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il Rimino - Riministoria

Rimini fine Settecento

Alle pagine 40-41 del volume Rimini napoleonica, curato da Benedetto Benedetti, è inserito un mio «commento» sul clima storico cittadino fra 1796 e 1799.

Nel 1796 un po’ dovunque avvengono i «miracoli delle madonne». Quindi ne accadono anche a Rimini, città che non è mai stata seconda a nessuna in fatto di zelo e di fanatismi ideologici, forse per colpa del mal seme lasciato ab antiquo da Giulio Cesare nel suo veloce passaggio.

Come racconto più distesamente nel saggio sulla rivolta dei «marinai» del 1799, appena pubblicato presso gli Studi Romagnoli, il 19 luglio 1796 comincia l’Addolorata nel Borgo San Giuliano, che piange.

Il 20 muove gli occhi la Madonna conservata nell’oratorio di san Girolamo. Il 27 nella casa di Giuseppe Pari «detto Blablà», si verifica analogo episodio, con la stessa modalità delle lacrime che sgorgano dagli occhi della Vergine. Mentre il 29 il Crocefisso della Confraternita della Santa Croce apre «gli occhi e la bocca».

Nel 1796 c’è pure la caccia agli Ebrei. Il fatto si ripete nel 1799. Quando accorre a salvare la Patria in pericolo il «glorioso» Giuseppe Federici (oggi amato e venerato da certi cattolici reazionari molto potenti). Federici forse ricevette quel soprannome per essere un fanfarone e non un capo-popolo (anche se spesso le due caratteristiche si confondono, il che spiegherebbe tutto, di ieri e di oggi…). Federici è il tipico «pataca» riminese, deriso da Fellini in mille modi (ma nessuno qui in città lo vuol comprendere…). E frutto di qualche altro mal seme non sappiamo da chi lasciato, ma inequivocabilmente presente nel dna cittadino. Federici non salva nulla, interviene quando già gli Austriaci hanno fatto sentire odore di piombo. Non è lui a cacciare i francesi da Rimini.

Nel mio «commento» spiego il registro interpretativo di Zanotti che considera la plebe ribelle se saccheggia, e la approva se dà la caccia agli Ebrei (parlando di «Insorgenti»), con una schizofrenia stilistica che rivela quella ideologia di un perfetto reazionario che era e che nessun dotto contemporaneo consegnatario delle verità ufficiali ha mai analizzato.

Ecco comunque il mio «commento» riprodotto integralmente da una precente pagina de «il Rimino».



Rimini 1796

In un volume di prossima pubblicazione a cura di Benedetto Benedetti sul 1796 a Rimini, appare un mio breve testo, composto di due parti.

La prima è tolta dalla nota 43 del saggio Il furore dei marinai pubblicata presso gli Studi romagnoli; la seconda è del tutto nuova.



Prima parte.

Il tenente Carlo Martiniz della Marina austriaca, giunto a Rimini il 30 maggio 1799 al comando di una «Barca Canoniera (scrive Zanotti) prende alloggio nella casa di Giuseppe Pari, «ove già seguì il portentoso prodigio del girar degli occhi dell’Immagine di Maria SS. detta poi della Misericordia trasportata nella Cattedrale». Questo evento, accaduto il 27 luglio 1796, non è il primo registrato dalle cronache, all’indomani della prima invasione francese della Romagna (che non tocca Rimini): il 19 luglio 1796 nel borgo San Giuliano si scopre un’immagine della Beata Vergine Addolorata «quadretto di Venezia che dagli occhi le scaturiscono le lagrime, e molti attestano averle vedute, trà gli altri due canonici», come narra N. Giangi, op. cit.: alle ore due di notte (corrispondenti alle 22 odierne), l’immagine è trasportata nella chiesa di san Giuliano. Il giorno 20 muove gli occhi la Madonna conservata nell’oratorio di san Girolamo. Il 27 luglio succede il mentovato episodio nell’abitazione, al porto, di Giuseppe Pari, «detto Blablà»: un’altra Beata Vergine dell’Aspettazione «muove, e gira gli occhj in una maniera sorprendente». Il 29, si annuncia che il Crocefisso della Confraternita della Santa Croce «ha aperto gli occhi e la bocca». Lo stesso giorno il vescovo Ferretti trasferisce l’immagine della Vergine dell’Aspettazione presso le monache di sant’Eufemia ed il 31 in duomo con solenne processione, ponendole il nome di Mater Misericordiae. In duomo si organizzano varie processioni, scrive ancora Giangi: il primo agosto tocca alle dame, il giorno dopo alle zitelle (in 160), a piedi scalzi. Secondo quanto si legge in Atlante per il dipartimento del Rubicone, «Romagna arte e storia», n. 6/1982, pp. 26-27, a Forlì, sparsasi la voce del movimento degli occhi della Vergine in un’edicola pubblica, il locale vescovo la fa smontare da un muratore e da un falegname, e la nasconde in curia; a Ravenna succede un episodio analogo, ma si tratta di una falsa voce: lo ricorda il monaco Benedetto Fiandrini, precisando che chi non crede al «preteso miracolo» è chiamato col nome di «Giacobino (che in questi tempi significava incredulo, atteo o cosa simile)».



Seconda parte (inedita e composta appositamente per Benedetto Benedetti).



Pure a proposito dei cosiddetti miracoli del 1796, le cronache del tempo restituiscono notizie estremamente essenziali e soltanto collocate nella successione cronologica degli eventi. Il lettore odierno però, di fronte a quelle notizie, deve sforzarsi di considerarle in rapporto all’epoca ed anche agli sviluppi dei momenti successivi. Quei miracoli non sembrano rispondere ad un bisogno di fede, ma piuttosto alla necessità di una sicurezza sociale che gli eventi militari minacciavano intensamente. Gli stessi episodi subiscono una manipolazione politica per cui essi rispondono, oltre che al bisogno di sicurezza, a quello di identificazione in una fazione che a sua volta si modella sopra ideali religiosi. La «Santa Fede» non è Teologia, ma un movimento armato. Assumere questa visione politica comportava inevitabilmente pure il calarsi entro un rituale che, oscillando tra religiosità e vita pratica, a sua volta imponeva altri atteggiamenti ed altre operazioni. Dunque, dapprima si crede nei miracoli come manifestazioni di un aiuto soprannaturale in quelle misere contingenze. Poi ci si arma di santa pazienza e di qualsiasi profano strumento atto ad offendere, e nel nome della Religione e del Papa (del Papa-Re, beninteso), si compiono azioni e battaglie contro chi è il Nemico sia del Potere sia della Fede.

Nel 1796 alla fine di giugno, durante la raccolta della contribuzione per i francesi, alla quale sono sottoposti pure gli Ebrei, essi sono arrestati «onde sottrarli da quegli insulti che una certa malafede del Popolo, avrebbe potuto accagionargli». Da parte loro gli «Ebrei dimoranti con negozio da lungo tempo in Rimini» (sono cinque ditte, intestate a Moisé di Bono Levi, Samuel ed Elcana Costantini, fratelli Foligno, Samuele Mondolfo, ed Abram e Samuel Levi), temevano che nel «passaggio delle Truppe Francesi» potessero esser «molestati per raggion d'avere per Comando Pontefficio il solito segno nel Capello». Fu loro concesso di toglierlo dopo il versamento alla Comunità riminese di un «dono gratuito» di cinquecento scudi. Questi disordini del 1796 richiamano alla memoria quelli verificatisi in città nel 1615, con la distruzione del ghetto degli Ebrei situato in via Sant’Andrea, in un tratto che andava dall’oratorio di Sant’Onofrio alla cosiddetta «Costa del Corso»: «e in quella occasione si vide l’odio popolare contro quella gente», osserva Carlo Tonini che nel suo Compendio giudica l’episodio «di minor momento» e quindi da trascurare (II, p. 322).

Nel 1799, il 30 maggio, la rivolta dei marinai si avvia anche con il saccheggio di due botteghe gestite da ebrei. Quest’insurrezione altro non è che la conclusione di un itinerario politico che comincia con quei miracoli del 1796, se vogliamo leggere la Storia non come ruvida (ed arida) successione cronologica, ma quale itinerario (per usare le parole di Gabriella Bosco, francesista e docente all’Università di Torino), fatto di «sentieri intrecciati e nascosti, per lo più invisibili a chiunque segua le comodità tranquille della via maestra».

Se con uno dei miracoli narrati ci troviamo a contatto con Giuseppe Pari detto «Blablà» (espressione ancor oggi in uso, e quindi comprensibilissima), nella rivolta dei «pescatori» (che dal 30 maggio 1799 al 13 gennaio 1800 provoca una grave crisi istituzionale della nostra municipalità), primeggia Giuseppe Federici, «chiamato volgarmente ‘il glorioso’» (scrive Zanotti). Forse il soprannome, come le usanze popolari dimostrano, voleva indicare il personaggio ricorrendo alla figura retorica dell’ironia che fa intendere il contrario di quanto si dice, mediante un tono di irrisione. Ci troveremmo così davanti non ad un personaggio eroico (quale è stato sempre inteso proprio grazie a Zanotti), ma ad un fanfarone sul tipo del soldato plautino.

Zanotti riferendo l’assalto, con conseguente saccheggio, al palazzo municipale ed a quello del governo nel primo giorno d’insurrezione, lo attribuisce ai «Rivoltosi». Quando tocca alle botteghe degli Ebrei, egli parla di «Insorgenti». Il registro lessicale di Zanotti cambia. La parola «Rivoltosi» ha una connotazione che ne fa delle figure degne di biasimo: essi sono «malintenzionati» che non meritano nessuna comprensione. Invece per quanti vanno a rubare nelle botteghe dei cittadini di Religione ebraica, Zanotti ricorre al termine di «Insorgenti», che non ha quella stessa connotazione negativa, bensì un significato soltanto positivo nel contesto delle scena.

Gli «Insorgenti», infatti, sono gli stessi che hanno cacciato i francesi sul porto, ed hanno gridato solennemente «viva il Papa, viva la Religione», mentre distruggevano i «vessilli della libertà», capeggiati da Federici. I «Rivoltosi» sono popolani e plebei non guidati da un criterio politico, ma che obbediscono soltanto alla sete di vendetta, abbandonandosi ad ogni danno ed offesa verso le cose pubbliche o le proprietà altrui. Gli «Insorgenti» sono di tutt’altra pasta, per Zanotti: si presentano come gli eroi del cambiamento, protagonisti di una restaurazione che inonda le strade di altri slogan: «morte alla Repubblica, morte ai Giacobini, viva l’Imperatore».

Sembra quasi che gli «Insorgenti» debbano obbedire ad una missione, compiendo un’azione legittima e necessaria, in cui non «vagliano i pianti giudaici a trattenerli». Dopo gli Ebrei, ad essere colpiti sono i presunti giacobini: sia gli uni sia gli altri debbono apparire agli occhi di Zanotti persone da vilipendere e disprezzare, se il nostro cronista non ha neppure un cenno di biasimo verso gli «Insorgenti», quasi che essi possano giustificarsi soltanto gridando «viva la Religione e morte» ai suoi nemici. Tutto appunto, in nome della Religione, era iniziato con il pianto della Vergine Addolorata il 19 luglio 1796 e con il movimento degli occhi delle Madonne di San Girolamo il giorno successivo e della casa di Giuseppe Pari, «detto Blablà», il 27 luglio.

Antonio Montanari


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