Diario italiano
Il Rimino 218, anno XVI
Febbraio 2014

Una storia degli Ebrei che dimentica Rimini.
Una nuova collana della casa editrice bolognese il Mulino presenta, sotto il titolo di «Ritrovare l'Italia» un volume di Anna Foa, «Andare per ghetti e giudecche», in cui le pagine fondamentali riminesi sull'argomento sono completamente dimenticate.
Il tema ebraico non ha avuto successo neppure in sede locale. Il capitolo relativo contenuto nel secondo volume della storia della Chiesa riminese, trascura le fonti aggiornate, con quell'arroganza di chi guarda soltanto il proprio ombelico, considerandolo fonte di ogni sapere. Ma questa è una patologia abbastanza diffusa che meriterebbe un'analisi tutta a sé stante.
La presenza ebraica è documentabile per Rimini sin dal 1015 con il teloneo «judeorum», ovvero l'appalto dei dazi d'entrata nel porto. La questione è esaminabile soltanto in senso indiziario, partendo dai secoli successivi.
A metà del 1400 Rimini è il principale centro finanziario ebraico della Romagna, dalla quale transitano gruppi provenienti dalla Marca e dall'Umbria e diretti nella pianura padana per evitare gli effetti della predicazione degli Zoccolanti contro gli Ebrei e le loro attività finanziarie caratterizzate da tassi che a Ravenna sono documentati anche al 30 ed al 40 per cento. Di solito gli Ebrei praticavano «tassi notevolmente inferiori agli usurai cristiani». E per questo dovettero subire nel 1429 e nel 1503 un assalto ai loro banchi (A. FALCIONI, La Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesti, 1. L'economia, Rimini 1998, p. 158).
Di tutto ciò, come già anticipato sopra, non si trova traccia nel secondo vol. della «Storia della Chiesa riminese» che arriva sino «ai primi anni del Cinquecento», nella parte dedicata all'argomento. A p. 322 si legge infatti: «… da parte della Chiesa locale non si rilevano atteggiamenti di intolleranza od ostilità verso gli ebrei» (cfr. O. DELUCCA, La comunità ebraica, il credito, i Monti di Pietà, pp. 317-340).
Guardiamo ai fatti. Nel 1515 (il 13 aprile) a Rimini si discute la proposta di bandire gli Ebrei dalla città quali nemici della Religione e promotori di scandali nel popolo. Ed il Consiglio generale approva all'unanimità l'adozione di tre provvedimenti: chiedere licenza al papa di bandire gli Israeliti; far loro pagare le spese per i soldati a piedi ed a cavallo «qui condotti, e trattenuti per guardia de gli Ebrei» medesimi; ed infine stabilire «che nell'avvenire volendo detti Ebrei continuare l'habitatione in questa Città, portassero il capello, o la beretta gialla». Per le donne, il successivo 28 aprile, è introdotta la regola di recare una benda gialla in fronte, facendo loro nel contempo divieto di porre sul capo i mantelli. Restano disattesi questi ordini del segno distintivo se nel 1519, dietro istanza di frate Orso dei Minori di San Francesco, sono ripetuti in obbedienza anche ai «decreti del Sacro Concilio».
Gli Ebrei richiedono di non essere costretti alla berretta od alla benda gialle, ma di recare semplicemente un segnale sul mantello. La città ricorre al papa «da cui fu commandato, o che quelli partissero da Rimini, overo obbedissero alla Città».
Il 22 luglio 1548 il Consiglio generale della città obbliga gli Ebrei riminesi a non abitare fuori delle tre contrade dove già si trovavano. Si anticipa così il provvedimento di papa Paolo IV che con la «bolla» intitolata «Cum nimis absurdum» del 17 luglio 1555 istituisce il ghetto in tutto lo Stato della Chiesa, seguendo il modello realizzato nel 1516 dalla Serenissima Repubblica di Venezia. Cfr. MONTANARI, La presenza degli Ebrei a Rimini dal 1015 al 1799, su cui v. la nota bibliografica in calce.
L'importanza del ruolo degli Ebrei riminesi è attestata dal fatto che essi realizzano in città tre sinagoghe, e non due come si sostiene dal cit. DELUCCA, La comunità ebraica, il credito, i Monti di Pietà, p. 329. La prima sinagoga è attestata sin dal 1486, sulla piazza della fontana (ora Cavour) dal lato della pescheria settecentesca, nella contrada di San Silvestro. Essa è poi definita come «vechia», quando è realizzata la seconda che in rogito del 1507 è chiamata «magna», nella contrada di Santa Colomba o San Gregorio da Rimini (via Sigismondo), nella porzione di quartiere tra l'odierna via Cairoli ed il Teatro Galli, lato monte.
Nel 1555 la sinagoga «magna» risulta invece situata in contrada di San Giovanni Evangelista detta «delli Hebrei» (via Cairoli), a poca distanza dalla chiesa di San Giovanni Evangelista (Sant'Agostino), e proprio dalla sua parte, come si ricava dal documento datato 14 novembre riguardante la decisione presa dagli Ebrei riuniti nella Sinagoga «magna» di vendere la casa detta «la Sinagoga vechia».
Della sinagoga «vechia» in questo documento del 1555 si scrive che è posta vicino («iuxta») alla strada detta «Rivolo della Fontana» o «del Corso», cioè nell'angolo della piazza Cavour con la contrada di Santa Colomba (via Sigismondo). Il «Rivolo» andava dalla piazza del Castello sino alla piazza Cavour, cambiando poi qui il nome in contrada di San Silvestro.
La sinagoga «vechia» era quindi situata nella parrocchia di San Silvestro, delimitabile con il corso d'Augusto, via Cairoli e via Sigismondo e piazza Cavour. La nuova sinagoga è trasferita prima nella zona della parrocchia di Santa Colomba che è speculare verso monte rispetto alla parrocchia di San Silvestro; e poi nella parrocchia di Sant'Agostino sul lato dove sorge la chiesa.
Nel 1569, dopo che il 26 febbraio papa Pio V ha dato il bando agli Ebrei da tutte le sue terre ad eccezione di Ancona e Roma, gli israeliti di Rimini decidono di vendere l'ultima sinagoga, quella posta nella parrocchia di Sant'Agostino. Il 16 maggio il bolognese Prospero Caravita (abitante in Rimini) ed il ravennate Emanuellino di Salomone, come rappresentanti della comunità israelitica locale, stipulano l'atto relativo, consapevoli che per l'editto pontificio tutti gli Ebrei che si trovavano nella nostra città l'avrebbero dovuta abbandonare entro breve tempo. Quest'ultima sinagoga è composta di tre stanze («una domum consistentem ex tribus stantiis»): la più grande è quella dove si riunivano a pregare gli uomini, un'altra più piccola dove si adunavano a pregare le donne, ed un'altra infine posta sopra quest'ultima e sempre ad uso delle donne.

Nota bibliografica.
A. MONTANARI, La presenza degli Ebrei a Rimini dal 1015 al 1799, 2011, <http://www.scribd.com/doc/46468695/Ebrei-a-Rimini-1015-1799>.
Il testo sviluppa quattro articoli pubblicati sul settimanale «il Ponte» di Rimini nel 2005: 1. Rimini anticipa il ghetto ebraico (n. 42), 2. Ebrei, dal dazio del porto ai prestiti (n. 43), 3. Ebrei, le sinagoghe e il cimitero (n. 44); e nel 2006: 4. Ebrei di Pesaro a Rimini a fine 1700 (n. 22). Per questi ed altri materiali poi usciti a stampa, tra cui «L' Heretico non entri in fiera». Società, economia e questione ebraica a Rimini nel secoli XVII e XVIII. Documenti inediti, «Studi Romagnoli» LVIII (2007), Cesena 2008, pp. 257-277, si veda in
http://www.webalice.it/antoniomontanari1/indici/storia.ebrei.rimini.1192.html.
«Romagnoli & Romagnolacci».
A Vittorio Emiliani, «Romagnoli & Romagnolacci», come recita il titolo del suo ultimo libro (Minerva ed., Bologna), debbono essere grati per questa sua enciclopedia del ventesimo secolo. Nella quale Rimini ha un ruolo non secondario. A partire proprio dall'introduzione, dove Emiliani ci ricorda (p. 5) un aspetto spesso dimenticato o cancellato per convenienza diciamo così politica, il rispetto del passato.
Emiliani rimanda al piano regolatore di Rimini al quale, alla fine degli anni '60, «ci si aggrappava per scongiurare la speculazione (un nuovo supermarket) che la Curia intendeva autorizzare nel palazzo dell'antico Seminario, a lato nientemeno del magico Tempio Malatestiano di Leon Battista Alberti».
Come, nella stessa zona, quel passato sia stato poi violentato dai politici, lo dimostra ciò che ancor oggi si può vedere ponendosi accanto alla fiancata a mare del Mercato coperto, e guardando verso Est (il Nord è al porto...): ovvero l'inserimento volgare e becero del cemento moderno all'interno dei muri trecenteschi del convento francescano. Dove ebbe sede la prima biblioteca pubblica d'Italia (1430).
E poi andate a controllare qualche vecchio volume che riproduca la facciata della chiesa di san Francesco, alla sinistra di quella del Tempio, oggi orribile prospetto di vetro e cemento. Esisteva ancora negli anni Cinquanta, quando al Tempio si teneva la Sagra musicale malatestiana, la cui prima edizione è del 1950, anno della riconsacrazione della chiesa dopo i restauri postbellici.
Un'altra tirata d'orecchi, Emiliani la riserva a Rimini a p. 111 dove la definisce «strana città che la monocultura turistica esasperata ha letteralmente stravolto».
E pure qui il rinvio è ad una questione edilizia, il rifacimento del teatro in piazza Cavour con un progetto poi ritirato dopo esser stato definito «culone». A questo progetto Emiliani collega «l'ottusità dimostrata da tutta una serie di amministratori riminesi» (p. 112). Non gli si può dare torto.

Antonio Montanari
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A San Francesco, la biblioteca universitaria
Ritorno all'antico: nel 1400 vi fu quella dei Malatesti
la prima biblioteca pubblica d'Italia.

"Il Ponte", Rimini, 9 aprile 2006.
L'antico convento di San Francesco a Rimini, a fianco del Tempio malatestiano, diventerà la Biblioteca Universitaria di Rimini (BUR, immaginiamo...). È un ritorno alle origini. In quei locali confluirono non soltanto i libri dei frati. Il progetto di costituire una biblioteca aperta la pubblico e utile soprattutto agli studenti poveri, è testimoniato nel 1430 per iniziativa di Galeotto Roberto Malatesti che segue una intenzione dello zio Carlo (morto l'anno prima). Sigismondo, lo «splendido» Sigismondo (così lo chiama Maria Bellonci), arricchisce la biblioteca con «moltissimi volumi di libri sacri e profani, e di tutte le migliori discipline». Così testimonia Roberto Valturio (che alla stessa biblioteca lascia i suoi volumi). Sono testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi che restano quali tracce del progetto di Sigismondo per diffondere una conoscenza aperta all’ascolto di tutte le voci, da Aristotele a Cicerone, da Aulo Gellio al Lucrezio del «De rerum natura», da Seneca a sant’Agostino, sino a Diogene Laerzio ed alle sue «Vitae» degli antichi filosofi.
Una biblioteca di famiglia dei Malatesti nel XIV secolo è attestata da una lettera di Francesco Petrarca a Pandolfo («Seniles», XIII, 10). Anche il giureconsulto Rainero Meliorati lascia (1499) i propri testi ai frati di Rimini, mentre vanno (1474) a quelli di Cesena le opere possedute dal medico riminese Giovanni Di Marco (come ringraziamento per un vitalizio ricevuto dal signore di quella città, da lui curato).
Una iscrizione del 1490 (e non 1420 come precisa Antonio Bianchi, 1784-1840, da cui attingiamo queste notizie), ricorda il trasferimento della biblioteca francescana al piano superiore del convento da quello a terra «pregiudizievole a materiali sì fatti» (Angelo Battaglini, 1794).
Nel secolo XVII, aggiunge Bianchi, «della preziosa libreria, che i Malatesti, per conservarla ad utile pubblico, avevano dato in custodia ai frati di San Francesco», restano soltanto 400 volumi per la maggior parte manoscritti. Questo «rimasuglio» va perduto secondo monsignor Giacomo Villani (1605-1690), perché quelle carte preziose finiscono in mano ai salumai («deinde in manus salsamentariorum mea aetate pervenisse satis constat»). Federico Sartoni (1730-86), come riferisce Luigi Tonini, sostiene invece che i frati vendettero la libreria alla famiglia romana dei Cesi, alla quale appartengono i fratelli Angelo (vescovo di Rimini dal 1627 al 1646) e Federico, fondatore dell'Accademia dei Lincei nel 1603.
Nel convento di San Francesco nel 1923 fu trasferita dalla biblioteca Gambalunga la galleria archeologica (che s'affiancava a materiale già collocato nel 1908, scrive P. G. Pasini). Nel 1924 toccò alla pinacoteca. Nel 1938 fu aperto il nuovo museo archeologico ampliato nel 1938 con quello medievale. L'ingresso era nel chiostro a sinistra del Tempio. A. Magini (1934) in una guida della città spiega che alla pinacoteca si accedeva «per un ampio salone settecentesco preceduto da un elegante atrio ad arcate».
Infine, va detto che se la biblioteca Gambalunga (1619) è la terza in Italia ad essere pubblica dopo l’Ambrosiana di Milano (1609) e l’Angelica di Roma (1614), a quella di Francescani e Malatesti del XV secolo spetterebbe il merito di essere stata la prima in assoluto.

Antonio Montanari
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