Diario italiano
Il Rimino 186, anno XIII
Giugno 2011

Tama 1045, 26.06.2011
Si fa presto a dire replica

Una rondine non fa primavera, però la replica dei programmi tv fa estate. Se la Natura ha leggi rigide ma concede pure variabili indipendenti, la politica è un ferreo sistema che non suggerisce bensì impone. E non ammette eccezioni alla regola. Le stagioni, come dicevano una volta le vecchie professoresse di Scienze bevendo un tè, non sono più quelle di una volta. Poi sono venute le professoresse giovani che hanno cominciato a sostenere che non ci sono più le mezze stagioni. Invece i politici di ogni età di ieri e di oggi hanno sempre sostenuto che il mondo deve andare come essi desiderano, vogliono e fermamente pretendono.
La replica estiva dei programmi tv è frutto di un eterno desiderio dei politici di addormentare il pubblico nel confortevole sopore fornito dalle cose viste. L'aspetto comico della cronaca di questo principio d'estate 2011, è che la replica ha contagiato anche la stessa politica. Negli ultimi giorni i nostri giornali sono stati pieni di cronache giudiziarie in cui vecchi volti sono stati nuovamente piazzati in prima pagina. Non per raccoglierne confidenze rassicuranti, ma per narrare ancora una volta, con il beneficio della presunzione d'innocenza, gli stessi coinvolgimenti fra trame segrete e vita dello Stato. Un'etichetta pietosa ed ormai antica le classifica come misteri del Bel Paese.
Un mese prima delle recenti rivelazioni giudiziarie, Concita De Gregorio direttrice de l'Unità sino al 30 giugno, si era chiesta che cosa ci facesse un certo signore protagonista di quelle rivelazioni, in un certo Palazzo del Potere romano. Da quel Palazzo, via centralino del Ministero degli Interni, alla stessa direttrice arriva poi un confortevole suggerimento: "Mi permetto di metterla in guardia da eventuali errori. Non vorrei che avesse a dolersene. Lei sa meglio di me quanto certi terreni siano insidiosi e fitti di trappole", perché non si vuol fare a meno di una voce importante come la sua.
Un mese dopo quella telefonata e dopo le rivelazioni giudiziarie sui vecchi faccendieri ancor oggi ospiti di quel Palazzo e titolari di fascicoli penali, una vocina ha anticipato la "uscita" della direttrice, poi resa nota la sera del 18 scorso.
Lo storico Massimo Teodori, che fece parte della Commissione parlamentare sulla P2, ha scritto sul CorSera che certi personaggi da tempo alla ribalta per cattive compagnie, andrebbero tenuti lontani dalla cosa pubblica. Questa volta la replica delle trame oscure non fa appisolare ma inquieta. [Anno XXX, n. 1045]

Antonio Montanari
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Carta canta (3), 26.06.2011
La Malatestiana di Rimini

Dal 1901 si conosce l'inventario perugino (1560) della Biblioteca Malatestiana di Rimini nel Convento di San Francesco (Tempio), edito da Giuseppe Mazzatinti. La Biblioteca era costituita da due file di plutei di venti elementi ciascuna, con "circa" 150 opere nella prima e 123 nella seconda.
L'inventario è sfuggito a Christopher S. Celenza e Bridget Pupillo (della Johns Hopkins University), ai quali va il merito di valorizzare la nostra Malatestiana. Che hanno inserito nel loro saggio su "Le grandi biblioteche pubbliche nel Quattrocento", contenuto nel primo volume sulle origini del Rinascimento (a cura di A. De Vincentiis), del monumentale "Atlante delle letteratura italiana" (2010) ideato da S. Luzzato e G. Pedullà.
I due studiosi statunitensi, non avendo esaminato l'inventario del 1560, scrivono che della Malatestiana di Rimini si ignorano le dimensioni. Ma ricordano che l'umanista Roberto Valturio (1413-83) lasciò ad essa la propria collezione di manoscritti, perché fosse a disposizione dei cittadini. E che nel testamento di Galeotto Roberto Malatesti (1430) "si esprime l'intenzione di seguire la volontà dello zio Carlo" di creare una biblioteca pubblica a Rimini.
Questa data ne fa la prima biblioteca pubblica d'Italia. Altro primato riminese: la Gambalunga (1619), quarta come pubblica dopo Ambrosiana (1609) ed Angelica (1614), è la prima biblioteca civica italiana.
Nel suo testamento (1475) Valturio pone una condizione: i frati dovevano trasferire la Biblioteca dal piano terra a quello superiore, perché i locali originali non erano idonei alla conservazione dei manoscritti. Nel 1794 Angelo Battaglini scrive che il piano terra era "pregiudicevole a materiali sì fatti". Il cambio di locali avviene nel 1490, come ricorda l'iscrizione latina di marmo conservata al Museo di Rimini ("Sotto il principato di Pandolfo. Mentre Galeotto, nato dal sangue di Malatesta, era speranza e padre della Patria. Per tua somma cura, Giovanni Baioti teologo, la biblioteca è stata posta in questo luogo. 1490").
Valturio nel "De re militari" (XII, 13) ricorda che Sigismondo donò alla nostra Malatestiana moltissimi volumi di libri sacri e profani, e di tutte le migliori discipline.
Nel 1560 figura inventariato Nicolò di Lira, con il suo codice "Super Psalmos". Di questo autore sono i tre volumi delle "Postille" completati a Pesaro nel 1402, passati a Mantova (per nozze in casa Gonzaga e poi al convento di San Francesco) ed ora alla John Rylands Library di Manchester.

All'archivio web sulla Biblioteca Malatestiana di Rimini.


Bridget Pupillo

Antonio Montanari
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Tama 1044, 19.06.2011
Si fa presto a dire foto

Rimini 1956, madre e figlia al concorso per Miss Italia. La foto, tratta da un volume del 2000 di Lucia Motti, è nell'ultimo numero di Tuttolibri, in un articolo di Anna Bravo sul testo "Italiane. Biografie del Novecento" di Perry Willson.
Ho dovuto sinora scrivere 239 battute per dire soltanto che un giornale ha pubblicato una vecchia immagine su Rimini. Adesso bisognerebbe spiegare che la signorina del 1956 veste un severo costume da bagno intero, mentre sua madre indossa un solenne abito scuro, rallegrato da chiari risvolti a mezzamanica e da analogo colletto. La giovane sorride impacciata. La madre marcia con lo sguardo fisso oltre la prima fila degli ombrelloni, immaginando un radioso avvenire per la fanciulla.
Se volessimo completare il discorso, dovremmo aggiungere qualcosa sull'Italia di quel tempo, sulla Rimini di quel decennio che mirava al rilancio turistico come base dell'economia cittadina. Mentre tutto il Paese vedeva spopolarsi le campagne, con la gente che andava a lavorare nelle fabbriche del Nord.
Quindi, cari lettori, comprendete quanto sia complesso, arduo, difficile, ed anche storicamente pericoloso commentare una foto. Di ogni fatto, come si divertiva il settimanale Candido, c'è sempre un visto da destra ed un visto da sinistra.
Il lettore può immaginare quale fatica farebbe un cronista tra 55 anni (gli stessi che ci separano dall'aspirante miss a Rimini del 1956, quando vinse Nives Zegna), a raccontare una foto scattata a Roma l'8 giugno 2011. In un teatro dove si radunavano sotto la guida illuminata di Giuliano Ferrara altri direttori di giornale come lui, autodefinitisi con sicurezza cartesiana "servi liberi di Berlusconi".
La nostra, pardon, la loro foto vede il direttore di Libero che s'inchina sorridendo alla sorridente immagine di cartone del Cav. curiosamente non a grandezza naturale ma un poco ingrandita in altezza. Mentre il suo collega del Tempo se la ride apertamente. Forse grazie al fatto di vivere e lavorare nella capitale che sarà quello che sarà, ma non ha un sindaco responsabile di aver scippato la signora Moratti, e mica dico la cassiera d'un bar, della prima poltrona di Palazzo Marino.
Compatiamo affettuosamente chi fra 55 anni avrà l'ingrato incarico di spiegare ai propri lettori come mai nel 2011 qualcuno, con in dote molta intelligenza e cospicui stipendi, abbia proclamato urbi et orbi, a chi ci crede e a chi no, che esistono anche i servi liberi, oltre ai liberi servi che si incatenano da soli. [anno XXX, n. 1044]

Antonio Montanari
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Rimini 150. In poche parole.
1936, si pensa al 1831 (12 Ponte)

Aprile 1936, "il Diario" dell'Azione Cattolica di Rimini, pubblica un articolo di Giulio Cesare Mengozzi sul vescovo della città nel 1831, mons. Ottavio Zollio, passato alla storia per il proclama del 19 febbraio, pubblicato nel bel mezzo della tempesta rivoluzionaria, avviatasi pacificamente da Bologna il 4. La sommossa interessa tutti i territori emiliano-romagnoli dello Stato della Chiesa da Piacenza alla Cattolica, e culmina nella sconfitta militare alle Celle di Rimini, il 25 marzo.
Zollio nel proclama rassicura che ordine, concordia e pace regnavano tra gli insorti. E raccomanda di mantenere la quiete necessaria a rifiutare i cattivi consigli di quanti miravano al caos.
Torniamo al 1936. Già nel 1931 l'Azione cattolica riminese ha subìto una persecuzione politica (in linea con le direttive di governo): sacerdoti minacciati, oratorii devastati, circoli degli scouts chiusi. C'è pure l'arresto del presidente dei giovani cattolici, Luigi Zangheri che (ricordava Sergio Ceccarelli nel 1983), deve attraversare il Corso in mezzo ai poliziotti come un malfattore qualsiasi. La cattura di Zangheri è giustificata ufficialmente dal fatto che nei circoli cattolici si erano infiltrati gli antifascisti.
Nel "Diario" dello stesso 1936 il sacerdote don Giovanni Montali pubblica tra maggio e luglio due articoli che sono una pungente satira nei confronti della nuova mistica fascista. Ed approdano ad un'invocazione al duce, chiamato il "chirurgo provvidenziale" cui toccava il compito di risanare la gioventù italica. Don Montali il 20 giugno 1944 è avvisato da un capo fascista che stanno per catturarlo e fargli la pelle: "Scappi via...". E lui va a San Marino, dai frati di Valdragone. Al ritorno a casa, dopo la liberazione di Rimini (21.9.1944), ritrova in un pozzo i propri fratelli Giulia e Luigi, 59 e 66 anni, uccisi dai nazi-fascisti.
Nell'articolo di Mengozzi, mons. Zollio appare il simbolo della cultura cattolica liberale capace di intendere soltanto la voce del Vangelo e non gli obblighi del potere temporale. Mengozzi apparteneva ad una famiglia in cui ideali risorgimentali e valori religiosi convivevano, con diretta assunzione di pubbliche responsabilità.
In una breve antologia sui cento anni dell'azione cattolica riminese (1968), Mengozzi ricordava per il 1937 l'intervento di Benigno Zaccagnini al fianco di Carlo Alberto Balducci, e per il 1938 la presenza di Augusto Baroni, poi docente di Storia della Pedagogia al Magistero di Bologna. (12. Continua)

Antonio Montanari
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Scolca, misteri d'arte e di denari.
Giuliana Gardelli indaga tra ceramiche e cronaca nera

Ci sono ancora studiosi seri che si divertono a scrivere pagine originali, proponendo interrogativi e non soltanto granitiche certezze. Come Giuliana Gardelli che, in "Morte di un monastero e del suo assassino" (Raffaelli) indaga su Scolca con levità di scrittura. Dietro cui si nasconde, senza arroganza alcuna, il suo prestigioso curriculum di studiosa di Storia dell'arte.
Nel 1940 arriva da Roma al Castello Sforzesco di Milano una maiolica di cui si comincia a parlare nel 1972, attribuendola a Carlo Malatesti (1368-1429) di Rimini. Dove si trovava quella maiolica? L'ipotesi avanzata rimanda appunto a Scolca. Del cui monastero si presenta qui la storia, partendo dalla donazione dell'11 gennaio 1418 fatta da Carlo Malatesti per una piccola chiesa, ai frati Agostiniani di San Paolo I Eremita.
A loro nel 1421, subentrano gli Olivetani. I quali iniziano i lavori di ampliamento dell'oratorio. La vicenda del monastero approda all'8 maggio 1802. Quando, dopo le soppressioni napoleoniche degli Ordini religiosi e l'incameramento dei loro beni allo Stato, si decide la sua demolizione.
Dal capitolo dedicato alle riflessioni sulla vicenda, riprendiamo l'inquietante conclusione: "Dove si trovano ora i reperti dell'Abbazia di Scolca? Una ricerca nelle ville sul colle e nelle dimore patrizie del Riminese potrebbe individuarne non dico tutti, ma almeno una parte?". Come è chiaro, alla domanda non possono dare una risposta forte e chiara gli studiosi del ramo, ma altri esperti del patrimonio artistico che, se non siamo male informati, agiscono nell'Arma dei Carabinieri.
Tornando alla Storia ed alle storie di Scolca, non ci allontaniamo dallo spirito di questa domanda avanzata dalla prof. Gardelli, quando apriamo il capitolo successivo. Dove l'autrice torna sulla distruzione di Scolca, ideale e simbolico luogo di un delitto. Infatti i dieci acquirenti di Scolca, sono messi assieme da un avvocato, Domenico Manzoni, che fa una brutta fine. Nato a Faenza nel 1775, a 25 anni è condannato come giacobino ed eretico, per cui si rifugia a Forlì. Alcuni lo qualificano conte, altri lo dicono commerciante di granaglie. Grazie alle quali fa speculazioni bancarie che gli rendono una fortuna enorme, come osservava il compianto storico Antonio Drei. Manzoni è ucciso a Forlì il 26 maggio 1817.
Fu in rapporto con Antonio Canova. A cui nel 1814 ordina una statua che arriva alla famiglia dopo la sua morte. La vedova Geltrude Versari nel 1830 la vende ad un principe russo. Se ne sono perse le tracce. Invece di Canova, a Forlì, si conserva tuttora il monumento sepolcrale per Manzoni donato dallo scultore a Geltrude Versari.
Perché Manzoni fa quella fine? Alcuni studi sulla Romagna prerisorgimentale apparsi fra 1910 e 1918, indicano una certezza: Manzoni cadde vittima di un regolamento di conti interno al mondo della Carboneria. Non si scarta neppure l’ipotesi della rivalità delle Logge massoniche con la Carboneria. Il popolo considerava Manzoni un incettatore di grani, un affamatore in quel tempo di carestia. Sospettato di tradimento dai "cugini" (gli affiliati) carbonari, sarebbe stato punito per il suo agire. Per ottenere privilegi dal governo, scrive Gardelli, avrebbe fatto i nomi dei capi carbonari. Che poi si sarebbero vendicati.
Nel 1824 un delatore confida alla polizia che il ricco banchiere Manzoni è stato ucciso da Vincenzo Rossi e Pietro Lanfranchi. Lanfranchi è pure lui carbonaro, con il grado di "maestro terribile", ovvero di chi mette alla prova i nuovi soci. E pure lui ha fatto una brutta fine a 35 anni nell'agosto 1822, si disse avvelenato in carcere. Lo piansero come prode guerriero che sotto le armi francesi aveva ricoperto il suo corpo di gloriose cicatrici.

All'articolo "Le carte segrete di Scolca. Gli Olivetani a Rimini in due antiche storie" [2010].

Antonio Montanari
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Tama 1043, 12.06.2011
Si fa presto a dire inno

Ci sono coincidenze un po' beffarde nella Storia. Tra sfilate, inni e canti si celebrava in maniera particolare (per i 150 anni ben sudati della nostra Italia), la festa della Repubblica. Nata il 2 giugno 1946 con il primo suffragio universale. Ovvero con la chiamata alle urne anche delle donne. Ai cittadini di questo Paese, che l'inno di Mameli hanno usato quasi soltanto come sottofondo nelle partite della Nazionale, si offriva una notizia ghiotta e confusa. Lo scandalo calcio-scommesse. Distratti dai fatti della vita, potevamo tutti, con innocenza infantile, essere vittime di un cortocircuito mentale: ma perché tanti inni proprio ora che il pallone rinnega il suo ideale di sport popolare e patriottico, anche se diviso tra guelfi e ghibellini, ovvero tifosi non sempre abituati ad applicare i precetti del galateo più spicciolo?
Ci sono dei Paesi in cui capi di governo e di un partito politico sono anche stati presidenti di una squadra di calcio, e si vantano di essere abili nel governo del Paese così come erano validi nella gestione della compagine sportiva. In Italia c'è stato un armatore napoletano che fece del calcio lo strumento della sua ascesa politica, assieme alle scarpe spaiate regalate agli elettori. Una prima ed una dopo il voto. Tanto per camminare sul sicuro.
Noi italiani ci rallegriamo ancora per la vittoria del 1982, quando diventammo campioni mondiali l'11 luglio. Abbiamo memoria più corta per altri fatti di quell'anno. Ciò è comprensibile. Anche i migliori cervelli hanno spazi limitati, mica tutto si può ammassare nella scarsa materia grigia. Onore eterno per il Bearzot di quell'anno. Ma facciamo un pensierino pure per altri nomi. Ad esempio, 3 settembre, uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa con sua moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente Domenico Russo. Con altro scopo, un'altra citazione: 13 settembre, a Ginevra arresto del capo della Loggia P2 Licio Gelli. Se il tema interessa, i diari segreti di Tina Anselmi sulla P2 sono ora pubblicati da Anna Vinci. Un capitolo s'intitola "Sanno che sono sola". Era il 1983.
Il Bearzot del 1982 era stato invocato dalla Rosea con un "facci sognare", tornato dieci anni dopo per Antonio Di Pietro su un settimanale di sorrisi e canzoni, come annotava nel 1995, con l'amabile perfidia che ce lo fa rimpiangere, un grande scrittore scomparso: Edmondo Berselli.
Oggi non abbiamo sogni ma calciatori addormentati dagli scommettitori con bibite fraudolente. L'Italia si desterà? [anno XXX, n. 1043]

Antonio Montanari
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Tama 1042, 05.06.2011
Si fa presto a dire ieri

Ho ascoltato alla radio un bell'elogio dei cibi delle nonne di un tempo, accompagnato da una precisazione che però non mi è piaciuta. Quelle nonne, è stato detto, rappresentano "la sana povertà di ieri". È soltanto un'opinione, questa mia, e quindi vale per quello che vale. Ma nessuna miseria è sana. Chi dispone di cattedre o di microfoni può felicemente inventare teorie ed incollare fra loro frammenti di storie sconosciute, per sostenere sicuramente le cose che vuole.
Ma per tutti purtroppo c'è sempre un terribile agguato in cui anche le migliori etichette possono sprofondare, se non si controlla l'entusiasmo con il quale si costruiscono gli slogan. Nessuna povertà è mai stata sana, verrebbe da rispondere con una battuta, perché molte miserie hanno provocato troppe malattie e tante vittime.
Una cosa è elogiare la dignità di chi con sacrifici immensi costruiva una famiglia cercando di proteggerla soprattutto da quelle insidie che la miseria fabbrica come scappatoie per risolvere tanti, difficili problemi. Una cosa è avere nostalgia dei propri sentimenti e delle esperienze vissute in ambienti in cui la protezione famigliare era un bene supremo spesso desiderato ma non sempre attuabile.
Ci sono lunghi capitoli della Storia d'Italia, di questa nostra Penisola che inanellava addii, partenze, fughe come espressioni di bisogni economici imposti dalla fame, primogenita e crudele creatura della miseria.
Ed allora apriamo qualche cosa: un libro, internet o quello che volete voi, magari un armadio di famiglia. E vediamo alla voce immigrazione, cerchiamo la pagina di Marcinelle, la miniera belga, 8 agosto 1956, 262 vittime di cui 136 nostri compaesani. Scrisse il "Corriere della Sera": "L'Italia può esportare dei lavoratori, ma non degli schiavi".
La sana e buona povertà d'un tempo, era quella delle nonne che restavano a casa senza poter mai avere niente, ed attendendo sempre qualcosa. Era il ritorno del marito che lavorava all'estero. Oppure, l'arrivo del figlio che si era fermato al Nord entro i confini nazionali, per un posto sicuro ma non per un letto confortevole, perché ad esempio, a Torino, c'erano i cartelli che non si affittava ai meridionali.
La geografia dei sentimenti è molto più complicata della cosiddetta storia spicciola che a volte sentiamo raccontare con questi ricordi pieni di rimpianto per qualcosa che è fuggito e non torna più. Ma non illudiamoci che i nostri slogan, eleganti e definitivi, riassumano fatti veramente avvenuti. [1042]

Antonio Montanari
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Rimini 150. In poche parole.
1831, le nuove idee (11 Ponte)

Le idee che muovono la "Rivoluzione di Romagna del 1831" (titolo di un testo di A. Vesi, 1851), sono indagate in un nuovo, fondamentale volume dello studioso Pierluigi Sacchini, presentato il 15 maggio 2011 a San Leo.
Nel 1831, osserva Sacchini, "non ci sono grandi battaglie, grandi fatti cruenti ma c’è una grossa rivoluzione nelle idee. Queste non ci sono quasi mai negli archivi!". Qui ci sono soltanto gli atti relativi agli avvenimenti "ufficiali”.
Sacchini presenta un materiale dimenticato (opuscoli alla macchia, bandi clandestini, copie di testi inediti), con il titolo significativo di "1831: Rivoluzione di Idee".
L’assoluta novità, che offre un’originale lettura di quanto accaduto a Rimini il 10 luglio 1831, è in una sconosciuta "Stampa" affissa nelle vie di Romagna il 16 luglio, ma datata 12 luglio.
Vi si legge che la sera di quel 10 luglio alcuni giovani in compagnia di ragazze passano cantando sotto l’alloggio del colonnello Domenico Bentivoglio, appena giunto in città con le sue truppe, dopo la partenza di quelle tedesche. Il colonnello non gradisce e spara due colpi di pistola contro gli allegri canterini, imitato dai suoi granatieri che fanno la loro scarica. I feriti sono quattro, uno di loro muore dopo poche ore e si chiamava Giosuè Federici.
Tutte le testimonianze di cronaca sinora conosciute, recano che il ferito grave era Cesare Federici il quale muore poi in agosto, chi dice il 19 e chi il 21. Sacchini aggiunge che il 17 luglio in altre due fonti (il "Manifesto” indirizzato dai romagnoli all’ambasciatore d’Austria a Roma, e l’analogo documento inoltrato ai diplomatici di Francia, Inghilterra, Prussia e Sardegna presso la Santa Sede), risulta già un morto nell’incidente del 10 luglio sera.
La "Stampa" datata 12 luglio è senza dubbio la fonte a cui attinge nel 1883 a Roma David Silvagni (prefetto, 1883-1887, con Agostino Depretis), nel suo libro sulla corte e la società romane tra 1700 e 1800. Dove scrive appunto che l’ucciso era tal Giosuè Federici.
Cesare Federici è definito dal cronista riminese Filippo Giangi "figlio di pescivendolo". Di Giosuè non sappiamo invece nulla. Sulla scena politica nel 1832 appare un altro Giosuè Federici, qualificato come orefice di Monte Scudolo, arrestato per "canti e beffe contro il Papa" e processato il 16.7.1833, come risulta da un saggio del 1940.
Le nuove idee girano pure in forma di satira politica. A Rimini nel 1831 appare un falso scritto del Bentivoglio sparatore. Vi si parla di una confederazione italiana come in Svizzera ed in Germania. (11. Continua)

Antonio Montanari
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La guida di San Leo
di Nevio Matteini

Usciva nel 1962 questa guida di San Leo, di Nevio Matteini, ora giunta alla XVIII edizione, aggiornata dal figlio Annio con una postfazione utile per conoscere la figura dell'Autore. Il cui nome occupa un posto di primo piano tra gli storici della Romagna, non soltanto per le frequentazioni letterarie e giornalistiche avviate con un lavoro su Alfredo Oriani, apparso nel 1952 presso l'editore Mazzini (che era un libraio di Rimini, destinato a vedersi dai concittadini storpiato il cognome in "Mazzino"). Ma soprattutto per la passione con la quale Nevio Matteini, docente di Filosofia nell'allora unico Liceo scientifico di Rimini, ripercorse tutti i luoghi della nostra Terra, lasciandoci un'illuminante testimonianza in due opere: la prima ("Romagna. Personaggi, luoghi, fatti e leggende", 1954) fatta di pagine scritte con una competenza nata dalla lettura di tutto quanto era possibile esaminare, e la seconda ("Romagna", 1963) originale ed innovativa nell'impostazione, ovvero un viaggio nella geografia dei luoghi e delle biografie, compiuto assieme a Davide Minghini, artista impareggiabile della macchina fotografica, che ci ha lasciato una documentazione figurativa altrettanto preziosa al pari di quella letteraria di Matteini.
Questa guida di San Leo del 1962, è figlia di un più complesso lavoro specialistico, pubblicato due anni prima, sulla figura del Conte di Cagliostro (pure di questo testo Annio Matteini ha curato una nuova edizione, nel 2008).
Il libro su Giuseppe Balsamo è stato citato da Indro Montanelli nella propria "Storia d'Italia" del Settecento: "Lo storico Nevio Matteini dice che Cagliostro tentò a più riprese di guadagnarsi la fiducia dei massoni romani, ma con scarsi risultati...".
"Chi fu Cagliostro?" si chiedeva Matteini. La sua risposta è: si trattava di un "povero essere psicopatico e gravemente minato nel fisico". Il giudizio nasce dalle carte esaminate: i rapporti ufficiali del castellano di San Leo al presidente della legazione d'Urbino.

Antonio Montanari
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Diario italiano, indice.

Anno XIII, n. 186, Giugno 2011
1478. Date created: 02.06.2011 - Last Update: 24.06.2011, 12:00/
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