana | Torna su |
Quando, verso le cinque,
aveva finito di mettere ordine in cucina, la donna, che si chiamava Diana, si
metteva a pulire le scarpe.
A quell'ora, veramente, tutta la famiglia stava fuori, chi per un motivo, chi
per un altro; ma di scarpe in giro ce ne erano sempre.
Lei le riuniva tutte, e, steso un giornale sul tavolo di cucina, ce le disponeva
sopra in ordine simmetrico.
Poi prendeva una scatola di latta, che conteneva le spazzole, le pezze gialle
e i tubetti di crema di vario colore, la metteva in un angolo del tavolo; in
fine si sedeva su una sedia di paglia, là vicino, e incominciava, piano
piano, a spolverare, a spalmare di crema, a lucidare.
La cucina aveva un balcone esposto a ponente, e i raggi dell'ultimo sole le
spettavano di diritto.
Il loro chiarore rosato batteva sulle mattonelle bianche e blu, che incorniciavano
la nicchia dei fornelli, e sugli sportelli di legno dell'armadietto che li sovrastava;
l'acquaio, grigio e umido come una lumaca, rimaneva nell'ombra.
A quell'ora molte signore alzano e abbassano, a ritmo costante, la mano ingioiellata
per prendere e poi poggiare la porcellana del tè; ma Diana non apparteneva
a quel limbo.
Maestra elementare, aveva rinunciato a lavorare per dedicarsi al marito e ai
figli.
Nella sua vita c'era un giorno ineffabile, ormai perso nel passato, ma eterno
nella sua memoria, in cui era comparso il marito.
Un'aureola di fulgore, come sempre, lo attorniava: perché di una cosa
Diana era certa: che suo marito splendesse.
E non solo perché era biondo e dorato, ma perché in ogni suo gesto,
o azione o movimento, spandeva, intorno a sé, una specie di luce.
Di notte, certe volte, Diana alzava la testa sul cuscino, e sollevandosi, poi,
con estrema delicatezza, sul suo busto pesante, si protendeva timidamente sul
marito che le dormiva accanto; stava così immobile per vari minuti, finché
le pareva di distinguere, nel fitto delle tenebre, un chiarore verdino, che
disegnava dolcemente la linea del pigiama del dormiente.
Considerava questa sua piccola indiscrezione notturna una specie di peccato,
e se ne vergognava perfino con se stessa; tuttavia, per lei, era una gioia tale,
che rinunciarci le sarebbe sembrata una pazzia.
Certe volte, poi, prima di riimmergersi nel folto delle coperte, con la mano
percorreva per un attimo, in superficie, senza nemmeno sfiorare il corpo, quella
linea chiara che lo modellava.
Di giorno, le occasioni per vedere il marito non erano molte, ma costanti, sicure:
al mattino, quando lui si svegliava, e, ancora intontito dal sonno, prendeva
dalle sue mani la tazza del caffè bollente; a pranzo, quando chiacchierava
coi ragazzi di partite e di politica; a cena, non sempre: ma, quando c'era,
sorridente sempre come un sole,l'occhio
attento al televisore bene orientato sulla sua visuale. Diana non era gelosa:
sapeva che niente e nessuno le avrebbero tolto, mai, quelle occasioni di incontro,
a cui si aggiungeva, ancora, la costante presenza indiretta del marito, rappresentata
dai suoi vestiti, dai portasigarette, dalle riviste e da qualche carta che lui
lasciava in giro per casa.
Anche quando, alle cinque, Diana si metteva a lucidare le scarpe, avvertiva
la presenza dell'uomo: le scarpe dei figli avevano sempre qualche difetto: o
larghe o storte, sempre segnate da qualche botta o graffio o ammaccatura; solo
quelle del marito erano lisce, diritte e in ordine come il giorno in cui erano
state comprate.
* * *
Alle sei di sera Diana aveva
finito di lucidare le scarpe e se ne stava perplessa, seduta davanti al tavolo
di cucina, con le mani in mano.
Si sentiva colpevole, come sempre quando le pareva di sprecare il tempo, e perciò
con premura rimise a posto la scatola di latta e le scarpe, ripiegò il
foglio di giornale e lo mise nella pattumiera, spolverò il tavolo di
cucina.
Era primavera e la sera sarebbe stata lunghissima; non avendo altro da fare,
Diana si avviò verso la camera dei due figli, dove c'era sempre da mettere
ordine: i maschietti avevano le loro esigenze.
Sul tavolo da studio c'erano i libri sparsi, e uno era rimasto aperto.
Diana non subiva il fascino della cultura; tuttavia, l'occhio le andò
al libro, e, siccome lo vide figurato graziosamente, ci volle dare uno sguardo.
Seduta sull'orlo della poltroncina,
troppo stretta per lei, che stava davanti alla scrivania, Diana, lentamente,
con cautela e timore incominciò a sfogliare le pagine.
Qualche cosa ricordava ancora: mitologia.
Riconobbe Ercole neonato in mezzo ai due serpentacci che lo volevano uccidere,
ma che lui, invece, riuscì a sopraffare; vide Giove con l'occhio bovino
sotto la testa spaccata, da cui usciva, in trionfo, Atena vergine.
Vide anche Diana, signora delle Amazzoni.
Considerò: in un'epoca remotissima, un essere meraviglioso, con i capelli
sciolti e l'arco al fianco, aveva avuto il suo stesso nome.
Diana quasi se ne vergognava: come se, dal suo Olimpo, la dea potesse sdegnarsene.
Ma non era colpa sua, povera Diana, se suo padre era stato cacciatore!
Né colpa era (ma vaglielo a fare capire) quell'ansia di bosco che la
prendeva, certe volte.
Le accadeva di domenica, quando sentiva il botto metallico della porta del garage
di sotto, che si apriva, e poi il rumore del motore acceso, e lo sgretolio delle
ruote sulla rampa di uscita, l'inizio della corsa verso l'ignoto.
Nessuno invita - è la norma - l'angelo del focolare; ma il suo povero
cuore ne soffre: è l'unico momento, forse, di sotterranea rivolta, mai
detta, mai nemmeno esplicitamente pensata.
Diana sa che, finché sarà viva, mai potrà passeggiare in
un bosco: perché così è; così stanno le cose.
* * *
Eppure avvengono, i miracoli.
Intruppata in un drappello di parenti venuti in visita da lontano, lo spolverino
azzurro arieggiato e stirato di fresco, la borsetta minuscola appesa al braccio,
il velo sui capelli, - è in gita - Diana si avvia, vacillante, verso
un'inattesa felicità.
Dove vanno? Il marito lo sa: gli occhiali gialli, sportivi, gli schermano gli
occhi verdi, fitti di lunghe ciglia.
In uno spazio minuscolo del sedile di dietro, Diana, cercando come può
di limitare la sua mole, compressa tra altre, di calibro non inferiore, si lascia
andare alla beatitudine di essere trasportata.
Poi la gioia di arrivare - stranieri - nel paesino grazioso, respirare un'aria
diversa, guardarsi intorno per conoscere volti mai visti; e il rinfresco nel
piccolo bar, le quattro chiacchiere intorno al tavolino tondo.
È girandosi per chiamare il ragazzo del bar, che Diana, in uno spicchio
tra due case, vede un lembo di bosco.
Diana sa che, se lo chiedesse, in questo momento di grazia, la truppa dei parenti,
e perfino il marito, acconsentirebbe ad accompagnarla nella passeggiata; ma
in lei è nata, per la prima volta, l'assurda determinazione di andarci
da sola. E senza chiedere permesso.
<< Diana dov'è? >>
<< Dov'è Diana? >>
Il cognato: << Starà al bagno >>
La cognata: << Sarà alla toilette. >>
Il marito: << Tornerà presto. >>
* * *
Diana non è mai stata
in un bosco se non con la fantasia guidata da quei ciceroni bugiardi che sono
gli scrittori di storie per ragazzi.
Nei boschi libreschi ci sono funghi, fragoline e scoiattoli a ogni pié
sospinto; in quello vero, invece, Diana trova piatti e bicchieri di carta, posatine
di plastica e ossi di pollo.
Ma è pur sempre bosco, con la sua voce sussurrante, l'invisibile vita
dei nascondigli.
E più cammina, più è bosco, più è anima verde
di bosco.
Ormai è quasi notte, e un ramo strappa il velo sulla testa di Diana.
Da un viottolo sbucano due vecchie uguali, che spingono dai lati una carretta
carica di legna; una bambina magra, con le trecce di canapa e le babbucce a
punta, spinge da dietro, aiutando come può.
Il gruppo passa davanti a Diana, senza guardarla: hanno fretta, e la carretta,
pesante, a ruote basse e larghe, non scorre sul terreno accidentato del bosco.
Diana la vede scomparire dentro gli alberi; poi, quando il rumore è ancora
appena percettibile, incomincia a seguirle.
Dove vanno? Non lo sa, ma le segue.
Chi sono? Tre amazzoni. Tre fate. Tre povere diavole.
E chi è, Diana?
Non se lo è mai chiesto; ma cammina.
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Per l'uscita de "La Strada Ebrea"
di Anna Ventura voglio rompere la tradizione e da reo occulto mi voglio trasformare
in reo - confesso: sono stato io a portare alla Carabba il libro e qualunque
sia l'accoglienza che riceverà della critica e dal pubblico, voglio qui
rendere ragione della mia scelta.
La Strada Ebrea è un libro strano. A prima lettura può sembrare
un libro semplice, quasi superficiale, debole. In realtà invece è
un libro difficile, difficile perché i racconti in esso raccolti, essendo
racconti senza storie, sono modulati su risvolti psicologici.
Agostino Bonecra
in: ABRUZZOSETTE - L'Aquila - anno IX , n° 48 - 24 dicembre 1975
L'autrice si rivela sensibile soprattutto ai moti intimi del sentimento, ma non soltanto in termini che, con una punta di sufficienza, si usa definire "femminili". La sua scrittura, anzi, la sua sobrietà stilistica, allontanano subito ogni eventuale equivoco, penetrando verticalmente dentro le situazioni e rivelandone l'essenza, con bella naturalezza. Alcuni racconti più estesi, a incominciare da "La strada ebrea" che dà il titolo all'intera raccolta, godono di una singolare grazia, coinvolgendo in poche pagine squarci naturalissimi di vita, sull'ordine di una presa di coscienza attenta ma insieme affettuosa di condizioni umane non certo eccezionali, ma vere, o verosimili, e degne nella loro umiltà di essere elette a fare storia, a definire un tempo e una società.
Giuseppe Rosato
in: Rivista Abruzzese - Lanciano - anno XXIX n° 4 - ottobre / dicembre 1976
Sono volti umani e paesaggi, giorni
e stagioni che il lettore riconosce e dei quali si sente vivere in qualche remoto
angolo del proprio essere e che appunto, la penna leggera ed apprezzabile della
Ventura, scava e scava, riportandoli alla luce, senza che le ombre brune dell'oblio,
talora impenetrabili in molte nature umane, le lasciassero altrimenti dissolvere
in polvere, in nulla. E' dunque questo piccolo libro un delicato strumento che
ci spinge verso uno struggente desiderio di amore.
Giovanni Nocentini
in: Michelangelo - Firenze - anno VI n° 22 - luglio / settembre 1977
Non possiamo non condividere se da
molte traspare una chiara sollecitazione sociale per la quale ho messo come
epigrafe sul volumetto "Caro babbo Natale, io vorrei una mela" - Intervista
ad una bambina meridionale.
Enzio di Poppa Volture
In: Gabbiola - Parma - dicembre 1980
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