Diario italiano
Il Rimino 174, anno XII
Giugno 2010


Tama 999, 27.06.2010
Vecchi baroni nuovi idioti

Sul Corrierone (19.6.10) Francesco Giavazzi ipotizza che il governo voglia "lasciar morire l'università per lento soffocamento", obbedendo ai vecchi baroni. Con parole irrituali per un foglio conservatore, Giavazzi conclude: "I ricchi possono sempre mandare i loro figli a studiare in Inghilterra. I poveracci meglio se all'università non ci vanno: continuino a guardare la tv e non leggano troppi libri, così non si faranno venire strane idee". Grazie ai vecchi baroni avremo dunque nuovi idioti con marchio di Stato. L'etichetta di bamboccioni esiste già. Un volume di M. Iezzi e T. Mastrobuoni ne aggiunge un'altra, con il suo titolo drammatico, "Gioventù sprecata". Andrea Camilleri avverte: il problema è di non passare dai bamboccioni ai barboni.
Anna Tonelli in "Stato spettacolo. Pubblico e privato dagli anni '80 a oggi" fa un amaro bilancio: "lo Stato spettacolo cambia i comportamenti e le abitudini, sostituendo i sogni e le speranze collettive degli anni Sessanta e Settanta con la supremazia del privato che si fonde nel pubblico". Ne nasce un modello esistenziale che rende tutto eguale ma non è segno di democrazia. Maurizio Viroli con "La libertà dei servi" lancia una provocazione: l'Italia ora è un paese in cui vige appunto la libertà dei servi e non quella dei cittadini. Per avere la quale occorre una situazione diversa dall'attuale. Oggi c'è il potere inedito ed enorme di un uomo solo al comando del governo, di un partito e dell'informazione su carta ed in tv.
Le responsabilità del mondo del giornalismo per evitare che il quadro politico degeneri, le ha illustrate Barbara Spinelli (17.5.09) attraverso un altro foglio conservatore, la Stampa: "la mala informazione è una delle principali sciagure italiane"; "La menzogna viene [...] dai governanti, e in genere dalla classe dirigente: che non è fatta solo di politici ma di chiunque influenzi la popolazione, giornalisti in prima linea"; "I fatti sono reali, ma se vengono sistematicamente manipolati (omessi, nascosti, distorti) la realtà ne risente, ed è così che se ne crea una parallela". Con l'Unità (3.10.09) ha aggiunto: "La stampa di oggi è in pericolo non solo a causa di Berlusconi... [...] Spesso si ha l'impressione che i giornali italiani si censurino in anticipo, temendo chissà quali ritorsioni". Sulla Stampa (20.6.10), trattando di democrazie a rischio per la crisi economica, chiama l'Italia allergica alla cultura del controllo esercitato dall'informazione. [999]

Antonio Montanari
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Tama 998, 20.06.2010
Passato futuro

Avevo preparato questo titolo alle 21.55 di giovedì 10 giugno, per tornare su questioni qui già accennate e poi trattate a fondo dall'ing. Luciano Gorini nel Corriere Romagna di quel giorno. Sabato 12 ho letto nel Ponte il bel pezzo di Emilio Bracconi sulla Barafonda rovinata dal cemento, con un passaggio conclusivo di grande saggezza: nessuna nostalgia per il passato, ma per un futuro che poteva essere diverso, ed "è stato compromesso dagli egoismi e dalla insipienze". Le sue parole mi hanno felicemente confermato nella scelta del titolo.
I due interventi di Gorini e Bracconi, sono accomunati da una passione che si trasforma in denuncia pubblica. Gorini tratta dell'anfiteatro da restituire integralmente alla città, trasferendo l'Asilo Svizzero (Ceis). Del ponte di Tiberio (per cui propone una diga a monte dello stesso ponte). Ed infine della salvaguardia, sotto i bastioni, della Mutua ("una bella, grande struttura abbastanza recente"), da accompagnare ad un diverso intervento a castel Sismondo, un fossato poco costoso e compatibile con il mercato.
Gorini racconta dei suoi interventi a Roma per l'anfiteatro e le difficoltà di colloquio con il sindaco di Rimini. Questi per il fossato gli ha dato una risposta chiara: tutto dipende dai rapporti tra Comune ed una fondazione bancaria. La quale, come ho già scritto, non pone il problema tra le sue priorità. Mentre sembra che altri si affannino per demolire la Mutua.
A che cosa serva tutto questo stato di incertezza, se non di confusione, non sono in grado di comprendere. Le città dovrebbero essere amministrate anche con l'aiuto di persone esperte come nel caso dell'ing. Gorini. Che ha rivestito pure cariche pubbliche, e quindi sa come muoversi nei labirinti delle burocrazie locali e romane. Una città come Rimini, ricca anche di storia, non ha al momento un assessore alla Cultura a tempo pieno. Dopo che il prof. Pivato è diventato Magnifico rettore ad Urbino, la delega ad una collega già con tante rogne da affrontare, è stata un esempio di quella vecchia politica che sentiamo condannare da tutti. Ovvero la politica del Palazzo lontano da una realtà che non può percepire, non per colpa personale di questo o quell'assessore, ma del fatto che non sono premiate o riconosciute le professionalità e le competenze.
Mentre Rimini litigava confusamente sulla Fondazione Fellini, a Bologna si realizzavano interessanti e numerose manifestazioni in ricordo del nostro regista. [998]

Antonio Montanari
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Tama 997, 13.06.2010
Ha ragione Pupi Avati

Sosteneva Federico Fellini che chi ha visto Bologna, ha visto il mondo. Da Bologna magistra, nel suo ricordo, arriva la voce di Pupi Avati, presidente di una fondazione cittadina intestata all'autore di "Amarcord". Voce critica, pungente, amara perché addolorata. Non per vigliaccheria, ma unicamente per mancanza di spazio, tralascio la polemica che riguarda le future sorti della fondazione. Mi soffermo soltanto su di un passaggio dell'intervista che Avati ha concesso a Manuela Angelini del "Corriere Romagna" il 4 giugno. Per mio fatto personale di piccola devozione domestica verso quella frase di Fellini su Bologna custode dei segreti universali, accetto come oro colato l'opinione che Pupi Avati ha espresso sopra la cattiva abitudine riminese di dare ragione a chi parla con la voce più alta.
Avati ovviamente non conosce altri segreti indigeni. Ma la frase da lui pronunciata limitatamente alle vicende della fondazione Fellini, ai miei occhi assume il valore di massima morale capace di sintetizzare costumi e malcostumi molto diffusi. Aggiungerei soltanto che con il passare dei decenni (non sempre il tempo fa migliorare le cose come il vino in cantina), alla pessima abitudine segnalata da Avati, si è aggiunto un altro fatto che chiamerei il servilismo a cottimo. Per cui chi mira a qualche risultato personale, s'abbassa a rendere qualsiasi basso favore a chi manovra i cordoni della borsa o custodisce le chiavi delle segrete stanze del potere.
Il caso concreto. Sulle colonne del Ponte nel 2006 scrissi che se la biblioteca Gambalunga (1619) è la terza in Italia ad essere pubblica dopo l'Ambrosiana di Milano (1609) e l'Angelica di Roma (1614), a quella di Francescani e Malatesti del XV secolo (e futura Universitaria...) spetterebbe il merito di essere stata la prima in assoluto. La mia nota provocò qualche ira nascosta poi divenuta una voce circolante contro il sottoscritto, prendendo corpo in un articolo di giornale tra il folle ed il fantasioso.
Folle perché contro ogni evidenza si negava la biblioteca, attestata da inventario del 1561 edito nel 1901. Fantasioso perché nell'accusarmi di aver scritto la solita "patacata riminese", si aggiungeva che ero attaccato da un "libello" apparso nelle librerie. L'autore dell'articolo mi confidò che non di libello trattavasi ma di una mail giunta in redazione. Orbene se una redazione dà ascolto ad una voce messa in giro, è perché la reputa gridata al punto di essere vera. [997]

DOSSIER.
BIBLIOTECA MALATESTIANA
DI SAN FRANCESCO A RIMINI
Notizie e documenti



1430.
Il progetto di costituire una biblioteca aperta al pubblico e utile soprattutto agli studenti poveri, è testimoniato nel 1430 per iniziativa di Galeotto Roberto Malatesti, che segue una intenzione dello zio Carlo (morto l'anno prima).

1475.
Testamento di Roberto Valturio che lascia la propria biblioteca alla «liberaria» (libreria) del convento dei frati di San Francesco di Rimini «ad usum studentium et aliorum fratrum et hominum civitatis Arimini», con la clausola che i frati facciano edificare «unan aliam liberariam in solario desuper actam ad dictum usum liberarie».

Dal documento (pubblicato per la prima volta da ANGELO BATTAGLINI nel 1794 in Della corte letteraria di Sigismondo Pandolfo Malatesta), ricaviamo:
1. Nel 1475 esiste già una «liberaria» del convento di San Francesco.
2. Questa «liberaria» è posta al piano terreno.
3. Essa «liberaria» (scrive A. Battaglini) era già diventata copiosa a spese di Sigismondo, ma giaceva «in piano a terra pregiudicevole a materiali sì fatti» (Battaglini, op. cit., p. 168).
Il trasporto al piano superiore avviene nel 1490 (v. sotto ad annum).
Conclude Battaglini che Rimini «dovette dunque non meno a Sigismondo suo Principe, che al suo cittadino Roberto Valtùri [Valturio] l'acquisto fatto d'una pubblica Biblioteca» (Battaglini, op. cit., p. 170).
Sigismondo, come ricorda per primo Valturio, dona alla biblioteca monastica francescana, progettata dallo zio Carlo Malatesti, «moltissimi volumi di libri sacri e profani, e di tutte le migliori discipline» [cfr. R. VALTURIO, De re militari, XII, 13].

1490.
L'iscrizione del 1490 (e non 1420 come in un primo tempo era stata letta), ricorda il trasferimento della biblioteca francescana al piano superiore del convento da quello a terra, «pregiudicievole a materiali sì fatti» (Battaglini, op. cit., p. 169). Questa iscrizione è tuttora conservata nel Museo della Città di Rimini.
Di questa iscrizione non è stata mai fornita sinora la corretta trascrizione. Infatti si è letto come «sum» quanto va trascritto come «summa».
Il testo latino è questo: «Principe Pandulpho. Malatestae sanguine cretus, dum Galaotus erat spes patriaeque pater. Divi eloqui interpres, Baiote Ioannes, summa tua cura sita hoc biblioteca loco. 1490».
Ecco la traduzione: «Sotto il principato di Pandolfo. Mentre Galeotto, nato dal sangue di Malatesta, era speranza e padre della Patria. Per tua somma cura, Giovanni Baioti teologo, la biblioteca è stata posta in questo luogo. 1490».

Pandolfo IV, 1475-1534, è figlio di Roberto Novello (1442-1482), a sua volta figlio di Sigismondo (1417-68).
Roberto è morto combattendo al servizio della Chiesa. Con lui era Raimondo Malatesti (figlio di Almerico Malatesta e di Amabilia Castracani) che reca a Rimini la notizia della morte del signore della città.
Galeotto [Galeotto II Lodovico], figlio di Almerico Malatesta (e quindi fratello di Raimondo), è tutore di Pandolfo e governatore di Rimini.
Giovanni Baiotti da Lugo, frate francescano, è teologo e guardiano del convento di San Francesco.
Raimondo Malatesti il 6 marzo 1492 è ucciso dai nipoti Pandolfo e Gaspare, figli del fratello Galeotto II Lodovico ricordato nella lapide.
Il delitto è considerato da Clementini all'origine di tutti i mali che affliggono successivamente Rimini, ovvero «il precipizio de' cittadini e l'esterminio de signori» Malatesti e della loro casa.
Il 31 luglio 1492 Pandolfo e Gaspare, gli uccisori dello zio Raimondo, sono utilizzati dal padre Galeotto II Lodovico per una congiura contro lo stesso Pandolfo IV e la sua famiglia.
A mandarla all'aria evitando una strage, ci pensa Violante Aldobrandini, seconda moglie dello stesso Galeotto Lodovico e sorella di Elisabetta, madre di Pandolfo IV.
In casa di Elisabetta era stato ucciso Raimondo Malatesti quasi cinque mesi prima (il 6 marzo 1492).
Nella stessa abitazione di Elisabetta è ammazzato Galeotto Lodovico, mentre suo figlio Pandolfo è tolto di mezzo in casa del signore di Rimini Pandolfo IV. Gaspare invece è arrestato, processato sommariamente e decapitato.
Due mesi e mezzo dopo la congiura fallita e la morte dei suoi ideatori, Violante convola a nuove nozze. Violante era la matrigna di Gaspare e Pandolfo, figli della prima moglie di Galeotto Lodovico, Raffaella da Barbiano.
Pandolfo di Galeotto Lodovico a sua volta ebbe quattro figli (Carlo, Malatesta, Raffaella, Laura) perdonati da Pandolfo IV a testimonianza della sua volontà di pacificazione all'interno della famiglia e della città.
Dal 1492 per circa un secolo, gli omicidi politici che abbiamo registrato, continueranno «a far calare sangue», come acutamente osserva Rosita Copioli.

1560.
La biblioteca era costituita da due file di plutei di venti elementi ciascuna. “Circa” centocinquanta opere sono nella prima fila, “circa” centoventitre nella seconda. Ovvero “circa” 273 opere in tutto.

Questi dati risultano da un inventario del 1560 (p. 346) conservato a Perugia e pubblicato nel 1901 da Giuseppe Mazzatinti in un saggio intitolato La biblioteca di San Francesco (Tempio malatestiano) di Rimini, contenuto nel volume «Scritti vari di Filologia» apparso a Roma presso Forzani, Tipografi del Senato, pp. 345-352.
Il saggio di Mazzatinti è datato «Forlì, agosto 1901».

1511.
Ricordandoci attentamente di questo inventario del 1560, prendiamo in considerazione una notizia relativa al 1511, e contenuta in un testo ms. di padre Francesco Antonio Righini (SC-MS 372, "Miscellanea Scriptorum...", c. 284r, Biblioteca Gambalunga di Rimini).
Righini scrive: dai libri conventuali di San Francesco risulta che la biblioteca era stata trasferita a Roma «sic jubente Pontefice».
Righini precisa l'anno (appunto il 1511), citando un testo di Paride Grassi relativo al soggiorno riminese presso i francescani del papa stesso, Giulio II.
(Il testo di Grassi, cerimoniere pontificio, è stato pubblicato nel 1886, Le due spedizioni militari di Giulio II, in «Documenti e Studi» della Deputazione di Storia Patria per le province di Romagna, I).
Il passo di Righini forse allude ad un trasferimento parziale della biblioteca francescana, dato appunto che nel 1560 la essa era costituita da due file di plutei di venti elementi ciascuna per un totale di “circa” 273 opere.

XVII secolo.
Nel Sito riminese di Raffaele Adimari, che esce a Brescia nel 1616, si legge (I, p. 72) che presso il convento francescano dei Conventuali esisteva una «sontuosa, et buona libreria».
All'inizio del secolo XVII, precisa Antonio Bianchi (Storia di Rimino dalle origini al 1832, Rimini 1997, a cura di Antonio Montanari, p. 146), «della preziosa libreria, che i Malatesti, per conservarla ad utile pubblico, avevano dato in custodia ai frati di San Francesco», restano soltanto quattrocento volumi per la maggior parte manoscritti.

Questo «rimasuglio» di quattrocento volumi (in realtà molto meno, “circa” 273, visto l'inventario del 1560), va perduto secondo monsignor Giacomo Villani (1605-1690), perché quelle carte preziose finiscono in mano ai salumai («deinde in manus salsamentariorum mea aetate pervenisse satis constat»).

Federico Sartoni (1730-1786), come riferisce Luigi Tonini (Rimini dopo il Mille, p. 94), sostiene invece che i frati vendettero la libreria alla famiglia romana dei Cesi, alla quale appartengono i fratelli Angelo (vescovo di Rimini dal 1627 al 1646) e Federico, fondatore dell'Accademia dei Lincei nel 1603.
Il manoscritto di Sartoni è in BGR, Sc-Ms.1136: SARTONI, FEDERICO COSIMO, Copia di uno zibaldone mss. che era in Casa Sartoni ed ora posseduto dal N. U. Signor Domenico Mattioli, contenente memorie ed avvertimenti per la storia di Rimini... Sta in: TONINI, LUIGI: [Cronache riminesi...] (cc. 222-97). La parte che qui interessa è alle cc. 49-50.

XVIII secolo.
Il convento di San Francesco è ristrutturato ampiamente, come documenta il ms. AB 51, relativo alle spese fatte «per la Fabrica del Convento (1762-1764)», conservato in Archivio di Stato di Rimini, Fondo Congregazioni soppresse.


CONCLUSIONI.

1. Francesco Gaetano Battaglini nelle sue Memorie sulla storia riminese (1789, p. 281) scrive che nel 1490 avvenne il trasporto della «celebre» biblioteca francescana «a più conveniente luogo», secondo le disposizioni di Valturio.
In precedenza, aggiungeva Battaglini, la biblioteca francescana era stata «arricchita di codici da Sigismondo, ed accresciuta dalla suppellettile libraria» dello stesso Valturio. (Questo passo è riprodotto da Luigi Tonini nella Storia di Rimini, III, p. 321.)

2. L'archivio comunale e la biblioteca. Già da epoca anteriore, «apud locum fratrum minorum» (cioè nello stesso convento francescano) si trovava l'archivio comunale (F. G. Battaglini, p. 44). Questo luogo dell'archivio è definito a metà del XV sec. come «sacristia Communis Arimini in Conventu Sancti Francisci» (F. G. Battaglini, ibid.)
La presenza del pubblico archivio nella sede conventuale, documenta un particolare ed antico rapporto fra l'amministrazione cittadina ed i padri della chiesa di San Francesco, ben anteriore alla nascita di quella «celebre» biblioteca che, anche secondo Battaglini, essendo stata arricchita da Sigismondo, esiste quindi quando questi governa Rimini: dal 1430 assieme ai fratelli Galeotto Roberto (che scompare il 10 ottobre 1432) e Domenico Malatesta Novello; e dal 1433 da solo (mentre Novello diviene signore di Cesena).
Circa l'archivio, da altra fonte (una cronaca del 1532 firmata da padre Alessandro da Rimini e pubblicata nel secolo scorso da padre Gregorio Giovanardi), ricaviamo:

a) al tempo di papa Paolo II (1464-71) va a fuoco la sagrestia della chiesa di san Francesco con perdita di mss. «antichissimi ed importantissimi» (si ricordi quanto riportato in F. G. Battaglini circa «sacristia Communis Arimini in Conventu Sancti Francisci»;

b) il resto dell'archivio, verso il 1528, è dichiarato a Roma da papa Clemente VII (1523-34).

3. Augusto Campana [1932] nel celebre studio sulle biblioteche italiane, scrive al proposito della presenza dei padri francescani nella biblioteca malatestiana: «È possibile, ma è prudente darlo solo come possibile, “che questa libreria - per servirmi delle parole del Massèra - fosse affidata ai frati di San Francesco”». Prosegue Campana: «Ad ogni modo presso di quelli, verso la metà del quattrocento, dovette stabilirsi una notevole raccolta di libri», poi arricchita da Sigismondo (v. sopra).
Quindi Campana non mette in dubbio l'esistenza di una pubblica biblioteca malatestiana «ad communem usum pauperum et aliorum studentium», ma segnala che è prudente (seguendo Massèra) considerare possibile una sua gestione da parte dei frati.
Il che però contrasta fortemente con il testamento di Valturio del 1475 che si rivolge direttamente a quei frati. Se non l'avessero gestita loro, Valturio non avrebbe scritto quanto leggiamo nelle sue volontà (in ben tre stesure), dove sempre si parla della «libreria del convento dei frati di San Francesco».
Le carte d'archivio parlano chiaramente, e fanno decadere l'osservazione di Massèra e la conseguente cautela di Campana.

4. Massèra. Riporto il testo integrale di Massèra dal saggio sulla Gambalunga contenuto in «Accademie e Biblioteche d'Italia», 1928, VI, p. 27: «È probabile che questa libreria fosse affidata ai frati di San Francesco, il cui convento era attiguo alla chiesa» poi divenuta il Tempio malatestiano. «Appunto fu Sigismondo ad arricchire la biblioteca dei Conventuali di moltissimi volumi», come attesta Valturio etc.
Poi Massèra scrive che la lapide «tuttora esistente» attesta «che la sistemazione desiderata ebbe luogo o termine», essendo guardiano Giovanni Baiotti da Lugo.
A p. 29 Massèra incolpa i Conventuali riminesi d'aver lasciato «disperdere le ricchezze raccolte».
I frati vendettero liberamente la libreria alla famiglia romana dei Cesi, come pare sostenere Sartoni?
Forse essi furono costretti non dico dal vescovo romano, ma dalle loro misere condizioni (che risultano da molti documenti conservati in Archivio di Stato di Rimini).
Certo è che Massèra non conosceva la notizia di Righini del 1511 (la biblioteca era stata trasferita a Roma «sic jubente Pontefice»).

5. Prima di Cesena. Se la biblioteca Gambalunga (1619) è la terza in Italia ad essere pubblica dopo l'Ambrosiana di Milano (1609) e l'Angelica di Roma (1614), a quella riminese di Francescani e Malatesti del XV secolo spetterebbe il merito di essere stata la prima in assoluto ad essere pubblica, partendo dal documento del 1430. E di essere sorta anteriormente a quella di Cesena che infatti, si apre soltanto nel 1452 (v. sotto, la scheda «TRA RIMINI E CESENA»).
La Gambalunga, va aggiunto, è la prima in Italia ad essere «civica» (cioè del Comune).



TRA RIMINI E CESENA

I rapporti intercorsi tra Rimini e Cesena a metà Quattrocento, sono documentabili attraverso due edizioni della Naturalis Historia di Plinio.

1. Il Plinio di Jacopo della Pergola (1446)
La prima, completata da Jacopo della Pergola a Rimini l'11 ottobre 1446, è stata voluta (secondo Raimondo Zazzeri, 1887) da SigismondoPandolfo Malatesti. Il quale poi la donò al fratello Malatesta Novello che la fece inserire nella biblioteca cesenate (S. XI. I).
Questa notizia di Zazzeri è stata smentita da Enza Savino (I due Plinii Naturalis historia della Malatestiana, in Libraria Domini. I manoscritti della Biblioteca Malatestiana: testi e decorazioni, a cura di a cura di Fabrizio Lollini e Piero Lucchi, Bologna, Grafis, 1995, pp. 103-114), soltanto in base al «fatto che Sigismondo Pandolfo, secondo l'immagine consegnata dalla storiografia locale, non coltivò interessi da bibliofilo né tanto meno da bibliografo con la stessa costanza e passione del fratello».
L'immagine che Enza Savino riprende di Sigismondo «dalla storiografia locale», è tutto all'opposto della realtà. Abbiamo già visto che Sigismondo, come scrisse Valturio, dona alla biblioteca francescana «moltissimi volumi di libri sacri e profani, e di tutte le migliori discipline». (Testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi «che restano quali tracce del progetto di Sigismondo per diffondere una conoscenza aperta all'ascolto di tutte le voci, da Aristotele a Cicerone, da Aulo Gellio al Lucrezio del De rerum natura, da Seneca a sant'Agostino, sino a Diogene Laerzio ed alle sue Vitae degli antichi filosofi»: cfr. il mio Sigismondo filosofo umanista).
Non interessa stabilire, cosa del resto difficile se non impossibile, se veramente il ms. S. XI. I sia stato ordinato ad Jacopo della Pergola da Sigismondo. Il dato certo è che esso è stato lavorato a Rimini e che esso poi è finito a Cesena.
Augusto Campana [1932] ricorda che Jacopo lavorò sia a Rimini sia a Fano. Il che gli suggerisce questa importante conclusione: è possibile supporre che i copisti «fossero scambiati, al bisogno, tra il Signore di Cesena e quello di Rimini».
2. Il Plinio di Francesco da Figline (1451)
L'altra Naturalis Historia cesenate(S. XXIV. 5), è opera di Francesco da Figline commissionatagli dal medico riminese Giovanni di Marco («Scriptus et completus per me fratrem Franciscum de Fighino ordinis minorum pro egregio ac prestantissimo artium et medicine doctore Iohanne Marci de Arimino 1451 die 10 maii»).
Fu lasciata in testamento alla biblioteca cesenate nel 1474 dallo stesso Giovanni di Marco, in precedenza medico personale di Malatesta Novello.
Nel 1451 la Malatestiana cesenate non era ancora completata. Lo sarà l'anno successivo («la biblioteca fu compiuta nel 1452: M CCCCLII / Matheus Nutius fanensi ex urbe creatus, / Dedalus alter, opus tantum deduxit ad unguem», cfr. Campana).
Quindi Francesco da Figline non era ancora nella città di Novello che poi lo nomina primo bibliotecario della Malatestiana. Ma era ancora a Rimini. Dove lavora (anche) per Giovanni di Marco il quale come medico era attivo sia a Rimini sia a Cesena.

I due manoscritti di Plinio documentano dunque un'intesa attività 'libraria' riminese dopo il 1430 e prima del 1452 (apertura della biblioteca di Cesena).
Questa attività è facilmente collegabile alla esistenza della biblioteca dei Malatesti presso il convento di San Francesco di Rimini.
Per quel lasso di tempo i documenti si trovano, se non ci si dimentica di interpretare correttamente quelli che esistono già, come appunto i lavori 'riminesi' di Jacopo della Pergola (1446) e di Francesco da Figline (1451).

21-04-2007

Antonio Montanari
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Anno XII, n. 174, Giugno 2010
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