La macchia azzurra | Torna su |
Il medico diceva sempre:
"Mare". Da grande ipocrita, lo diceva disinvolto e sorridente, come
se parlasse sul serio.
Che fosse ipocrita si vedeva da tante cose: per esempio, dalla cravatta a farfalla,
blu cosparsa di pallini rossi sbarazzini, che spuntava fuori dal solenne camice
bianco.
Diceva "mare", come fosse "vitamine"; anzi, diceva "mare
e vitamine", considerandoli quasi un tutto unico; con pari ipocrisia,
il maestro avrebbe potuto dire: "Imparate il verbo andare" e, in alternativa:
"Andate sulla luna". Ma il maestro non diceva queste cose: lui portava
la cravatta lunga e veniva a scuola con la Cinquecento.
Vitamine erano il bicchiere di aranciata che la mamma portava a Checco, ogni
mattina, prima che lui si alzasse per andare a scuola; ancora vitamine in gocce
gialle dentro un bicchiere d'acqua, prima del pranzo; vitamine nella mela a
merenda e nelle verdure crude della cena.
Ma il mare era un'altra cosa. Esisteva, il mare?
Il fatto che ci fosse una macchia azzurra, sull'atlante di geografia, non garantiva
una certezza.
Sua madre diceva, ogni tanto: "Studia, Checco, e quest'anno ti mando al
mare"; ma lo diceva con quel tono di sconsolata bugia che hanno le madri.
E questa era un'altra prova della inesistenza del mare. Nessuno dei suoi compagni
di scuola lo aveva visto mai; loro vivevano in un paese di alta montagna.
Una notte sognò il mare: era una massa avvolgente; lui stesso era mare,
corrente liquida e veloce.
Si svegliò sudato e stanco, e la prima cosa che pensò, la prima
che vide, furono le montagne insormontabili, come grandi cancelli contro il
cielo.
Quando gli dissero che, quell'estate, sarebbe andato in colonia, Checco associò
a quella parola, per un confluire di ricordi di fumetti
e di trasmissioni televisive, un 'immagine fantastica di elefanti, di liane
e uomini armati di fucile, con il casco di sughero in testa: che cosa potesse
farci, lui, in un posto simile, non lo sapeva.
Invece "colonia" significò pasticche, punture e visite mediche, e una valigetta che la mamma gli aveva messo vicino al letto, sopra a una
sedia, dove ogni giorno si ammucchiavano calzoncini, mutande e magliette: i
preparativi.
Quindi fu un autobus strapieno di ragazzini, tutti col cappelletto in testa,
e un esercito di mamme grasse, vestite a fiori, accalcate attorno alla carcassa
della corriera.
Poi una lunga corsa con il vento che entrava da tutti i finestrini, e i bambini
che urlavano cose diverse.
Finalmente, una casa enorme, impolverata dal sole, corridoi e stanzoni semivuoti,
e signorine brutte che davano ordini e spingevano i ragazzini per la schiena,
con le mani ossute.
Checco si difendeva come poteva, in quella confusione. Come tutti, mangiò
la razione di minestra, pane e formaggino e una pesca.
Con tutto il branco si avviò per una grande scala che portava in basso,
verso una porta di vetro: lì, alla strettoia, si ammucchiavano tutti;
poi, un po' alla volta, uscivano all'aperto.
Quando fu il suo turno, Checco, uscendo, strinse gli occhi, perché il
sole lo abbacinava: si trovava in uno spiazzo lunghissimo, di sabbia chiara,
che finiva, lontano, con una rete.
Rimase fermo a guardarsi intorno, tra le spinte dei compagni: tutto era polvere,
caldo e sabbia.
Checco pensò di essere stato punito: forse perché aveva studiato
poco, o perché era malato, o perché era di paese.
Incerto, barcollante, incapace di capire e di ribellarsi, si avviò verso
la grande rete.
Oltre le maglie di ferro, immobile, luccicante, steso sotto il cielo come un
drago verde, gli apparve il mare.
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