Diario italiano
Il Rimino 219, anno XVI
Marzo 2014


Ezio Raimondi, 1924-2014. In memoriam.


1. Ezio Raimondi, le confessioni di un letterato

Il suo «esame di coscienza» ripropone la lezione di Renato Serra, «europeo di provincia»
Ezio Raimondi è figura, nel mondo della cultura e dell'Università, che ormai appartiene alla storia. Il suo ruolo come docente, scrittore e studioso della letteratura è definitivamente certificato da una serie imponente di opere, da un'attività intensa e continua. Chi lo conosce, nell'incontrarlo idealmente in queste «Conversazioni» che Davide Rondoni ha appena pubblicato con Guaraldi, non può non provare un sentimento fatto di molteplici sfumature: all'ammirazione ed alla simpatia verso l'intellettuale raffinato e sempre attento alle ragioni di chi gli si avvicina, si unisce la commozione davanti ad un racconto che svela particolari nascosti, intimi, di una biografia per tanti versi esemplare.
«Io vengo da una famiglia popolare»: è l'inizio di queste pagine, che dovremmo prendere con l'attenzione alla quale lui ci ha abituato sia nelle lezioni accademiche sia nelle analisi testuali, per cercare di capire ciò che della sua esperienza umana è diventato non soltanto, qui ed ora, un semplice motivo di ricordanza, un gesto abituale della memoria od un riflesso condizionato dell'intelletto, quanto soprattutto ed essenzialmente un atteggiamento morale, un canone esistenziale, una regola filosofica che Raimondi stesso spiega poi nel corso di questa 'conversazione' con Rondoni. La sintesi ideale di questo suo atteggiamento è proprio nelle righe conclusive, ed il fatto non è assolutamente casuale in uno scrittore come lui, che delle strutture letterarie discute da sempre con originalità di risultati: «Mentre sembro tenere le distanze, però, so di essere attento, e chi è attento si avvicina. […] Si potrebbe dire che io cerco di comunicare un calore che si avverte nel tempo, anche se non si percepisce subito».
Comunicare. Ricorda Ezio Raimondi, in altro passo: «All'Università non mi è mai riuscito di fare una lezione seduto sulla cattedra: l'ho sempre fatta in piedi e se fossi stato in un'aula di scuola mi sarei mosso tra i banchi. Non mi riusciva di concepire un rapporto a sbarramento, in una sorta di gerarchia prestabilita, e meno che meno desideravo collocarmi in alto. Ho sempre preferito stare più in basso di coloro che ascoltano». Ritorno con la mente all'anno accademico 1960-61 quand'ero matricola al Magistero bolognese: Raimondi aveva allora poco più di 36 anni, essendo nato nel 1924. Lo accompagnava già la fama di fanciullo-prodigio (a livello europeo) della nostra storia della letteratura più seria. Il pienone delle sue lezioni sembrava ripetere quello che si trova descritto a proposito del professor Giosue Carducci. Ogni volta Raimondi recava con sé una pila di volumi che appariva altissima, una volta deposta alla sua sinistra sul primo banco dell'antica aula di via Zamboni; e che sembrava ridursi nelle sue dimensioni quando il professore la abbracciava al suo fianco, all'ingresso ed al termine del suo discorrere.
La sua figura allampanata, il profilo acuto come quello di un asceta che prendeva luce dalla parole e calore dagli argomenti, avevano un effetto ipnotico sull'uditorio: il gesticolare del braccio destro, con quello sinistro rigorosamente indirizzato a placarsi nel cercare il libro necessario per la citazione utile all'argomento trattato, tracciava le coordinate di un pensiero che fluiva limpido, prendeva corpo in articolazioni sintattiche sempre più geometriche, con una chiarezza espositiva che era frutto di una consapevole dignità del maestro il quale sapeva bene essere quello il momento in cui tutto si gioca non nella sfida sapienzale, ma nella moralità della vita dell'intelletto.
Non c'è pagina di Raimondi, in queste «Conversazioni», in cui non ritorni il tema della funzione etica della vita intellettuale, a rispecchiare un'esistenza spesa all'insegna del rispetto delle regole del gioco e dell'«assunzione di responsabilità», ben consapevole però che gli eventi esterni ci possono obbligare «ad aperture e a lacerazioni, a una sensibilità, per così dire, più virile insieme e commossa». Sono quei fatti che la sua generazione ha conosciuto sotto la specie delle «atrocità» e della «catastrofe», quando «la parola può anche sentirsi umiliata e mortificata, quando riconosce che può tradire se stessa».
Come letterato, Ezio Raimondi ha nelle sue origini una particolarità che lo contraddistingue, e che identifichiamo in quegli «interessi filosofici» che lui avvertiva mancare ai suoi compagni dell'Università. Oggi, in tempo di pensiero debole e di totale oscuramento della dimensione filosofica sotto quasi tutte le latitudini, potrebbe apparire eccezionalmente solitaria questa sua caratteristica, ma così non è, se si ricorda il bisogno di indagine speculativa presente in quei giovani usciti allora dalla guerra, ai quali «cominciava ad aprirsi l'universo della vita culturale contemporanea»: «Era il senso di una pluralità che andava costruito, in cui bisognava riconoscere le distinzioni e ammettere le specificità, senza interpretazioni preordinate».
Quegli «interessi filosofici» lo hanno sempre accompagnato nella sua ricerca critica ed anche nella pura dimensione esistenziale, come ci documentano le pagine che abbiamo sotto gli occhi, dove le idee si fanno realtà, dove l'esperienza singola assume un valore paradigmatico per conoscere tempo e modi in cui essa si è andata sviluppando nella compagnia degli uomini e nei silenzi delle biblioteche.
E tra i personaggi che dalle biblioteche derivano il loro essere, che tra i libri hanno avuto il loro mito e forse anche la loro dannazione, non può mancare un particolare accenno ad uno scrittore al quale Raimondi ha dedicato un'analisi del tutto originale e continua, Renato Serra. Nel '38 Raimondi conosce un giovane tedesco nemmeno trentenne che «nell'atto di riflettere sulla guerra imminente e sull'incipiente tragedia tedesca, ritrovava nell'Esame di coscienza di Serra l'unico atteggiamento autentico che si deve prendere nei confronti della guerra» («Serra diceva che la guerra non cambia niente»): «In quel momento avevo come il segno concreto che l'Esame di Serra non apparteneva più soltanto alle polemiche nostre, tra razionalismo e irrazionalismo, con il dannunzianesimo e altro. Avevo la risposta di qualcuno che, nel momento in cui doveva prendere posizione dinanzi a un evento drammatico, sentiva che il nostro Serra, vent'anni prima, in una guerra in cui i tedeschi erano i nemici, aveva indicato una logica etica e intellettuale, di fronte all'epifania brutale della storia». Quel Serra così strenuamente legato a Cesena, rinviava «a una misura, a un respiro europei». Dalla 'lettura' di Serra, Raimondi ha tratto due libri che disegnano un poco anche il profilo della sua ricerca: «Il lettore di provincia» (1964) ed «Un europeo di provincia» (1993), indicandoci nella «logica etica e intellettuale» del rifiuto della guerra, una lezione che da Serra arriva utilmente sino a noi.


2. Ezio Raimondi e la Romagna di Renato Serra

Grazie ad un'incursione della politica (a Bologna in Santa Lucia c'era Romano Prodi), il profilo austero di Ezio Raimondi, storico della letteratura e critico di fama mondiale, ha avuto tre secondi circa di passaggio televisivo al «TG1» delle ore 20 di sabato 11 novembre. Raimondi teneva la «Lettura de il Mulino» parlando di «Un'etica del lettore». Tra la politica e la letteratura, secondo Raimondi, non c'è separazione ma distinzione dei ruoli. Proprio nell'associazione de «il Mulino» (per la cui nascita egli dette un contributo fondamentale nell'àmbito della casa editrice e della rivista omonime) Raimondi ha trovato modo, come ha dichiarato lui stesso, di «fare la propria parte restando però, per mestiere un insegnante».
La parola «lettore» gli è particolarmente cara. Essa rimanda ad uno dei suoi primi lavori, rimasto fondamentale nella storia della critica italiana, un saggio dedicato a Renato Serra, «Il lettore di provincia» (1964). L'opera segna una riscoperta del bibliotecario della Malatestiana, del suo ruolo nella cultura italiana, della sua innovativa posizione così documentata dallo stesso Serra in un appunto: «… ci vuole nella critica letteraria, con l'immaginazione ridente e nuova d'un fanciullo la memoria curiosa di una vecchia pettegola».
Ad apertura di volume Raimondi segnala un canone serriano: ogni scrittore si rivela sempre in pubblico attraverso una maschera. Quella scelta da Serra è da umanista e «lettore dilettante». Un lettore che, chiuso nella sua Cesena, sa conoscere e sperimentare il mondo, come Raimondi dimostra in «Un europeo di provincia» (1993), la cui partizione logica inizia dal vecchio discorso sul «lettore di provincia» ed approda alla rivoluzionaria, indimenticabile formula di «una provincia europea»: «Dal fondo della sua terra, nell'ombra domestica di una biblioteca che era a un tempo una patria e un esilio, il 'lettore di provincia' parlava così una lingua europea».
Il volume del 1993 si chiude con un saggio sull'«Esame di coscienza di un letterato» su cui Raimondi scrive: in quel testo «la parola della letteratura viene a coincidere con il momento supremo del vivere e del morire, nel tempo e insieme fuori del tempo». Da Serra, Raimondi ha 'ereditato' la forte consapevolezza che letteratura e vita non sono realtà inscindibili bensì correlate al punto che lo stesso «lettore» (come ha spiegato sabato) ogni volta che prende in mano un libro è come se avesse davanti a sé «tutto il tempo che è trascorso dal giorno in cui è stato scritto fino a noi».
Se ogni libro non è soltanto «quello» che ha scritto l'autore ma pure quanto in esso vi scopre ogni nuovo «lettore», l'opera letteraria dimostra (come Raimondi ha detto sabato) la «compresenza di verità differenti nella pluralità delle coscienze». Ed anche «coscienza» è ovviamente un'eredità serriana nel pensiero di Raimondi. Al quale come uno degli studenti di un tempo, provenienti dalla Romagna di Serra (che allora studiai per la mia tesi), rivolgo un pensiero grato per il suo insegnamento alla facoltà di Magistero nei primi anni '60, quando con lui c'erano altri grandi Maestri quali Luciano Anceschi, Achille Ardigò, Giovanni Maria Bertin, Renzo Canestrari, Gina Fasoli, Enzo Melandri e Paolo Rossi.


3. Bologna, giugno 1961

L'assistente di Italiano era un pignolo dalla vice stridula, Mario Saccenti (di cognome e di fatto). Apriva l'esame con una domanda di letteratura. A me chiese di parlare del Tasso (era il mio primo esame universitario in assoluto, un gesto da kamikaze a detta degli amici di corso più anziani).
Risposi partendo dall'importanza del Tasso nella storia della letteratura italiana, argomento contenuto nell'ultimo paragrafo del capitolo del volume di Natalino Sapegno. Saccenti m'interruppe obbligandomi a ripartire "dall'inizio", ovvero dalla nascita del Tasso, quindi dal primo paragrafo del testo di Sapegno…
La seconda domanda riguardava la "Commedia". Apriva a caso il libro, puntava l'indice sulla pagina. Eravamo all'Inferno, mi chiese la lista dei dannati che precedevano quel determinato personaggio.
Gettai l'occhio sulle note. Con un sospiro di sollievo, feci il mio bravo elenco. Saccenti con il ghigno perfido che teneva stampato fisso sul volto per terrorizzarci, e con quella vocina stridula, emise la sentenza terrificante: "No. Quelli vengono dopo".
Scrisse la sua brava noticina che consegnò al prof. Ezio Raimondi, il cattedratico della materia, con cui passai a chiudere l'esame, trattando del corso monografico diviso in due parti. La prima riguardava la "Vita" dell'Alfieri. La seconda, un testo allora appena tradotto dal Mulino, il celebre ed indigesto "Wellek e Warren" dal nome degli autori (titolo: "Teoria della letteratura"). Un libro per laureati, non certo adatto a noi ragazzotti di provincia che avevamo fatto le Magistrali con molto affanno.
Comunque Raimondi, dopo che ho risposto alla sua prima domanda, si rivolge a Saccenti, scorrendo la noticina che gli aveva passato con l'esito dell'interrogazione fatta a mio danno…: "Marione", gli grida, "ma questo giovane è preparato". Non potei prendere più di 25/30 per colpa del sadismo di Marione.
[Fonte di questa terza parte.]

4. La rivoluzione della Media unica, 1963.
Era l'anno della «Pacem in terris» di Giovanni XXIII

Fu una vera rivoluzione culturale la nascita della nuova scuola Media unica istituita nel gennaio 1963. L'obbligo scolastico fu portato al quattordicesimo anno d'età, e scomparve il doppio binario dopo le Elementari con la Media che poi conduceva agli istituti superiori di tipo liceale, e l'Avviamento che instradava alle Professionali. Le quali ebbero un ruolo importante di seria preparazione tecnica per tanti giovani, e di procacciamento di un qualificato posto di lavoro. Alla base della riforma della nuova Media c'era il progetto di rendere eguali nei punti di partenza tutti gli studenti che uscivano dal ciclo delle Elementari.

L'anno precedente
il Vaticano II
Prima del 1963 per accedere alla Media occorreva superare un doppio esame: quello di licenza elementare, e quello di ammissione. La nuova legge modificava tradizioni e costumi. Provocò accese reazioni. Era giudicata troppo progressista. Si temeva che i grandi numeri degli allievi potessero inquinare la sete di sapere dei migliori. In realtà si eliminava il primo segno di una selezione sociale che cominciava troppo presto, al termine della quinta elementare, quando secondo i programmi l'allievo doveva essere in grado di leggere, scrivere e far di conto.
La nuova Media nasceva come una specie di utopia politica prima che culturale, in un momento storico del tutto particolare. Nel 1962 il congresso nazionale democristiano di Napoli approva la linea politica del Centro-sinistra. Si inaugura il concilio ecumenico Vaticano II. Fanfani diventa capo del governo, con l'appoggio esterno del Psi. Si nazionalizza l'energia elettrica con l'Enel. Nel 1963 papa Giovanni XXIII poco prima di morire pubblica la «Pacem in terris». A Fanfani dopo il governo monocolore democristiano "balneare" (tanto per far passare l'estate) di Giovanni Leone, subentra Aldo Moro: è il primo quadripartito organico di Centro-sinistra con Dc, Psi, Psdi e Pri.

Nuova legge,
vecchia scuola
I programmi avevano ambizioni forse eccessive. Per chi era da molto tempo nella professione, apparivano pieni di troppe pretese di cambiamento. Il tran-tran era stato bandito, si voleva una cultura di base per tutti con una generosità di propositi a cui non corrispondeva altrettanta abbondanza di mezzi. Polemiche e discussioni accompagnarono la nascita della Media unica. Bisognava registrare nuovamente gli orologi mentali.
Ero svergognatamente avvantaggiato, non soltanto perché al primo anno di lavoro, ma anche perché provenivo dal corso di Pedagogia dove i nostri docenti ci avevano preparato alle originali tematiche culturali ed educative della nuova scuola. Il guaio era che, considerato pivellino perché al debutto, non mi era possibile proporre qualcosa nelle discussioni tra colleghi, dove vigeva il doppio principio di autorità e di anzianità. A gestire con ironici sorrisi di compatimento i cambiamenti voluti dalla legge, furono persone che avevano ricevuto la loro formazione dall'università del periodo fascista. Erano mentalmente impreparate a credere nei diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, ed incapaci di ritenere che la scuola fosse qualcos'altro che costrizione ed obbedienza.

Al Magistero
bolognese
Il mio docente di Pedagogia era stato Giovanni Maria Bertin. Furono anni di grandi maestri al Magistero. C'erano Ezio Raimondi per Letteratura italiana, Gina Fasoli per Storia medievale e moderna. Sarebbe poi arrivato in Storia della Filosofia, al mio terzo anno, Paolo Rossi il quale avrebbe quasi sùbito abbandonato Bologna per Firenze. Estetica era affidata a Luciano Anceschi, Sociologia ad Achille Ardigò (che aveva un assistente terribilmente dongiovanni). Enzo Melandri tenne le lezioni del mio secondo corso (al quarto anno) di Filosofia teoretica, trattando di Logica simbolica, subentrando ad un collega che la carità di patria cancella dal ricordo. Con Rossi presi la tesi, sull'Irrazionalismo italiano nelle riviste culturali del primo Novecento, avendo come contro-relatore Raimondi, il quale nel frattempo mi fece pubblicare un breve saggio nella rivista «il Mulino», dedicato ad un libro di Luigi Barzini junior, «Gli italiani». (Ne «Il Giorno» del 18 gennaio 1966 Alberto Arbasino raccontava della scuola di critica letteraria bolognese al Magistero guidata da Raimondi. Il quale degli allievi diceva: sono «attratti dal metodo 'scientifico' in quanto contrario sia alla pedanteria scolastica sia allo sfarfallamento sentimentale che perde di vista il testo».)
Bastano questi nomi per fotografare il clima intellettuale della nostra 'piccola' Facoltà, i cui allievi erano considerati di grado inferiore rispetto agli altri universitari perché usciti dall'Istituto magistrale che era più breve di un anno dei due Licei (dai quali si riteneva sortisse la crema della cultura nazionale). Noi delle Magistrali di Rimini provenivamo poi da una scuola comunale, in cui non sempre i docenti erano il meglio della piazza, se li confrontavamo con quelli dei due Licei cittadini. La nostra era una preparazione in genere modesta, tutta centrata su di un apprendistato intellettuale svolto con molta superficialità, anche per colpa dell'indisciplina delle classi. Alla quale doveva far fronte il preside Ermenegildo Prosperi, latinista autorevole (e temibile in certe interrogazioni impreviste, quando sostituiva insegnanti assenti).

Due maestri
riminesi
Ho avuto due ottimi docenti di Lettere in terza ed in quarta magistrale: Eraldo Campagna e Gianfranco Micheli. Campagna ha esercitato su di me un benefico influsso, con la sua passione verso la Letteratura che lo portava ad una specie di estasi nel corso delle lezioni, fin troppo particolareggiate e quasi sfarzosamente barocche nelle spiegazioni della «Divina Commedia». L'altra faccia della sua medaglia, era il disinteresse verso la Storia che lo portava a darci cattivi consigli come quelli di saltare nel libro di testo certi argomenti fondamentali. Consapevolmente sacrificava le lezioni di Storia a quelle di Italiano, ritenendo che tutto lo studio dovesse ridursi al mondo delle Lettere. A Campagna debbo la scoperta di Francesco De Sanctis, autore che approfondii durante le vacanze estive, con la lettura quasi integrale della sua «Storia» che mi aprì al programma dell'ultima classe e mi confermò nel mio interesse verso questo tipo di studi (benché non avessi allora nessuna intenzione di proseguirli).
Micheli era un parlatore elegante, sapeva con raffinatezza tessere trame originali fra gli argomenti trattati, aprendo nuove prospettive e suscitando curiosità. Per le sue doti poté proseguire proficuamente il lavoro di Campagna e prepararci con dignità alla prova dell'esame di Stato, dove io svolsi il tema sulle «Poesie scritte col lapis» di Marino Moretti, autore assente nel libro di testo e nel nostro programma.
L'approdo alle lezioni di Bertin fu una specie di trauma. Avevamo studiato soltanto Filosofia e niente Pedagogia con Gianna Di Caro, paziente e preparata ma legata ad un sistema idealistico-storicistico conciliato con il suo marxismo che la portava a leggere la successione dei pensatori come un perfezionamento inevitabile delle idee. Gianna Di Caro era subentrata in terza ad un insegnante laureatosi in età da pensione. Costui appariva estremamente assorto nell'introdurci ai segreti della Filosofia, che forse amava ma che non sapeva farci amare. Anzitutto era poco dialettico, o meglio decisamente schematico, e sempre irridente nei confronti di autori che considerava non all'altezza delle sue interpretazioni. Un mezzo sorriso di ironico disgusto segnava i capoversi del suo discorrere. Sembrava che il riflesso del suo luminoso intelletto dovesse proiettarsi sulle pareti dell'edificio squallido di piazzetta Teatini, sede poi dichiarata pericolante.

La «scoperta
dell'America»
La nostra generazione 'di mezzo' (dopo la guerra e prima della contestazione) non aveva nessuno strumento autonomo per giudicare e comprendere, al di fuori del bagaglio che ci veniva affidato quotidianamente da portare con fatica e scarsa soddisfazione. Arrivare al Magistero bolognese con tutti quei Maestri era davvero la «scoperta dell'America», di un mondo nuovo e diverso di fare Cultura. Il ruolo avuto da Bertin (1912-2002) nella mia maturazione, l'ho compreso durante l'insegnamento, negli studi storici, nel vivere giornaliero. La sua formula della «visione problematica della realtà» precisa un metodo, suggerisce un comportamento, obbliga ad una riflessione continua, forse disperante ed estenuante, ma certamente utile. Essa suggerisce di evitare ogni soggettivismo che può fuorviare e portare ad accettare il pregiudizio. Essa dimostra che non dobbiamo consolidare una visione della vita soltanto egoistica. E che non dobbiamo rifiutare il principio secondo cui ci sono anche gli altri ad agire su quella stessa visione, perché con gli altri siamo sempre dialetticamente rapportati.
La stessa «visione problematica della realtà» conclude poi ad una concezione «razionale» della vita educativa ed intellettuale che è l'opposto di quella dogmatica, e che si manifesta nella «soppressione della contraddizione». Riassumo il pensiero di Bertin con queste sue parole: «Ogni tipo di giudizio è problematico» («Educazione alla ragione», 1973). L'atteggiamento problematico è un abito mentale da accettare in ogni momento della vita intellettuale e pratica. Il nostro dovere è di non sottrarci dall'assumere responsabilità di fronte all'analisi degli atti di pensiero e delle azioni concrete, ricordandoci che essi debbono corrispondere ad un disegno morale.
Fonte: "1963, la rivoluzione della Media unica" [il Ponte, 26.02.2006].
[Indice di Viva la squola. Memorie tra pubblico e privato.] Antonio Montanari

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2013, 19.03.2014. Agg. 20.03.2014
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