La soglia dell'esilio
 

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Poesie

La soglia dell'esilio

Il pittore G.Bruno

Il pittore G.Cuttone

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Il libro è corredato anche di:

 

1 -  una nota dell'autore: Un hacker per compagno nell'e-silio

2 - una appendice - Uno sguardo sulla poesia a Sud e l'Antigruppo.

3 - Nota di presentazione di Giacomo Bonagiuso.

 4 - In copertina " Omaggio a Munchausen" di Nicolò D'Alessandro.

 

 

 

L’unità del mito nella galùt e la deformalizzazione del tempo

Cenni sulla poesia di Antonino Contiliano

 

«I filosofi troveranno, forse, interessante questa   deformalizzazione del tempo. 

Il presente, il passato e l’avvenire risultano inseparabili dagli eventi che li rendono visibili. 

L’analisi che li porta alla luce rassomiglia un po’ alla teoria heideggeriana delle  estasi del tempo».

E.Lévinas, Fuori dal  Soggetto, Marietti, Genova, 1992

 

 

 

 

 

Scrivere su Nino Contiliano – occhieggiando al koinòn, il discorrere comune che interlaccia due vissuti generazionalmente "altri" – è per me come tentare di ricomporre (parafrasando Benjamin) l'infranto temporale che spira senza tregua dal paradiso dell'origine storica, facendone convergere i pezzi dislocati intorno ad una categoria paradossale, eppure solo recentemente in piena luce nel panorama filosofico, estetico e po(i)etico: l'alterità. Per di più, cercare di costruire un discorso breve su quella che a me sembra una delle metafore poetiche più azzeccate dell'ultimo decennio (almeno) – la coniugazione, per un verso, del concetto fisico/matematico di soglia con il suo doppio di natura psicologica e filosofica e, al contempo, l'innesto semantico di questa stessa imago con la parabola inconcettualizzabile della galùt ebraica (l'esilio come orizzonte di senso avvenire di cui si può solo dare e-vocazione) – riconduce la penna a rintracciare affinità palesi con la radice errante di Rosenzweig, Benjamin, Jonas, Jabès, Lévinas, Celan, Wiesel.

Un pensiero "ebraico", dunque (e si noti che con questa definizione l'occidente dell'occaso heideggeriano ha inteso emarginare questo neues Denken la cui radice è ben più antica – seppur espiantata dall'erranza – del logos di matrice greca). Un pensiero che, con la forza dell'indigenza e con il potere del riconoscimento, ha interferito sul proliferar verboso della dialetticità di pensiero del neo/vetero-idealismo; un pensiero nuovo che s'è macchiato di un "parricidio" anomalo, consumato e in campo filosofico e in campo po(i)etico. Un parricidio che rifiuta di "uccidere" Parmenide se ciò implica una sostituzione dello scettro monistico con il chorismós della coscienza infelicechorismós che è tale solo in quanto sanabile nell'unità del concetto – poiché ognuna di queste ferite, causate nel pensiero dalla differenza, ha finito per necessitare di una cura ben peggiore della malattia: l'elusione della diversità, la distruzione dell'alterità, la coartazione dell'esistenza.

Così, la sostanza poematica di Nino Contiliano, in questo quadro di riferimenti, ingaggia la propria battaglia de-costruzionista-e-vocativa nell'essere, nello spazio apertosi «fra una soglia e l’altra dell’utopia», in cerca di un «para-dosso / sul dosso delle onde di soglia / in soglia», che altro non appare che «l’esilio dimora soglia permanente». È il suo, dunque, un fluttuar cosciente della radice, un lasciarsi attrarre dalla poli-significazione, dalla rottura dei significati unici ed univoci che si richiamano alla stabilità non perigliosa delle designazioni rigide; un'erranza (anch'essa, in verità, fascinoso doppio etimologico di errore e viaggio) che non placa mai l'istinto d'andare oltre.

Così il poeta, politikón d'un mondo che viene solo per provvidenza innescata dall'uomo, non si fa forte d'una promessa, perché ogni pro-missam è dono di sé e dell'altro sempre ed ancora da frequentare e giammai possesso certo (dono che implica anche il rischio di andare senza la certezza di un nòstos che segni il rientro, senza la misura di un periplo circolare che muove da Itaca, e ad Itaca pur sempre ri-torna). Ogni promessa del futuro si apre quindi all' «amen» delle dimore e al rischio del «per-ire»:

 

«impronte le vibrazioni delle onde / marose di gravità l’anima aleggiano / risacche la soglia planando voli / l’esilio, l’amen delle dimore / e trabocca il per-ire apparire gratis / di contingenza in contingenza i fiori / della libertà del tempo di sempre».

 

Già, perché «la soglia so non-sta l’esilio»; ovvero, la soglia non arresta l'erranza della radice, anche se ad essa sola è lecito pro-vocare questo wandeln (andare/migrare):

 

«esilio è eliòs in bocca alla voce / di viso non di viso cantoriano / e all’abbaglio dei sogni racconta / del porto i fari reali che lampeggiano / i bordi schiusi della veglia di nuvole».

 

Il tempo è sconfitto, è morto in modo transitivo, come se qualcuno avesse potuto non ucciderlo ma morirlo – forzando la semantica essenziale che imprigiona il dire nell'abecedario di Pinocchio (falso come un burattino nelle mani d'un marionettista intempestivo) – potendo scegliere un éschaton privo di télos, una direzione ri-voluzionaria del tempo delle catene di anánke, che possa farsi riscatto ed energia.

Così

 

«ormai è questa temporanza d'eventi / sillabario in esilio di squarci quantici / che deserta collassato le biforcazioni / dimessa dai nostri incontri che ci manca».

 

A questa «mancanza», a quest'utopia che ha bevuto il rifiuto di Kronos ellenico alla fonte dello Shemà Israel, non resta che cambiare il sotto-finale della storia che Hegel ci ha ex-posto, rappresentandocela, nella sua Vorstellung dell'Assoluto religioso: l'assoluto è in quanto, e solo in quanto, è storicamente e sempre advensies. L'essere stesso, non più concetto, è sempre da concepire; la sua essenza non più passata, è ancora e sempre al di là da venire. Ma, ben oltre, è da cambiare pur'anche l'incipit della fabula: Kronos onnivoro ingurgita i suoi figli (ciò, per Hegel, è l'essentità del werden, di quel divenire che s'arresta a Jena); ma tutti li divora tranne uno, salvo non per provvidenza necessaria ma per ri-voluzione libertaria della Terra. Gea, madre e locus dell'inversione della storia (non più prigioniera di Kronos né del chrónos), strappa un figlio alla catena dei figli divorati, sottrae un secondo alla voracità del ritmo temporale, incide uno scarto, una frattura, una ferita e crea il kairòs il tempo libero dell'evento, il tempo-debito della de-cisione i cui attimi non s’equivalgono, ma differiscono ex-sistendo. La terra come utopia rivoluzionaria, certo, poco doveva piacere all'Autore dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche a cui, sottratta la necessità del tempo (e, di converso, la temporalità dell'accadere della necessità), sarebbe crollata tra le mani anche l'astuzia della ragione e l'auctoritas della storia.

E cos'altro è, dunque, questo crollo se non la stessa possibilità d'una nuova interrogazione del pensiero che cerca in ciò che non ha volto la stessa icona del volto? Cos'altro dunque se non l'interrogazione costante di Jabés ha la forza necessaria per trasformare la maceria del tempo in nuovo inizio, in conversione? «Vivere nel tempo significa vivere tra inizio e fine» scrive Franz Rosenzweig; ma chi vuol davvero vivere eternamente deve non soltanto negare quel "tra" – ché così facendo ne risulterebbe solo un non vivere nel tempo – ma far sì che tale negazione divenga attiva, diventi un positivo vivere nella presenzialità del futuro.

E cos'altro descrive meglio quest'utopica attesa se non l'esilio del tempo dalla sua sede fissa che questa poesia di Contiliano così arduamente, seppur palesemente, e-voca?

 

«L’esilio non è che la sua unica via / e processo a porte aperte di dimore / e porti carichi d’armi e decolli / a scorta degli embarghi della libertà / frattali fiocchi di neve della bocca / instabili quanti e bifore di differenza / su e giù per le gole della passione / fino a quando un quanto dei tuoi occhi / se non il deserto delle mani stanche / per il congedo dell’eternità piantano / la veglia dei sogni vigile di mente».

 

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Lettera.gif (4196 byte)antonino.contiliano@tin.it

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