Poesie di  Matteo Franco

salute a voi cieli sfatti della giovinezza

come letti disfatti

di nervose febbri

Tra le fronde guardo i vostri squarci

di dolorosa luce inanimata

Sbircio

un'occhiata soltanto mi riempie come un urlo

                nell'aria di sera

chino nella rimessa mescola benzina,

i jeans macchiati, con gesti forti.

controlla il livello con un'asta fina,

nel serbatoio. gli astri sono già sorti.

esce nella sera e le respira,

le stelle. il suo volto indiano,

gli occhi da cane randagio mentre spira,

remoto, il vento. pensa che invano,

vive. ha mani grandi, segnate

dal distributore, e dalla terra

dei padri. scarpe grosse, infangate,

olio ed erba. passa accanto alla serra.

conosce le piante e il fiume.

capelli color pneumatico lunghi,

sulle spalle. sbircia incerto il lume

del suo domani. il motore sputa funghi

di nebbia. e lui sa farlo cantare.

i vestiti odorano di cielo fumoso,

e di carburante, mentre prende a scrollare,

deciso, la polvere dal pastrano gibboso.

dopo la cena cammina nell'oscurità,

tra il frumento. pensa al suolo.

lo sente fermentare, con vitalità.

ed è vita. come il morbido stuolo

                                           dei suoi sogni.

 

 

 

poesia vincitrice del primo premio della 17° edizione -1991-92 - della gerla d'argento

Sorella, gracile stelo della mia notte.

se pensi che non abbia paura

come te, qui, come te,

hai colto il fiore sbagliato nel giardino

del dubbio. e di sciocchezza in sciocchezza,

procedo. irto di spine è quel fiore.

io non attendo, qui, nella brezza:

annuso gli odori di un altro giardino.

                              un sogno

non era tiepida sera ne'  giorno fragoroso:

in un'ora interiore, stavo, attendendo corroso.

apparve di lunga veste ieratica rivestita,

come giovane sposa o vestale d'aura infoltita;

il volto luccicante di oceanico pallore:

a quel volto, abisso di pace e celeste orrore,

crudele deserto a labbra dolci di sangue e veleno,

mi tendo attraverso lungo volo d'incubi pieno:

schermì delle labbra l'infuso d'ineffabile lentezza,

 e mi colse un senso di smisurata, dura amarezza;

allora, vinto, sulla fronte splendente un bacio lasciai,

poi mi ritrassi dall'alito risonante, e mi annientai.

       la luce che risuona

una lucentezza da cartolina

proietta nei miei occhi il paesaggio,

tanto che l'acqua appare vicina,

e mi bagna un crudo divino raggio.

la luce compone una vasta china

di cui i simboli sono retaggio,

colma di vaga ampiezza marina,

e di un vago interiore paraggio.

intonsa, nessun piede la percorre,

e di suoni strani riempie mille forre:

ardua sembra la sua decifrazione.

in realtà non tiene una concione:

la sua carne è canto ultramondano,

ed il suo cuore è in me, lontano.

                la madre

fu tra il sentito e il conosciuto -

come nel piovigginoso pomeriggio

o nell'incongruo

                         franto

respiro del vento -

che vide gli occhi

                         stanchi

della madre,

uniti col filo impalpabile

della determinazione alle

                         mani attente -

e sentì - sospeso

                         nella sensazione intermedia -

l'azzurro della penombra

                         carico di sguardi

languidi o lontani o

                         ancora immersi

come pesci guizzanti

                         In un desiderio di fiori -

si sentì -

in rapporto a quell'aspro

                         tenero cosmo,

materico e celeste

                         della madre -

un grumo urlante

                         appeso sulla consapevolezza

del vivere,

impastato nel sangue

                         di quell'attenzione,

nella comprensione dell'attimo -

                         sussurrante, pieno, magico -

ed ammirando la nuova

                         crepitante

ancestralità della madre

capì che quell'aria bruciante

                         d'alito materno

mai -

          mai ancora sarebbe stata così densa.

      in qualche profano luogo santissimo

dentro la notte profonda, chissà mai in quale profano

luogo, invecchiano senza coscienza bambini uguali;

terre colmate di sassi ristanno opache ai bordi

vasti dei tetri binari, schiacciate dal grigio del cielo;

privo appare il nome dei miei infiniti angusti

mesti confini, del languido ampio sollievo dei viaggi:

forse per questo le rughe di sabbia dei volti estranei

sembrano piene di fondi bagliori, richiami furenti,

neri araldi di altre visioni in qualche profano

luogo santissimo, terra lontana e tempio crudele,

lucido specchio d'estese, veggenti, ritorte coscienti

anime tristi, bramanti nei lunghi mattini liquori

nuovi e nuovi santissimi luoghi profani, dispersi.

 

 

 


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