Diario italiano
Il Rimino 195, anno XIV
Marzo 2012

Tama 1074, 25.03.2012
Scuola, cattiva Maestra

I brutti voti del primo quadrimestre sono un allarme che non riguarda soltanto Rimini. Il dato locale lo avete letto nel bel servizio del numero scorso, intitolato "Pagelle da incubo". In contemporanea sui quotidiani nazionali uscivano le informazioni diramate dallo stesso Ministero della Pubblica (d)istruzione, con la dotta citazione d'uno sconfortante studio sui temi svolti alla Maturità. I nostri studenti che s'avviano al lavoro (se lo trovano in Australia) od all'Università (se non le chiudono per mancanza di fondi), dovrebbero ripartire da zero, almeno per non collocare il povero Leopardi nel primo Settecento.
Già anni fa il Magnifico Rettore di Bologna dichiarava che moltissime matricole di Medicina faticano a comprendere il senso dei libri su cui debbono applicarsi. Non mi preoccupa il libro che può essere maltrattato dai ragazzi, all'insegna del vecchio motto "Se non ti spieghi, ti faccio la faccia nera". Mi angoscia la questione che quei ragazzi, impossessatisi della Laurea, esercitino la professione in maniera tale da farci neri della loro ignoranza.
Da vecchio, tormentato studente che ha avuto anche una lunga, ereditaria parentesi nell'insegnamento, mi permetto di difendere i ragazzi, anche perché mi sembra una moda troppo forcaiola quella di tirargli sassate e pernacchie, soprattutto da parte di chi per primo dovrebbe agire allo scopo di eliminare lacune ed errori nelle preparazioni individuali.
Ed allora, se permettete, rovescio la prospettiva. Partendo dal fondo, dalle solenni parole di un consulente scientifico del Ministero che in poche righe di colonna di giornale ha messo assieme un discorso altamente di cattivo suono (o cacofonico come dicono i dotti), fatto con questi termini: organizzazione, gerarchizzazione, argomentazione, padronanza. Voleva semplicemente (ne siamo sicuri?) dire che i giovani studenti oggi non sanno mettere logicamente in fila le loro idee e comprendere se quello che dicono è una serie di balle oppure non lo è.
Egregi ed illustri tecnici ministeriali, dato che "nessuno nasce imparato", sarebbe forse il caso di chiedersi se la nostra Scuola non sia una Maestra piuttosto cattiva che saggia. Non mi è mai piaciuto il tiro al piccione ad occhi bendati diretto agli studenti, nella convinzione che tanto dove si piglia, si piglia bene. E mi rattrista di leggere le storie di brillanti carriere che poi si svolgono soltanto all'estero, perché si sa come vanno le cose qui da noi. [Anno XXXI, n. 1074]

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA


Aurelio Bertòla, il ritratto restaurato

Il restauro del ritratto settecentesco di Aurelio De' Giorgi Bertòla, opera di Pietro Santi (1737-1812), sarà illustrato il 28 marzo alle ore 17 presso il Museo della Città di Rimini (dove è conservato), da Adele Pompili che lo ha eseguito e dallo studioso Piergiorgio Pasini.
Pure la figura di Bertòla (1753-1798) meriterebbe un analogo lavoro, per togliere da essa la polvere della dimenticanza che, non soltanto a Rimini, talora la rende invisibile. Il bicentenario della nascita lasciò un volume di oltre 300 pagine. Quello della morte un'altra opera ancora più consistente. Ma se apriamo il recente secondo tomo dell'"Atlante della letteratura italiana" (Einaudi), troviamo che nelle sue 900 pagine al Nostro sono dedicate soltanto pochissime righe: riguardano un testo importante, "La filosofia della storia", una cui edizione è uscita a Napoli nel 2002 a cura del prof. Fabrizio Lomonaco.
Nessuno ha mai pubblicato i 26 fogli d'un "Diario" conservato in Biblioteca Gambalunga di Rimini, importanti per ricostruire correttamente gli ultimi anni della vicenda esistenziale e politica di Bertòla, tra giugno 1793 e gennaio 1797.
Gran parte dell'interesse degli studiosi verso Bertòla è stata determinata dalla volontà di presentarlo come uno dei massimi esponenti della cultura rivoluzionaria filofrancese e della massoneria, dimenticando la matrice religiosa del suo pensiero filosofico. E per far ciò lo si è persino censurato, come per il brano tagliato da Vincenzo Ferrone nel libro "I profeti dell'Illuminismo" (p. 268). Per Bertòla la massoneria è nient'altro che filantropia.
Nel novembre 1796 egli è a Bologna, mirando poi a trascorrere l'inverno a Firenze. A molti suoi corrispondenti egli lascia credere d'aver abbandonato Rimini per recarsi a Pavia, allo scopo di ottenere la pensione e di riscuoterne gli arretrati per la cattedra di Storia, abbandonata nel 1793 a causa della malattia. Nel "Diario" il giorno 13 novembre annota la lettera inviata ad una sua grande benefattrice, la poetessa cesenate Orintia Romagnoli in Sacrati: "Su le ragioni del mio partire; nessuno può accusarmi né qual cattolico né qual suddito, dunque son tranquillo. Non so quel che farò".
La Firenze governata da Ferdinando III di Lorena (fratello dell'imperatore d'Austria Francesco II), doveva essere una tappa intermedia d'un viaggio sino a Vienna. Dove era ben conosciuto ed aveva soggiornato nel 1778, all'epoca della Nunziatura del riminese card. Giuseppe Garampi che gli aveva poi (1783) procurato la cattedra pavese.
Bertòla cerca di sottrarsi al clima politico creatosi all'interno dello Stato della Chiesa dopo l'armistizio con Napoleone del 23 giugno 1796. Il 18 ottobre da Forlì è cominciata in tutta la Romagna la cattura dei giacobini, portati il 19 a Rimini e di lì trasferiti nel forte di San Leo. Anche Bertòla corre il rischio d'essere incarcerato nella caccia ai sostenitori del partito oltremontano, per la sua fama di illuminato.
Il destino vuole che la malattia lo blocchi a Bologna che dal 16 ottobre fa parte della Cispadana. Il tipografo-libraio veneziano Giacomo Storti rimprovererà a Bertòla di non esser passato allora da Bologna a Padova, dove stazionava l'armata austriaca: di lì avrebbe potuto facilmente raggiungere Vienna.
Il 28 novembre Bertòla si rivolge ancora ad Orintia: "Ma e della pensione a cui ho diritto ora ancor più di prima? Per pietà me la ottenga. Sono senza un soldo. [...] quella piccola pensione mi basterà fino a miglior sorte". Il 2 novembre le aveva già scritto: "che mi procuri il sussidio; e torno al nido; ma nell'incertezza m'espongo alla mendicità".
Il "Diario" è importante anche per quanto vi è taciuto dopo il 15 gennaio 1797. Altre fonti di Bertòla ci narrano della sua fuga a Roma dopo quel giorno. L'11 febbraio Bertòla spiega a Lorenzo Mascheroni d'essersene andato da Rimini per sottrarsi "all'imminente pericolo d'essere arrestato e condotto in assai miser luogo, come uomo di opinioni infette e perverse".
Nel marzo 1798 è a Milano. Poi torna a Rimini, nel suo casino a San Lorenzo a Monte. Aggravatosi, Bertòla è portato in casa Martinelli in via Serpieri. Qui muore il 30 giugno. Nel registro dei defunti è detto Civis Ariminensis. Il notaio lo definisce anche Sacerdote.

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA


Tama 1073, 18.03.2012
Tempo che non passa

La signora Marina Orlandi, vedova del prof. Marco Biagi ucciso dalle Brigate Rosse il 19 marzo 2002, ha ricordato a Bologna il sacrificio del marito: "Era stato abbandonato dalla Polizia, dallo Stato che gli aveva tolto la scorta proprio nel momento in cui era più esposto. Era stato sbeffeggiato da chi doveva proteggerlo". Il 6 marzo sempre a Bologna, sono stati arrestati quattro poliziotti in servizio sulle volanti della Questura, due assistenti capi e due agenti scelti. Le accuse vanno dalla rapina alle percosse e lesioni a danno di spacciatori immigrati. Sulla scena della cronaca, pesa il ricordo della Uno Bianca. Il ministro degli Interni signora Cancellieri ha ragione: è una storia triste che riguarda soltanto quattro agenti, ma se anche si trattasse di uno solo sarebbe gravissimo.
La cronaca italiana deve misurarsi sempre con storie che hanno dietro una Storia che sembra non passare mai. Nel 2004 a Grosseto un curatore fallimentare è stato ucciso per aver creduto alla legge, come ha intitolato il Corriere della Sera un pezzo di Umberto Ambrosoli, reso orfano dalla stessa violenza. Una notizia da Palermo: il 19 luglio 1992 il giudice Paolo Borsellino fu ucciso perché si opponeva al patto tra Stato e mafia. La vedova di Borsellino accusa un generale dei Carabinieri, il quale risponde: sono stupide falsità.
Un esperto di tali vicende, Francesco La Licata (La Stampa) osserva che c'è mancanza di verità nelle indagini per lo stragismo mafioso tra 1989 e 1994. E cita il procuratore Piero Grasso che parla di una trattativa tra Stato e mafia come progetto per non cambiare gli assetti politico-finanziari. L'ex ministro degli Interni Nicola Mancino dal Corriere della Sera accusa d'esser stato usato e venduto nella trattativa con la mafia.
Se è vero che senza chiarezza sul passato, in un Paese non c'è speranza di futuro, occorre uno sforzo particolare per comprendere le pagine oscure che abbiamo vissuto. Per questo ha ragione La Licata quando osserva: potrebbe essere il Parlamento a cercare di ricostruire il contesto anche politico da cui nacquero le stragi.
Di recente si è discusso della minaccia rivolta dall'ex ministro Bossi al premier: Monti rischia la vita, il Nord lo farà fuori. Il caso è stato chiuso con l'accusa di Bossi ai cronisti di non averlo compreso. Il direttore de La Stampa Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi ucciso dal terrorismo, ha scritto: un giornalismo sano dovrebbe ignorare queste provocazioni. Ci sono rimasto molto male. [Anno XXXI, n. 1073]

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA


Tempio Malatestiano, cultura senza segreti

Le polemiche del teologo irlandese Wadding risalgono al 1628. Le buone ragioni per diffidare di certe interpretazioni, illustrate da Franco Bacchelli spiegando l'Umanesimo riminese.



Nel 1628 l'irlandese padre Lucas Wadding (1588-1657), professore di Teologia e censore dell'Inquisizione romana, scrive che Sigismondo dedica il Tempio di Rimini alla memoria di san Francesco, ma con immagini di miti pagani e simboli profani.
Gli risponde dalla stessa Rimini nel 1718 Giuseppe Malatesta Garuffi con la "Lettera apologetica [...] in difesa del Tempio famosissimo di san Francesco", sostenendo che il testo di Wadding contiene alcuni periodi pieni di calunnia contro il sacro edificio. Garuffi esamina dottamente le singole cappelle del Tempio: ha fatto studi teologici (è sacerdote) ed è stato direttore della Biblioteca Alessandro Gambalunga di Rimini (1678-1694).
A Garuffi risponde immediatamente un anonimo riminese con una pedante requisitoria in difesa di padre Wadding. La replica di Garuffi arriva nel 1727 con un ritardo che significa soltanto indifferenza verso argomenti ritenuti giustamente deboli.
Il discorso dei miti pagani e dei simboli profani, è una costante del dibattito culturale sul Tempio riminese, da cui sono derivate pure le tentazioni di farne un luogo pieno di misteriose velleità esoteriche. Contro le quali metteva in guardia nel 2002 Franco Bacchelli in un saggio prezioso.
Bacchelli osserva che "vi sono certo buone ragioni per diffidare" delle interpretazioni massoniche suggerite da una citazione del "De re militari" di Roberto Valturio. In essa si accenna alla suggestione esercitata sopra Sigismondo dalle "parti più riposte e recondite della filosofia". Bacchelli ricorda un passo di Carlo Dionisotti: quando si trattava di fede cristiana, "Valturio era intransigente: non poteva fare a meno di registrare la pratica della divinazione, ma la deplorava e la interdiva nel presente come arte diabolica".
Per la cappella dei Pianeti nel Tempio riminese, Bacchelli conclude che i bassorilievi dimostrano la convinzione del committente "che è nei cieli che bisogna ricercare la causa, se non di tutti, almeno dei più rilevanti accadimenti terrestri". Questo principio è "pacificamente accettato" nelle corti poste tra Venezia, Ferrara e Rimini, prima che, sul finire del XV secolo, Giovanni Pico della Mirandola proceda "ad una radicale negazione dell'esistenza degli influssi astrali".
Bacchelli illustra le contraddizioni del Tempio Malatestiano che rispecchiano quelle delle menti di Sigismondo e del suo ambiente, in cui convivono elementi cristiani e pagani.
Il testo di Bacchelli è fondamentale per comprendere il senso dell'Umanesimo riminese: un grande progetto culturale che si realizza sia nel Tempio sia nella scomparsa Biblioteca dei Malatesti in San Francesco.
Il dato locale di Rimini va inserito nel contesto "padano" descritto da Gian Mario Anselmi con un avviso: è necessario ridisegnare una nuova geografia, non per semplificare le cose, ma per comprendere e valorizzare "una complessità irriducibile a tradizionali formule di comodo".
Nel convento di San Francesco a fianco del Tempio, a metà Quattrocento sorge la prima Biblioteca pubblica in Italia, modello di quella gloriosa (e sopravvissuta) di Cesena. Ideata da Carlo Malatesti (1368-1429), progettata nel 1430 da Galeotto Roberto «ad comunem usum pauperum et aliorum studentium», nasce nel 1432.
Accoglie moltissimi volumi donati da Sigismondo e procurati dai suoi uomini di corte, fra cui c'è Roberto Valturio. Sono testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi, tracce del progetto umanistico di Sigismondo per diffondere una conoscenza di tutte le voci classiche.
Nel 1475 Valturio lascia la propria biblioteca a quella malatestiana in San Francesco, ad uso degli studenti e dei cittadini, con la clausola che i frati facciano edificare un locale nel sovrastante solaio, dato che quello al piano terra era "pregiudicevole a materiali sì fatti", come scrive Angelo Battaglini (1792).
Il trasporto al piano superiore avviene nel 1490. Lo testimonia una lapide trascritta non correttamente: non c'è il verbo "sum" (io sono) ma l'aggettivo "summa" da legare alla parola "cura". L'abbaglio sintetizza il disinteresse verso il tema dell'Umanesimo riminese.
Il saggio di Franco Bacchelli si trova nel volume dedicato alla "Cultura letteraria nelle corti dei Malatesti", a cura di Antonio Piromalli, con scritti pure di Augusto Campana e di Aldo Francesco Massèra. È il XIV della "Storia delle Signorie Malatestiane", edita da Bruno Ghigi.

Umanesimo riminese. Indice
Indice Biblioteca Malatestiana di Rimini
Mappa Biblioteca Malatestiana di Rimini
Indice Malatesti
Mappa Malatesti
Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA


Tama 1072, 11.03.2012
Il vero, prima o poi

La verità viene sempre a galla, prima o poi: meglio prima che poi, come dicevano i nostri vecchi. Quanto possa essere lontano questo poi, dipende da vari fattori. Prendiamo due esempi dalle cronache più recenti. Al lettore lasciamo trarre le conclusioni.
Dopo ben 22 anni trascorsi in carcere, il signor Giuseppe Gulotta è stato assolto per non aver commesso il fatto. Era stato accusato di una strage avvenuta il 26 gennaio 1976 alla casermetta dei Carabinieri di Alcamo Marina in Sicilia, con la morte di due militari diciottenni, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. Al processo di revisione concesso nel 2009 dalla Suprema Corte (dopo altri nove processi), ed appena celebratosi presso la Corte d'Appello di Reggio Calabria, sono state raccolte nuove testimonianze.
L'ex brigadiere Renato Olino, nel 1976 in servizio al reparto antiterrorismo di Napoli che si occupò del caso, ha riferito che ci furono metodi persuasivi a suo parere eccessivi per far "cantare" un giovane legato a movimenti di estrema sinistra, Giuseppe Vesco, che finì con l'accusare Gulotta e i due amici Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli. A carico dei due, nel frattempo scappati in Brasile e condannati per lo stesso eccidio, è in corso analogo processo di revisione.
Giuseppe Gulotta, si è letto nei giornali, ha dichiarato: "Mi puntarono anche una pistola in faccia e mi dissero: se non confessi ti uccidiamo". L'accusatore principale di Gulotta, Vesco, è morto suicida nell'infermeria del carcere di Trapani. Impiccato. Di recente, ad appoggiare l'ipotesi che Vesco fosse stato costretto a confessare cose non vere ai Carabinieri, sono giunte le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia siciliano, Vincenzo Calcara.
Secondo esempio, ricavato da "Sette" di giovedì primo marzo. Ferruccio Pinotti vi presenta un lungo servizio intitolato "Feltrinelli. Le ombre sotto il traliccio". Il 14 marzo 1972 l'editore milanese Giangiacomo Feltrinelli, classe 1926, salta per aria sopra un pilone della luce a Segrate. Allora si disse che morì mentre stava preparando un attentato.
Pinotti presenta una perizia medico-legale sinora ignorata, da cui risulta che alcune ferite sul corpo dell'editore sono incompatibili con le conclusioni dei giudici. In breve: se uno salta per aria preparando una bomba, non può aver conservato integre le sue mani. La perizia, scrive Pinotti, ipotizza con modo garbato e tecnico che Feltrinelli sia stato prima aggredito e poi fatto esplodere. [Anno XXXI, n. 1072]

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA


Tama 1071, 04.03.2012
Grecia, anzi Europa

L'inedito e cospicuo piano di salvataggio dell'economia ellenica (130 miliardi), adottato a Bruxelles all'alba del 21 febbraio, significa qualcosa non soltanto sul piano politico. C'è un suo aspetto culturale che lo stesso giorno è stato ben spiegato, nell'editoriale dei lettori sulla "Stampa", da Mauro Artibani, studioso d'Economia dei consumi. Egli sostiene che tutti noi europei abbiamo un debito verso la cultura ellenica: "L'alfabeto greco ci consente di scrivere, noi stessi pensiamo attraverso le parole greche; con la filosofia, che proprio lì nasce, articoliamo quel pensiero", per non parlare della fondazione della democrazia che oggi ci governa. L'articolo termina con una battuta che contiene una grande verità: tra i maggiori indebitati con la Grecia, c'è l'intera "filosofia tedesca".
Anche a Rimini abbiamo forti legami e consistenti obblighi con la cultura ellenica. Nel Tempio Malatestiano ci sono le due epigrafi scritte nella lingua greca, considerate da Augusto Campana come le prime testimonianze del Rinascimento sia italiano sia europeo. Nella cappella dei Pianeti del Tempio, c'è l'immagine del "rematore", letta di solito come raffigurazione dell'anima di Sigismondo, scesa agli Inferi e risalita in Cielo.
Essa ci sembra però riassumere la storia dell'Ulisse dantesco ("Inferno", c. 26, vv. 90-142) che ai compagni d'avventura con la sua "orazion picciola" ("fatti non foste a viver come bruti"), lancia un "manifesto pre-umanistico", come lo definisce un noto studioso dell'Alighieri, Franco Ferrucci.
Ulisse insegna che la nostra dignità sta nel "seguir virtute e canoscenza", anche se ciò può costarci un naufragio in cui però si salva l'uomo. L'uomo di ogni tempo, e non soltanto quello dell'età e delle pagine di Dante. La smorfia del volto del "rematore", richiama l'Ulisse dantesco. I due isolotti rimandano alle colonne d'Ercole. I venti ricordano il "turbo" che affonda la "compagna picciola" (vv. 101-102).
Alla corte di Rimini nel 1441 prima dell'edificazione del Tempio, era giunto Ciriaco de Pizzecolli d'Ancona (1390-1455). Ciriaco ha frequentato i circoli umanistici di Firenze, ed è un "lettore di Dante" che per la sua ansia di sapere ama presentarsi nei panni d'Ulisse, come leggiamo in Eugenio Garin. A Ciriaco potrebbe attribuirsi il suggerimento del tema di Ulisse da inserire nel Tempio, quale parte del discorso umanistico già accennato qui (nella rubrica n. 1066) per la cappella delle Arti liberali. [Anno XXXI, n. 1071]

Fuori Tama 1071
Nel Tama 1071 abbiamo ricordato due cose, a proposito del Tempio Malatestiano di Rimini: le due epigrafi scritte nella lingua greca, e la presenza a Rimini, prima dell'edificazione del Tempio stesso, di Ciriaco de Pizzecolli d'Ancona (1390-1455). Secondo Anthony Grafton, è Ciriaco a comporre le epigrafi riminesi, ispirandosi a quelle napoletane da lui trascritte ("Leon Battista Alberti. Un genio universale", 2003, p. 315).
A proposito della figura dantesca di Ulisse, è utile rileggere quanto osservato da Ezio Raimondi ("Le metamorfosi della parola. Da Dante a Montale", 2004, pp. 190-191): "... l'avventura di Ulisse è anche l'avventura vitale di Dante scrittore in esilio". Petrarca sente che la figura di Ulisse "non è Dante ma può servire a dare anche la grande dimensione di Dante".
Raimondi si riferisce alla lettera XV, libro XXI delle "Familiares", diretta a Boccaccio. In cui leggiamo questo passo: "In quo illum satis mirari et laudare vix valeam, quem non civium iniuria, non exilium, non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas ab arrepto semel calle distraheret, cum multi quam magni tam delicati ingenii sint, ut ab intentione animi leve illos murmur avertat; quod his familiarius evenit, qui numeris stilum stringunt, quibus preter sententias preter verba iuncture etiam intentis, et quiete ante alios et silentio opus est". ("E in questo non saprei abbastanza ammirarlo e lodarlo; poiché non l’ingiuria dei concittadini, non l’esilio, non la povertà, non gli attacchi degli avversari, non l’amore della moglie e dei figliuoli lo distrassero dal cammino intrapreso; mentre vi sono tanti ingegni grandi, sì ma così sensibili, che un lieve sussurro li distoglie dalla loro intenzione; ciò che avviene più spesso a quelli che scrivono in poesia e che, dovendo badare, oltre che al concetto e alle parole, anche al ritmo, hanno bisogno più di tutti di quiete e di silenzio.")
Il punto di Petrarca "non civium iniuria, non exilium, non paupertas, non simultatum aculei, non amor coniugis, non natorum pietas", rimanda al c. XXVI, vv. 94-97 dell'"Inferno" dantesco: "Né dolcezza di figlio, né 'l debito amore lo qual dovea Penelope far lieta....".
Ecco quindi il citato giudizio di Raimondi: Petrarca sente che la figura di Ulisse "non è Dante ma può servire a dare anche la grande dimensione di Dante".
Raimondi prosegue: "L'Ulisse di Dante è una controfigura negativa di Dante stesso. Presenta, sul piano dell'azione di colui che esplora l'ignoto, qualcosa che per Dante rappresenta la sua stessa operazione poetica, e che Petrarca individua subito".

[Per il testo di Petrarca, l'edizione di riferimento è: Francesco Petrarca, Opere, Canzoniere - Trionfi - Familiarium rerum Libri - con testo a fronte, Sansoni editore, Firenze 1975, secondo l'edizione curata da Vittorio Rossi e Umberto Bosco, per l'edizione nazionale nazionale delle opere di Francesco Petrarca, Firenze, Sansoni, 1933-1942 con la traduzione inedita di Enrico Bianchi. Citazione ripresa da:
http://www.classicitaliani.it/petrarca/prosa/epistole/boccaccio_dante.htm.]

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA


il Ponte, 04.03.2012
Nel Tempio Malatestiano, una cultura senza segreti.
L'Umanesimo riminese dimenticato

Nel 1628 l'irlandese padre Lucas Wadding (1588-1657), professore di Teologia e censore dell'Inquisizione romana, scrive che Sigismondo dedica il Tempio di Rimini alla memoria di san Francesco, ma con immagini di miti pagani e simboli profani.
Gli risponde dalla stessa Rimini nel 1718 Giuseppe Malatesta Garuffi con la "Lettera apologetica [...] in difesa del Tempio famosissimo di san Francesco", sostenendo che il testo di Wadding contiene alcuni periodi pieni di calunnia contro il sacro edificio.
Garuffi esamina dottamente le singole cappelle del Tempio: ha fatto studi teologici (è sacerdote) ed è stato direttore della Biblioteca Gambalunga di Rimini (1678-1694).
A Garuffi risponde immediatamente un anonimo riminese, con una pedante requisitoria in difesa di padre Wadding. La replica di Garuffi arriva nel 1727. Il ritardo di tanti anni significa soltanto indifferenza verso argomenti ritenuti giustamente deboli.
Il discorso dei miti pagani e dei simboli profani, è una costante del dibattito culturale sul Tempio riminese, da cui sono derivate pure le tentazioni di farne un luogo pieno di misteriose velleità esoteriche. Contro di esse mette in guardia Franco Bacchelli in un saggio prezioso (2002).
Bacchelli osserva che "vi sono certo buone ragioni per diffidare" delle interpretazioni massoniche suggerite da una citazione del "De re militari" di Roberto Valturio. In essa si accenna alla suggestione esercitata sopra Sigismondo dalle "parti più riposte e recondite della filosofia". Bacchelli ricorda un passo di Carlo Dionisotti: quando si trattava di fede cristiana, "Valturio era intransigente: non poteva fare a meno di registrare la pratica della divinazione, ma la deplorava e la interdiva nel presente come arte diabolica".
Per la cappella dei Pianeti nel Tempio riminese, Bacchelli conclude che i bassorilievi dimostrano la convinzione del committente "che è nei cieli che bisogna ricercare la causa, se non di tutti, almeno dei più rilevanti accadimenti terrestri".
Questo principio è "pacificamente accettato" nelle corti poste tra Venezia, Ferrara e Rimini, prima che sul finire del XV secolo Giovanni Pico della Mirandola proceda "ad una radicale negazione dell'esistenza degli influssi astrali".
Bacchelli illustra le contraddizioni del Tempio Malatestiano che rispecchiano quelle delle menti di Sigismondo e del suo ambiente, in cui convivono elementi cristiani ed echi pagani.
Il testo di Bacchelli è fondamentale per comprendere il senso dell'Umanesimo riminese: un grande progetto culturale che si realizza sia nel Tempio sia nella (scomparsa) Biblioteca dei Malatesti in San Francesco.
Il dato locale di Rimini va però inserito nel contesto "padano" descritto da Gian Mario Anselmi con un avviso: è necessario ridisegnare una nuova geografia, non per semplificare le cose, ma per comprendere e valorizzare "una complessità irriducibile a tradizionali formule di comodo".
La Biblioteca dei Malatesti in San Francesco, a fianco del Tempio, è la prima pubblica in Italia, e modello di quella gloriosa di Cesena. Ideata da Carlo Malatesti (1368-1429), progettata nel 1430 da Galeotto Roberto «ad comunem usum pauperum et aliorum studentium», nasce nel 1432.
Accoglie moltissimi volumi donati da Sigismondo e procurati dai suoi uomini di corte, fra cui c'è Roberto Valturio.
Sono testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi, tracce del progetto umanistico di Sigismondo per diffondere una conoscenza di tutte le voci classiche.
Nel 1475 Valturio lascia la propria biblioteca a quella di San Francesco, ad uso degli studenti e dei cittadini con la clausola che i frati facciano edificare un locale nel sovrastante solario, dato che quello al piano terra era "pregiudicevole a materiali sì fatti", come scrive Angelo Battaglini (1792).
Il trasporto al piano superiore avviene nel 1490. Lo testimonia una lapide trascritta non correttamente: nel testo latino non c'è il verbo "sum" (io sono) ma l'aggettivo "summa", legato alla parola "cura". L'abbaglio sintetizza il disinteresse culturale verso il tema dell'Umanesimo riminese.

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA

Umanesimo riminese. Indice
Indice Biblioteca Malatestiana di Rimini
Mappa Biblioteca Malatestiana di Rimini
Indice Malatesti
Mappa Malatesti



Diario italiano, indice.


Anno XIV, n. 195, Marzo 2012
1622. Date created: 25.02.2012. - Last Update: 20.03.2012, 17:00/
All'indice delle notizie- Mail- Info: 0541.740173
"Riministoria" e' un sito amatoriale, non un prodotto editoriale. Tutto il materiale in esso contenuto, compreso "il Rimino", e' da intendersi quale "copia pro manuscripto". Quindi esso non rientra nella legge 7.3.2001, n. 62, "Nuove norme sull'editoria e sui prodotti editoriali e modifiche alla legge 5.8.1981, n. 416", pubblicata nella Gazzetta Ufficialen. 67 del 21.3.2001.
Riministoria-il Rimino-antonio montanari nozzoli