Diario italiano
Il Rimino 184, anno XIII
Aprile 2011

Carta canta/1
Rimini e il turismo

Il ruolo di Rimini nell'industria dell'ospitalità è bene illustrato dalla prof. Annunziata Berrino, docente di Storia Contemporanea alla Università Federico II di Napoli, nella sua "Storia del turismo in Italia" (Bologna 2011). C'è lo stabilimento dei conti Baldini, finanziato dalla Cassa di risparmio di Faenza, 1843. Ci sono gli investimenti pubblici (1873) voluti da "un influente gruppo di proprietari-consiglieri, che riesce a scaricare sul bilancio comunale i rischi di un investimento che appare ai privati ancora troppo rischioso".
Il Comune ha gravi perdite. Si favorisce soltanto la ricchezza privata. Nel 1890 si incentivano i villini economici. La gente arriva non più per curarsi al mare, ma per divertirsi in Riviera. Agli inizi del 1900 Rimini domina l'Adriatico, mentre Viareggio regna sul Tirreno.
Nel 1931 il mitico podestà Pietro Palloni scrive al sottosegretario agli Interni, Leandro Arpinati, un ex operaio anarchico di Bologna, "una lettera lucidissima e drammatica": in Italia manca qualsiasi intervento dello Stato nella propaganda e valorizzazione delle stazioni turistiche comunali.
Il tema era allora molto discusso. Lo ha affrontato nel maggio 1928 e nel dicembre 1930 Valfredo Montanari sulla rivista "Turismo d'Italia", come si legge in un altro lavoro della prof. Berrino, relativo alla nascita delle Aziende di Soggiorno (1926), pubblicato da "Storia del turismo. Annale 2004" (Milano 2005).
Il podestà Palloni è nominato il 18 aprile 1929. Il 10 febbraio 1930 Valfredo Montanari prende servizio al Comune di Rimini come Capo Ufficio ai Servizi Balneari e Contabilità dell'Azienda di Cura, con delibera podestarile del 20 gennaio 1930.
Il ruolo di studioso del turismo svolto da Valfredo Montanari (1901-1974) negli anni Trenta, emerge anche da un testo apparso nel 1997 in Finlandia (a cura di Taina Syrjämaa, "Visitez l'Italie. Italian State Tourist Propaganda Abroad 1919-1943. Administrative Structure and Practical Realization"). Dove si cita un suo articolo del 1933 dedicato a "La pubblicità collettiva". Taina Syrjämaa appartiene alla "School of History, University of Turku". Il suo libro ha avuto sei edizioni. Per il 2011 Turku è una della capitali europee della cultura.
Il volume di Berrino parte dai viaggiatori del 1800 e si conclude con un accenno alla crisi del modello turistico romagnolo, ed alla nascita del divertimentificio, citando un testo di P. Battilani del 2002: il rumore soppianta la vacanza tranquilla.

Indice di "Carta canta"

Antonio Montanari
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Tama 1037, 24.04.2011
Si fa presto a dire l'altro

Abiola Wabara, cestista italiana di origini nigeriane in una squadra lombarda, è stata colpita da sputi ed insulti in una partita a Como. Le storie di ordinario razzismo non si contano. Si è letta sul "Corriere di Rimini" la lettera non smentita su un'automobilista, cittadina comunitaria, multata con l'invito a tornarsene a casa.
Guardiamo al nostro passato. Le radici contano nel bene e nel male. Da "Il Popolo d'Italia" del 6 agosto 1938: "Il razzismo italiano data dall'anno 1919 ed è base fondamentale dello Stato fascista". Le infami leggi razziali sono del 5 settembre 1938. Bravi razzisti però ci sono anche prima. Fermiamoci all'inizio del secolo passato. Nel primo decennio arriva a vele spiegate da Germania e Francia lo spirito nazionalistico che contiene in sé pure l'antisemitismo: "per i nazionalisti gli ebrei erano elementi estranei ed intimamente ostili alle singole compagini nazionali, che cercavano di disgregare mediante la loro potenza economica e mediante la diffusione di dottrine democratiche e socialiste" (G. Candeloro).
Qualcuno da noi fa l'occhietto ai nazionalisti. Che trovano "ben presto un solido sostegno nei gruppi industriali interessati alla politica di armamenti e di espansione coloniale" (G. C.). 1914, il foglio ufficiale del nazionalismo scrive che il movimento è "odio di razza". E poi precisa: il suo fine è creare un imperialismo italiano. Si guarda alla guerra che infuria come occasione per far occupare anche all'Italia un posto nella Storia e negli affari. Per i quali le grandi Potenze combattono "con l'ardimento, con la volontà, col sacrificio attuale di sangue e di danaro, e più ancora con l'animo risoluto e virile". L'anno dopo c'è l'intervento.
1919. Il capo dei nazionalisti Enrico Corradini scrive: la guerra mondiale ha chiuso la fase dell'evoluzione nazionale ed aperto quello dell'evoluzione imperiale. Nel 1922 Corradini rivendica di aver progettato l'imperialismo italiano sin dal 1908.
Nel 1923 i nazionalisti la buttano sul classico. Il filosofo Emilio Bodrero dell'Università di Padova esorta gli italiani a leggere l'Odissea di Omero, "il poema di una rivoluzione e di una controrivoluzione" avvenute sul mare. E che ci fa sentire contemporaneamente figli di Ulisse e di Troia, ed eredi di Enea e di Virgilio. Con la speranza di poter dominare il mare su cui Ulisse ed Enea hanno viaggiato. Nel 1936 con 4 ori olimpici a Berlino, il nero Jesse Owens ridicolizza i razzisti. Senza aver letto Omero. [1037]

Antonio Montanari
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Tama 1036, 17.04.2011
Si fa presto a dire pane

Il 30 marzo 1911 scompare Pellegrino Artusi, nato nel 1820 a Forlimpopoli. Da dove è fuggito a Firenze, dopo la drammatica notte del "Passator cortese" (1851). Suo padre Agostino fu preso di mira da Stefano Pelloni assieme agli altri benestanti del paese. Una delle sue due sorelle, Gertrude, "fuggì per i tetti, seminuda e terrorizzata, tornandone con i cappelli imbiancati" (V. Emiliani). La giovane ne resta segnata per tutta la vita con scosse convulsive. Aggravate da un matrimonio (combinato, secondo le usanze del tempo) con un tipo rozzo, villano e manesco che, aggiunge Emiliani, la fa finire in manicomio a Pesaro.
Nel 1891 Artusi pubblica a sue spese un'opera destinata alla celebrità, "La scienza in cucina e l'arte del mangiare bene": con bistecca e risotto ha condito una lingua che ha unito l'Italia (G. L. Beccaria). Ad Emiliani dobbiamo un efficace ritratto di Artusi: un solido borghese non scalfito dalle "terribili questioni sociali emerse dall'Italia unificata". Un'occhiata ai fatti: dal gennaio 1869 c'è la tassa sul macinato che provoca agitazioni e rivolte delle masse contadine, costrette a pagarla immediatamente al mugnaio, osserva G. Candeloro in una pagina integralmente ripresa da Montanelli.
Nelle nostre zone avvengono scontri sanguinosi con la forza pubblica: 26 morti soltanto nel Reggiano. In tutt'Italia, sono 250. Più migliaia di feriti. A Bologna è sequestrato "L'amico del Popolo" per un articolo intitolato "Il balzello della fame". La Romagna, ricorda M. Cattini, ha i più alti coefficienti di mortalità, grazie anche alla pellagra. Nelle nostre campagne si vive peggio che altrove. Già da tempo.
Tra 1765 e 1768 pure Rimini è colpita da una grave carestia che costringe alla fame, sino al pericolo di vita, il "popolo minuto". I poveri rappresentano il 20% della popolazione. Roma nega una sovvenzione per soccorrere i bisognosi. A mons. Giuseppe Garampi procuratore di Rimini nella capitale, spiegano che "si tiene per esagerato ogni bisogno". E che "la Campagna fornisce ora Erbaggi e Frutti, coi quali supplire a qualche deficienza di Pane".
Le sintetiche cronache di L. Tonini (1843-74) registrano ripetute sommosse per il grano da parte di marinai, braccianti e donne dei marinai. Nel 1847 è ucciso un mercante di cereali, Massimiliano Pedrizzi, accusato di esportarlo a danno della città. Aumenta la miseria e nel 1859 si vieta il libero questuare. In Romagna, scrive Artusi, "si può far vita gaudente con poco". [1036]

Antonio Montanari
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Rimini 150. In poche parole.
Delitti politici (8 Ponte)

L'uccisione di Nicola Nagli nel 1864 suscita vasta eco. Gli amici lo ricordano come operaio instancabile, padre di famiglia accurato, patriota animoso, indefesso, integro che per 40 anni ha sfidato ogni tempesta della tirannia a riscatto della comune madre Italia. Il sottoprefetto Viani scrive: "Il vile assassino sente in oggi che non sono più i tempi che il Governo reggevasi coll'immoralità, e la Giustizia poggiava sulla corruzione e la debolezza".
Alla Società di Mutuo Soccorso, di cui è stato promotore, il presidente Alessandro Baldini ne ricorda le virtù di padre di famiglia, instancabile ed umile artigiano, benefattore che non guardava alle idee di chi bussava alla sua porta ed accoglieva pure chi gli aveva recato offese gravissime. Nagli ha ereditato il sentimento politico del padre Lorenzo, a cui le aspirazioni al nazionale risorgimento costarono prigionie e sciagure. Aborriva tutti i segretumi e l'ipocrisia di chi aveva mire ambiziose celate sotto lo scopo di patrio riscatto. Da uomo del partito liberale (il Comitato riminese è del 1853) vide dissensi e divisioni come sorgenti di lotta e di debolezza.
Prima di Nagli, fra 1847 e 1859 a Rimini altre undici persone sono vittime di delitti politici: Massimiliano Pedrizzi mercante di cereali (1847); il figlio del notaio Giacomo Borghesi, un cappellaio, l'avv. Mario Fabbri, ed il falegname Tamagnini colpito per sbaglio al posto di Michele Barbieri fervente sostenitore del papa (1848); il presunto autore dell'uccisione del cappellaio, e don Giuseppe Morri molto caldo contro i liberali (1849); il caldo papalino dottor Raffaele Dionigi Borghesi (1850); il vicesegretario del Comune Antonio Clini che si occupava molto di politica (1854); il francese Vittorio Tisserand sposo della contessina e commerciante Mariuccia Ricciardelli (1856); il cappellaio Terenzo (1859).
Tisserand, cancelliere del vice consolato di Francia a Rimini, ha aderito alla Giovine Italia e predicato idee rivoluzionarie pure ai lavoratori delle sue imprese: fornaci, distillerie e vigneti. Fu vicepresidente del Circolo Popolare capeggiato da Enrico Serpieri, che ha propagandato l'opposizione al governo pontificio. Nel 1849, sotto la Repubblica romana, è stato eletto consigliere comunale con 288 voti su 372 elettori. Nicola Nagli ne ha avuti 239. In tutta la nostra regione ai tripudi attorno agli alberi della libertà, ha scritto U. Marcelli, allora si alternano attentati fratricidi fra rivoluzionari e reazionari.

Antonio Montanari
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Tama 1035, 10.04.2011
Si fa presto a dire Africa

Non è più il tempo di credere che l'Italia debba aspettare il verbo da Parigi o da Berlino. Parole di Crispi (1888), un colonialista, ma anzitutto un meridionale: servono per i contadini del Sud, le terre d'Africa. Vi abbiamo buttato un occhio nel 1882, anche per far concorrenza a Parigi e Berlino. Poi (1885-90) abbiamo formato la colonia Eritrea e conquistato parte della Somalia. Nel 1887 a Dogali massacrano 500 nostri soldati.
1896, sconfitta di Adua in Abissinia. Dei nostri 20mila soldati, ne fanno prigionieri duemila. Dalle piazze di casa si grida "Via dall'Africa". Alla gente, scrive Benedetto Croce, si sono raccontate "fantasticherie e fandonie". Eritrea e Somalia debbono riempire stomaci vuoti. Tra autunno 1897 e maggio 1898 tumulti ci sono in tutt'Italia per il rincaro del pane. A Milano finisce a cannonate: 118 morti secondo i socialisti, 84 per il governo.
Nel 1911 l'Italia guarda alla Tripolitania. Il nazionalista Filippo Corradini sostiene: "Laggiù possono vivere milioni di uomini". Ne bastano 50mila da mandare alla guerra di Libia. Si canta: "Tripoli, bel suol d'amore". Dopo sarà la volta di un altro motivetto: "Faccetta nera bella abissina", al tempo della corsa all'impero. Nel 1930 bombardiamo con l'iprite un'oasi: cercavamo inesistenti ribelli fuggiti dalla Tripolitania, facciamo soltanto una strage di pastori e contadini. In Etiopia (1935-36) usiamo sistematicamente i gas, senza dirlo a nessuno. Indro Montanelli non ci crede sino al 1996.
6 ottobre 1935, "Adua è stata riconquistata" titolano i giornali. Il 5 maggio 1936 l'Etiopia è italiana. Il CorSera spiega che è "per la logica della Storia" e per una nostra missione. Vittorio Mussolini ricordava: dar fuoco a paesini e capanne "era un lavoro divertentissimo", con "quei disgraziati che scappavano come indemoniati". Migliaia di patrioti etiopi sono rinchiusi nei campi di sterminio o deportati in Italia, seimila abitanti di Addis Abeba sono trucidati dopo il fallito attentato a Graziani.
Graziani, quello che girava "per Tripoli con la sahariana bianca, su un cammello, sei negrette a seno nudo che gli facevano vento e ai suoi piedi, trascinato in catene e nella polvere, il capo dei guerriglieri senussiti, sterminati con i gas" (F. Merlo). Il 9 maggio 1936 arriva l'impero. Lo scrittore Corrado Alvaro ricorda: alla cerimonia della proclamazione, una principessa di Casa Savoia, a cui Mussolini bacia la mano, gli dice: "Duce, siamo noi che dovremmo baciarvela". [1035]

Antonio Montanari
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Tama 1034, 03.04.2011
Si fa presto a dire Europa

Non sarebbe stata male qualche bandiera europea accanto al tricolore per le celebrazioni dell'unità italiana. Poteva pure esserci una cerimonia comunitaria per dire di quante lacrime e di quanto sangue sia stata fatta (e sia tuttora) la Storia non soltanto del nostro ma di ogni Paese in ogni angolo del mondo.
L'Europa fu un sogno ricorrente. Non soltanto del povero Mazzini che nell'aprile 1834 a Berna insieme ad altri sedici esuli, italiani, polacchi e tedeschi fonda la "Giovine Europa" per affermare i princìpi d'indipendenza delle nazioni e di fratellanza europea (G. Candeloro). A Polonia, Belgio, Svizzera, Germania e Francia, Paesi agitati "da fremiti insurrezionali che potevano fare sperare nella prossima ripresa di una Rivoluzione europea", Mazzini ha guardato nel giugno 1831, compilando il primo documento della sua "Giovine Italia" (G. C.). Nel 1860 egli pubblica uno scritto in cui allarga la visione politica dall'Europa al mondo, "I doveri dell'uomo". E spiega che quei doveri hanno un fondamento divino, essendo l'umanità una creatura di Dio, per cui tutti gli uomini sono fratelli tra loro nel nome del Padre comune.
Nel 1941 a Ventotene due confinati politici antifascisti, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, compilano quel "Manifesto" che denuncia il fallimento della Società delle Nazioni, nata nel 1919 dopo i massacri della "grande guerra". E che progetta, come dice il titolo completo, una "Europa libera e unita". Il 13 luglio 1941 il vescovo di Münster von Galen (beato dal 2005) accusa la Gestapo di non rispettare la giustizia che è "fondamento degli Stati" con arresti arbitrari di cittadini innocenti trasferiti nei campi di concentramento, e si dichiara "annunciatore e difensore di un ordine legale e morale divino".
Negli stessi giorni, come scrive Luigi Meneghello in "Promemoria" (1994) la frase "questione ebraica" assunse "un significato preciso e divenne il termine convenzionale per riferirsi, nella corrispondenza ufficiale tedesca, allo sterminio organizzato degli ebrei". Osserva Meneghello: "Da tutto il territorio della Repubblica di Salò si è calcolato che fossero deportati complessivamente circa 10.000 ebrei, solo in parte di nazionalità italiana, di cui circa la metà ad Auschwitz".
Dalla Ventotene del 1941 arrivava l'avviso: soltanto un'autorità federale europea poteva garantire la fine delle rovinose politiche nazionali. La questione libica di oggi dimostra che a questo traguardo non siamo ancora giunti. [1034]

Antonio Montanari
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Rimini 150. In poche parole.
Antefatti risorgimentali (7 Ponte)

Gioacchino Murat nel 1815 inizia la sua avventura politica. La dichiarazione di guerra è del 15 marzo. Il 30 successivo egli pubblica a Rimini il "Proclama" agli italiani. Con l'armistizio del 20 maggio l'avventura s'interrompe. Murat si rifugia in Corsica e progetta nell'ottobre la riconquista del Regno di Napoli. "Sbarcato presso Pizzo di Calabria con pochi seguaci, fu quasi immediatamente catturato dai borbonici e condannato a morte da una commissione militare. Cadde coraggiosamente colpito da un plotone d'esecuzione il 13 ottobre 1815" (G. Candeloro). Era nato il 25 marzo 1767. Nel 1800 aveva sposato Carolina Bonaparte, sorella minore di Napoleone, nata il 25 marzo 1782.
A Rimini la notizia dell'uccisione di Murat arriva il 24 ottobre. In suo nome l'11 aprile, racconta C. Tonini, alcuni sediziosi avevano percorso le strade della città gridando "Viva l'indipendenza, viva il re Gioacchino, morte ai preti, morte ai papisti". Poi hanno tentato di assalire le case di persone reputate avversari politici, e quelle di quattro sacerdoti. Il notaio e cronista M. A. Zanotti commenta l'esecuzione di Murat: così terminavano miseramente le glorie di quest'uomo che sei mesi prima aveva superbamente cavalcato per la città, alla testa di poderose armate.
Il 27 aprile a Rimini (scrive G. C. Mengozzi) si è verificato "un grave tumulto popolare" di cui fa le spese (con l'arresto) la marchesa Orintia Romagnoli in Sacrati, poetessa cesenate, che era stata grande benefattrice di Aurelio Bertòla, poeta riminese. Gli aveva prestato i soldi necessari all'acquisto di un podere nella Parrocchia di San Lorenzo a Monte. Era il 1794. Due anni dopo Bertòla scappa da Rimini, tentando inutilmente di passare a Firenze e poi a Vienna, dove era stato nel 1778 all'epoca della Nunziatura del riminese Giuseppe Garampi. Si ammala a Bologna. Di qui alla Sacrati chiede che gli procuri "il sussidio" (la piccola pensione universitaria da Pavia): "torno al nido; ma nell'incertezza m'espongo alla mendicità". La miseria lo costringe ad accettare (agosto 1797) il compito di redigere un "giornale patriottico" per i francesi.
Il tumulto del 27 aprile 1815 divide la città in due "fazioni inclini a sostenere anche con la violenza i propri ideali": da un lato ci sono "i fidelini o papalini, forti nella campagna, fra gli artigiani e naturalmente fra le famiglie di più antica nobiltà" (Mengozzi). Molti nobili sono con Murat: lo festeggiano al Casino Civico, attivo sin dal 1803.

Antonio Montanari
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Tra Monte Colombo e Roma
Risvolti politici di antichi fatti, per tutta la Romagna


Da impenitente lettore di Storia e di storie (soltanto per un difetto genetico documentabile "su per li rami"), ho molto apprezzato il recente lavoro di Maurizio Casadei dedicato alla nascita del Comune di Monte Colombo. E soprattutto segnalo, con particolare ammirazione, il primo paragrafo del primo capitolo. Dove l'autore indirizza la nostra attenzione verso un problema che non riguarda soltanto il territorio di Monte Colombo, ma si pone come generale rispetto all'intera Romagna. Spiega tutto il titoletto dello stesso paragrafo: "Le conseguenze dell'ingresso nello Stato pontificio".
Casadei scrive che l'inserimento delle comunità locali, sia le cittadine sia le più piccole dei contadi, all'interno dell'organizzazione politica che faceva capo a Roma, provoca uno svuotamento di sostanza delle singole realtà periferiche.
Questo aspetto costituisce una seria questione di fondo, esaminata con cura dall'autore: "le comunità persero la capacità di difendere l'autonomia goduta al tempo delle libertà comunali", ma nello stesso tempo non si assiste ad un rafforzamento dello Stato centrale.
Questo aspetto è il punto centrale di una situazione di complessa crisi che è contemporaneamente politica, economica e quindi pure sociale. La crisi danneggia sia tutto il territorio pontificio nel suo complesso, sia le singole realtà periferiche.
Nelle quali chi governa non è espressione delle comunità amministrate, ma è scelto fuori di esse, per decisione o di Roma o del cardinal legato. Questi "gruppi di potere" da cui dipendono tutte le decisioni, come osserva giustamente Casadei, erano i "meno adatti a gestire le esigenze locali". Essi volevano soltanto far valere gli antichi privilegi. Dai quali derivavano le loro fortune famigliari e le conseguenti scelte politiche relative alle loro persone.
Al proposito, Casadei richiama uno studio ormai classico, apparso nel 1977, a firma di Giovanni Tocci, e dedicato alle "Legazioni di Romagna e di Ferrara dal XVI al XVIII secolo" (in "Storia dell'Emilia Romagna", Bologna, vol. II). Qui si legge che la Legazione "fu tutt'al più l'espressione del centralismo velleitario, e perciò autolesionistico della Curia, le cui probabilità di riuscita erano affidate - in una concezione tutta personalistica del potere - alle abilità o alla disponibilità di questo o quel cardinal legato".
Nelle pagine di Tocci troviamo la citazione di un illustre studioso, Augusto Vasina, le cui parole sul tema meritano un ricordo, perché vi appare anche la città di Rimini relativamente al sec. XVI. Il sovrapporsi alla realtà locale già compromessa da fattori interni, delle strutture di governo papali, "intorbidò maggiormente la situazione, complicando il gioco degli interessi contrastanti, nella accresciuta confusione fra pubblico e privato, fra esigenze religiose e interessi materiali, fra posizioni municipali e programmi papali".
Tra 1500 e 1600, scrive Casadei, il contado riminese conta dieci "castelli", con altrettanti capitani nominati dal Consiglio comunale di Rimini. Tra questi castelli c'è appunto Monte Colombo con annessi Albereto e Monte Tauro.
Da questa antica realtà, parte il libro di Casadei che esamina le vicende politiche di quel territorio, con una accurata documentazione la cui utilità per i lettori si dimostra ad ogni pagina. Essa è presentata con uno stile molto chiaro nell'analisi condotta, e con un ritmo elegante che caratterizza l'intero lavoro.
Se a Rimini si avesse la buona abitudine di leggere ed esaminare "in pubblico" queste cose, anche di questo "Monte Colombo" (edito dal Ponte Vecchio di Cesena), dovremmo interessarci. Purtroppo, la città offre molti monologhi e pochi dialoghi.

NOTA. Il volume presenta un "Particolare della carta geografica dello Stato Ecclesiatico", pubblicata nel 1755, ed opera dei padri gesuiti Christopher Maire e Ruggiero Giuseppe Boscovich.
Il dalmata Boscovich (1711-1787), uno dei maggiori scienziati del tempo, è considerato il fondatore della Specola di Brera ed è noto in Europa come astronomo, matematico, geodeta e filosofo naturale. Fu a Rimini nel 1752 per misurare l’arco di meridiano con Roma. Sosteneva la necessità di misurare gli archi di meridiano a latitudini intermedie. L’offerta di stendere la carta dei domini papali gli consentì anche di misurare l’arco di meridiano tra Roma e Rimini. Le imprese sono entrambe realizzate con l’aiuto del matematico e confratello Maire, tra l’ottobre 1750 e il novembre 1752.
Particolarmente importanti sono i lavori effettuati a Rimini, ossia la stesura e misura della base geodetica nel litorale tra Rimini e Riccione, indispensabile per il controllo dell’esattezza dell’intera operazione, e le osservazioni astronomiche e geodetiche eseguite con l’ausilio degli strumenti del conte riminese Francesco Garampi, fratello del cardinal Giuseppe.
Francesco Garampi e Boscovich si erano conosciuti nel 1736 a Roma dove il riminese a 21 anni, dopo un soggiorno bolognese dedicato agli studi scientifici ed astronomici tra dicembre 1734 e luglio 1735, si era recato per compiere quelli legali, non dimenticando mai di osservar le stelle, per cui fece amicizia con il gesuita.

Antonio Montanari
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Anno XIII, n. 184, Aprile 2011
1443. Date created: 23.03.2011 - Last Update: 22.04.2011, 09:36/
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