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Ippolito NIEVO - Le confessioni di un italianoIppolito Nievofesta, perché lo spettacolo d'una gran felicità racconsola gli uomini, colla fiducia di poterla anch'essi un giorno o l'altro raggiungere. La Pisana era tutta per lui; tremava e abbassav a gli occhi a' suoi sguardi, sorrideva al suono della sua voce, lo seguiva in ogni movimento. Come io l'aveva veduta ragazzina per Lucilio, tale la vedeva allora già donzella per Raimondo; lo stesso turbamento, la stessa veemenza non trattenuta né da pudore né da paura, e un incanto di voluttà cresciuto a mille tanti nel pieno splendore della sua bellezza di diciott'anni. Io l'amava allora disperatamente per me, la odiava per lo spietato martirio cui ella condannava il povero Giulio, la disprezzava per la sua perfida idolatria a un giovinastro frivolo e scostumato com'era il Venchieredo. Non so quale smania mi sentissi in cuore di calpestarla di svillaneggiarla: insuperbiva fra me di amarla ancora, e di poter dire tuttavia che l'avrei ceduta ad un altro per salvargli la vita! Ella invece procedeva innanzi cieca come il carnefice. Cieca! Ecco la sua scusa: credo ch'ella non vedesse nulla, non s'accorgesse di nulla. Le sue passioni furono sempre cosí eccessive che le vietarono di discernere alcuna cosa fuori di loro. A veder l'anima straziata di Giulio dibattersi in un corpo smunto e consumato per lottare ancora per difendersi fino alla morte contro il facile e sereno predominio di Raimondo, venivan proprio agli occhi le lagrime. Il fuoco delle pupille, lo splendore dello spirito che un tempo gli trapelava dal volto era scomparso; con ciò ogni sua bellezza s'era spenta, perch'egli non ne aveva altra; fino la maestà del pallore pareva insozzata dalle macchie brune e verdastre di cui la chiazzava il sangue corrotto dalla bile. Pareva un malato di pellagra, e la vergogna del proprio aspetto toglieva ogni coraggio a' suoi sguardi, ogni sicurezza alle sue parole. Il brio, già attutito al soverchiar dell'amore, sforzava indarno il coperchio sepolcrale della disperazione. Brillava a tratti come un fuoco fatuo di cimitero; e lo sforzo di volontà, che lo accendeva momentaneamente, ricadeva poco stante in un peggiore abbattimento. Aveva piaciuto per esso; per esso era stato amato; senz'esso doveva perire; egli lo sapeva, e infuriava fra sé di non poterne avvivare almeno un funebre lampo colle ceneri dell'anima sua. Morire sfolgorando era ormai la sua unica speranza d'amore e di vendetta; ma piú si ostinava, e meno gli ubbidiva l'ingegno affiocato dalla malattia e dalla passione. Io rimasi costernato dagli ultimi sforzi di un'anima moribonda che fra le rovine d'un corpo già fatto per lei simile a un sepolcro, anelava invidiosamente a quella parte di bene ch'era stata sua e che le veniva rapita da una forza giovane, arrogante e spensierata. Mi pareva di veder Lazzaro agonizzante di fame, che chiede agli epuloni le briciole della mensa e non ottiene che scherno e ripulse. Ma fosse almeno stato cosí! Giulio avrebbe trovato un'ultima gioia nello sfogo di un'ira giusta e magnanima; sarebbe morto colla fede che le sue parole a vendetta della sua sciagura avrebbero risonato eternamente nell'anima della spergiura. Nulla di ciò invece: la Pisana non aveva per lui né occhi né orecchi: egli moriva goccia a goccia, senza lusingarsi che il rantolo della sua maledizione avrebbe turbato un istante la felicità del suo sorriso! Durante quella lunga sera accumulai nel cuore tanta compassione per quel poveretto, che addussi al Conte qualche pretesto per rimanere a Portogruaro, e lo lasciai partire soletto colla Pisana, la quale si maravigliò non poco di cotal mia stravaganza. La attribuí forse a gelosia, e mi buttò un'occhiatina che potea essere di conforto o di gratitudine; ma io ne ebbi orrore, mi rivolsi precipitosamente, e lasciando il Venchieredo guardar la carrozza che si dileguava, presi a braccetto il Del Ponte, e lo trassi lunge da quella casa. Questi mi seguiva a malincuore, ansava come un naufrago che sta per perdere l'ultima tavola, e teneva la testa rivolta ostinatamente ad osservare la contentezza del fortunato rivale. - Giulio, che fai?... - gli dissi scotendolo. - Ritorna in te! abbracciami! non mi hai ancora salutato!... Mi guardò quasi trasognato, indi, poiché fummo nel buio d'una calle remota, mi mise le braccia intorno al collo senza parlare né piangere. Cosí non ci eravamo lasciati. Egli allora trionfante e felice non s'avvedeva di me misero ed avvilito; m'avea fatto della mano un cenno di commiato, quasi di protezione e di pietà; io non avea né voluto né potuto stringere la mano di chi mi rubava la ricchezza dell'anima mia. Oh quanto mutati ci ricongiungeva la fortuna! Io sotto il peso d'un doppio disinganno aveva il coraggio di compatire a lui piú che a me stesso, a lui decaduto dalla ricca noncuranza del trionfo alla mendicità della sventura, a lui tanto crudele e nocivo contro di me un anno prima, quanto a lui stesso lo era allora Raimondo. - Giulio, che fai? - tornai ancora a dire sollevandogli la fronte. - Tu vuoi ammalarti e ci riesci a forza di esser crudo e spietato in te stesso. - Voglio ammalarmi?... No, no, Carlo, - rispose egli con voce fioca e straziante - voglio anzi guarire, voglio vivere! voglio che la giovinezza rifiorisca sul mio volto, che le allegre immagini si ricoloriscano alla mente, che l'anima si rigonfi come la gemma del rosaio al soffio primaverile, e che trabocchi fuori in lieti discorsi, in frizzi faceti, in cantici smaglianti d'amore di poesia! Voglio che la luce scacci dal mio volto le tenebre della melanconia, e il bel sole della vita vi rianimi queste fattezze smorte ed appassite! Sarà un miracolo; sarà un trionfo. Chi ha sul volto l'altera e grossolana bellezza della carne, una volta che l'abbia perduta deve aspettarne il ritorno dopo una lunga e incerta convalescenza; ma chi risplende nel viso per l'interna fiamma dello spirito può ritrovare in un momento la luce ammaliatrice d'una volta. L'anima non è soggetta alle lungherie della medicina; né la passione ha l'andamento greve e compassato della malattia; essa corrode e rimpolpa, essa uccide e risuscita! È veleno e balsamo ad un tempo. Io l'ho visto le cento volte, l'ho provato per esperienza, lo proverò ancora!... Egli parlava con enfasi febbrile, le parole gli si affollavano sulle labbra confuse e smozzicate; rivedeva nella mente un barlume dell'antico splendore e non voleva perderlo; ma gli venia meno la lena e il respiro convulso affannato s'agitava in mezzo a quel tumulto di pensieri, di speranze, di illusioni, come un guerriero ferito a morte tra fantasmi di gloria e delirii di comando. - Calmati, Giulio! - soggiunsi io non so se piú impietosito o spaventato da quell'orgasmo - vedi che della vita ne hai nell'anima oltre il bisogno; appunto la soverchia vitalità ti opprime; bisogna rintuzzarla. Io conosco il tuo male, e ne conosco anche il rimedio. So che ami disperatamente, come si ama quella donna che è venuta incontro all'amor nostro e ci ha stregato la fantasia colle gioie piú dolci che l'amor proprio e la voluttà sappiano ammannire, lavorando di conserva! Ora quando un cotal amore è divenuto un tormento, che si tratta di fare per guarire? Studiarne le origini, guardarne la fonte piú in noi stessi che in altrui. Fu un inganno, fu un granchio preso; ecco tutto. Rialzati e ti si porgerà il destro di coglierlo un'altra volta, se sarai debole tanto da degnarti!... - Capisco - entrò egli a dire amaramente - capisco, amico mio, cosa mi domandi. Credi che io pure a mia volta non ti abbia conosciuto?... Ti ho perduto di vista in seguito, ma dapprincipio mi era accorto che tu pure amavi la Pisana. Figurarsi se doveva prendermi soggezione d'un fanciullo!... Ora poi che sei grande roseo tarchiato intendi accampare i tuoi diritti, e ti garba meglio accamparli contro un avversario che contro a due! Vieni a dirmi pietosamente: "Ritirati pel tuo meglio; me ne saprai grado: vedi le mie spalle? esse hanno speranza e forza di recarti al cataletto". Non è vero che questo è il sugo del tuo ragionamento? - No, non è vero! - sclamai, compassionando in questi ingiusti sospetti la tormentosa diffidenza del malato. - Non è vero, Giulio, e tu lo sai ch'io non son capace d'una frode, e ch'io non m'abbasserò mai a pregar un rivale!... Ah, lo sapevi dunque?... Sí, io ho amato la Pisana quand'era fanciullo; non voglio nasconderti nulla, io la amo ancora; e per questo appunto mi duole di vederla inesorabile contro di te! - Inesorabile? lo credi dunque! - gridò egli afferrandomi convulsivamente la mano. - Inesorabile come chi non ricorda, come chi non vede - io soggiunsi. - Ma dunque tu vorresti persuadermi dell'impossibile! - riprese egli. - Vorresti darmi a credere che ti dia noia il veder la tua amante crudele verso un altro!... O impostore, o codardo, ecco qual vuoi comparirmi!... Ancora ancora io fui indulgente a crederti impostore. Se cosí non fosse io ti disprezzerei maggiormente, e avrei ribrezzo del tuo vile compianto! come d'un lenocinio pagato. - Taci, Giulio, taci! - sclamai trattenendo un impeto di sdegno e ponendogli una mano sulla bocca. - Sí, tu l'hai detto; io inorridisco di vedere non la mia amante, ma colei che amo piú della vita, torturare e uccidere spensatamente un'anima come la tua; vorrei purgarla da questa taccia, risparmiarle questo rimorso!... Poiché, sappilo, Giulio, e vedi se sono sincero, io so e sento di doverla amar sempre e sarebbe per me un dolore infinito quello di amare non una vanerella, non una spensierata, non una sirena, non una furia e un'assassina!... - Amala dunque, amala pure! - rispose egli con voce soffocata dai singhiozzi. - Non vedi che sono un'ombra? i tuoi scrupoli vengono tardi; ella mi ha già ucciso; e le sua labbra sono vermiglie dal sangue che mi ha succhiato. Talvolta m'illudo ancora; è superbia, è speranza di vendetta! Ma poi mi torna il coraggio della verità, e godo quasi di scongiurar fronte a fronte la furia che mi divora. Va', io mi vendico fin d'ora della felicità che attende te pure, e che s'aspetta a tutti quelli che aspetteranno pazientemente! Va', se vuoi amare una cosa abbietta, immonda, spregevole, senz'anima, senza cuore e senza ingegno; cerca la bambola istupidita dalla ubbriachezza dei sensi e accecata dall'orgoglio! nata donna nella crudeltà nella sciocchezza nella lascivia, e bambola eterna in tutto il resto, anche nella pietà che è la scusa delle donne e che a lei fu negata per un mostruoso prodigio della natura!... I tuoi diritti sono innegabili; nasceste insieme nella corruzione, potete amarvi senza vergogna alla vostra maniera, come si amano i rospi nel pantano, e i vermi nel cadavere!... La sua voce si era rianimata; egli parlava e camminava come un demente; sentiva scricchiolare i suoi denti come volessero arrotare la punta a quelle parole d'imprecazione e di sprezzo. Ma io era armato nel cuore contro a tali ferite, e lasciai sfogarsi quel suo impeto di furore e di sdegno, finché racquistò almeno la calma della stanchezza. Allora tentai un ultimo colpo, fidando nella rettitudine delle mie intenzioni che Dio sa se potevano essere piú generose. - Giulio - gli bisbigliai gravemente all'orecchio - tu hai giudicato la Pisana!... Or guarda adunque se cosí come la conosci il tuo orgoglio ti permette d'amarla. - E tu l'ami pur tu? - rimbeccò egli con fare aspro e riciso. - Sí, io l'amo; - soggiunsi - perché mi vi usai fin dalla nascita, perché quell'amore non è un sentimento ma una parte dell'anima mia, perch'esso è nato in me prima della ragione, prima dell'orgoglio! - E in me dunque? - riprese egli quasi piangendo - credi tu che due anni non l'abbiano radicato in me cosí profondamente come in te dodici o quindici?... Credi tu ch'egli fosse un trastullo per me?... Non vedi che muoio solo perché esso mi è tolto? L'orgoglio, tu dici, l'orgoglio?... Sí, io sono superbo; mi duole di cedere altrui quello ch'io possedeva e di non poter nulla nulla per racquistarlo!... Oh se sapessi con quanti spasimi, con quante lagrime, con quante viltà comprerei ora un raggio fuggitivo di bellezza, un barlume momentaneo di spirito, un giorno un giorno solo della mia vita rigogliosa d'una volta!... Se sapessi quante lunghe ore sto dinanzi allo specchio contemplando con rabbiosa impotenza lo smarrimento delle mie sembianze, gli occhi pesti e annebbiati, le carni ingiallite e rugose!... Sono orribile, Carlo, orribile davvero! Fo raccapriccio a me stesso; fossi una donna da trivio non concederei un bacio al disgraziato che mi somigliasse. Uno scheletro ritto ancora, ma non vivo non animato! Almeno mi restasse l'energia spaventosa del fantasma! Mi vendicherei collo spavento, colle maledizioni! Ma l'anima si ritira da me, come l'acqua del fiume dalla sponda inaridita: tutto appassisce, tutto manca, tutto muore! Mi restano solo memorie e desiderii; un popolo sconsolato di pensieri muti e rabbiosi che non sa nemmeno gridare per destar compassione. Allora solamente egli tacque, allora solamente io intravvidi con ribrezzo la profonda disperazione di quell'anima, e la pietà stessa rimase stupita e paralitica. Era un martire dell'orgoglio, piú ancora che dell'amore: e tuttavia non so quale interna pressura mi traeva a tentare ogni sacrifizio per cercar di salvarlo. Credo che amassi tanto la Pisana da credermi a parte perfino delle sue colpe e de' suoi doveri di riparazione; fors'anco mirava in altrui quello che io stesso avrei potuto diventare, e la paura mi eccitava alla carità. Mi ricordai di aver udito il Del Ponte opporsi talvolta alla satirica miscredenza di Lucilio e di qualche altro nel crocchio del Senatore; laonde mi parve utile tentare anche questo mezzo. - Giulio, tu almeno sei cristiano! - ripresi dopo un breve silenzio. - Puoi dunque chieder conforto a Dio e rassegnarti. - Sí, infatti son cristiano! - mi rispose egli - e mi rassegno, e ne do prova bastevole col non ammazzarmi. - No; dicon che non basta; bisogna seguitare la pratica delle altre virtù cristiane, oltre la rassegnazione; bisogna essere caritatevoli agli altri ed a sé. - Lo sono fin troppo; non ho ancora schiaffeggiato lei, non ho sbranato quel nobile liscio e cialtrone che mi opprime colla sua arroganza! Ti par poco?... - Bada, Giulio, che la passione ti fa essere parziale verso te ed ingiusto verso gli altri. La Pisana è colpevole, ma il Venchieredo, per quanto... - Non parlarmi di lui!... Per pietà non parlarmi di lui, perché mi dimentico alle volte perfino i comandamenti di Dio!... - Or dunque ti parlerò di me: vedi se la passione ti accieca sui tuoi doveri? Poco fa dovevi ringraziarmi e mi hai insultato!... - Ti ho insultato perché infatti tutto il tuo contegno di questa sera mi sembra ancora molto bizzarro; ma ora voglio crederti; ti ringrazio delle buone intenzioni. Sei contento? - Sarei piú contento se volessi aiutarti de' miei consigli per vivere meno infelice! - Mi aiuterò invece de' miei per morire. Son cristiano, credo al paradiso, e tutto sarà finito. Dubito peraltro di poter morire perdonando!.. Oh sí, ne dubito assai; ma la malattia sarà lunga, mi fiaccherà, e sarò convertito se non da altro dalla debolezza. Dio voglia passarmela buona!... - No, per carità, Giulio, non finire di avvelenarti con questi tetri pensieri!... - Vedi anzi che ora son calmo, che sto meglio, che mi par di esser guarito. Hai fatto benissimo a farmi risovvenire di Dio. Questa notte, scommetto che dormirò, e sí che da due mesi non godo una tanta ventura. Ho piacere di doverla a te: guarda se sono ingiusto ora!... Mi perdoni, non è vero, Carlo? Io gli buttai le braccia al collo; quelle sue ultime parole, benché intinte ancora di qualche amarezza, mi toccarono il cuore piú che le smanie di prima. Sentii il suo cuore battere sul mio precipitosamente, come quello d'un viaggiatore che ha fretta d'arrivare; baciai quel suo volto scarno, e madido tutto d'un sudore gelato; indi lo vidi entrare in casa, lo udii tossire a piú riprese nel montar le scale e mi tolsi di là col malcontento di chi ha fatto una buona azione ma pur troppo inutile. Il giorno seguente me n'andai a Fratta prima dell'alba, giacché tutta la notte non avea fatto altro che volgere in capo i disegni piú strani e le speranze piú inverosimili. Stetti molte ore in cancelleria a ravviare le faccende d'uffizio, coll'aiuto di quel vecchio sornione di Fulgenzio; riverii poscia il Conte e Monsignore, questo sempre piú morbido e paffuto, quello incartocciato come una vecchia cartapecora abbrustolita sulla bragiera. Ma mi tardava l'ora di sbrigarmi per parlare alla Pisana, e finalmente fui libero e la trovai che la scendeva dalla camera della nonna per andare a pigliar fresco nell'orto. La Faustina e la signora Veronica che le stavano alle coste scantonarono in cucina ghignando fra loro per lasciarla sola con me. Io mi sentii rivoltare lo stomaco e seguii la fanciulla con un'occhiata lunga e pietosa. - Finalmente ti si vede! - mi diss'ella la prima. - Come finalmente? - risposi io - ci siam veduti e salutati mi pare anche iersera. - Iersera sí! ma non eravamo soli, e la gente, a dirti il vero, comincia a darmi soggezione. - Hai ragione, iersera non eravamo soli: c'era molta gente; fra gli altri Raimondo Venchieredo e Giulio Del Ponte. Io introdussi questi due nomi per giungere al discorso che voleva intavolare con lei, ma ella ci odorò all'incontro un grano di gelosia, e credo che me ne seppe buon grado. - Il signor Giulio Del Ponte - soggiunse ella - e il signor Raimondo di Venchieredo non mi fanno adesso né caldo né freddo; peraltro sono anch'essi gente come gli altri, e non mi ci trovo piú di fare spettacolo pubblicamente de' miei sentimenti. - Questo sarebbe un gran bene, Pisana; ma col fatto non mantieni la promessa. Ieri per esempio mi pare che i tuoi sentimenti pel signor Raimondo fossero abbastanza chiaramente espressi, e che Giulio li comprendesse a meraviglia. - Oh non mi secchi piú il signor Giulio! ho anche troppo fatto e sofferto per lui! - Dici davvero? hai sofferto per lui? - Figurati!... io gli voleva un po' di bene ed egli se ne ingalluzzí tanto che s'era, credo, messo in capo di sposarmi. Ma già sai come la sentano i miei su questo tasto del matrimonio. Sarebbe stata una replica di quella brutta commedia di Clara e di Lucilio; io ho dovuto metter giudizio anche per lui, gli ho parlato fuor dei denti, e per ridurlo meglio a ragione ho preso a far meno la ritrosa con Raimondo. Lo crederesti che al signor Giulio non andò a sangue questa mia ragionevolezza, egli che se mi voleva bene doveva appunto incoraggiarmivi?... Cominciò a far il patito il geloso e ti confesso che, in onta a tutto, mi faceva anche compassione; ma cosa doveva fare? seguitare ad ingannarlo e a menarlo di palo in frasca?... Fu meglio come ho pensato io, tagliar il male alla radice; la ruppi affatto con lui, e buona notte. Allora fu che si mise sotto Raimondo sul serio, e questo, ti dico la verità, mi conveniva come marito; ma mentre appunto che si bisbigliava da tutti d'una prossima domanda formale da parte sua, ecco capitarmi addosso Del Ponte cogli occhi fuori della testa, e a gridare che se avessi sposato Raimondo, si sarebbe ammazzato, e che so io altro! Io forse fui troppo credula troppo buona, ma cosa vuoi? non ci penso troppo alle cose e questo è il mio difetto, tantoché per consolarlo per quietarlo e piú ancora per liberarmene gli promisi che non avrei sposato Raimondo. E da ciò provenne che lo rifiutai, benché, ti giuro, egli mi piacesse, e sentissi di fare un gran sacrifizio!... Questa è amicizia, mi pare! cosa doveva fare di piú? - Oh diavolo! - soggiunsi io - Giulio non mi ha detto nulla di ciò! - Come, tu gli hai parlato a Giulio? - sclamò la Pisana. - Sí, gli ho parlato ieri sera, perché mi faceva compassione la sua cera desolata per la brutta maniera con cui lo trattavi. - Io trattarlo con brutta maniera? - Caspita! non gli hai rivolto mai neppur un'occhiata! - Oh bella! dovrebbe anche ringraziarmene! Se avessi continuato a lusingarlo, avrebbe finito col disperarsi piú tardi; meglio è separarsi da buoni amici ora, finché il male è sanabile. - Sembra che questo male non sia tanto sanabile come tu credi. Forse tu non ci badi, ma egli ne soffre all'anima di vederti incapricciata del Venchieredo e noncurante di lui. La sua salute peggiora di giorno in giorno, ed io credo che la passione lo consumi. - Cosa dunque mi consiglieresti di fare? - Eh!... il consiglio è difficile; ma pur mi sembra che, giacché hai promesso di non maritarti col Venchieredo, dovresti romperla addirittura anche con questo. - Per rappiccarla con Giulio? - m'interruppe malignamente la Pisana. - Anche; se senti proprio di volergli bene - risposi io con uno sforzo violento sopra me stesso. - Ma ad ogni modo, separata che ti fossi da Raimondo, egli si affliggerebbe meno, e chi sa che anche senza il rimedio dell'amor tuo non giunga a guarire. La Pisana si raddrizzò accomodandosi i capelli sulle tempie e sorridendo accortamente. Ella credette che tutta quella mia manovra non tendesse ad altro che a liberare il campo da ambidue i pretendenti a mio totale benefizio. - Si potrà provare, purché tu mi aiuti - ella soggiunse. - Non so in che possa aiutarti: - le risposi - ieri sera anche senza di me facevi benissimo i tuoi soliti vezzi al Venchieredo: e non hai mostrato di accorgerti che io fossi tornato da Padova se non al mio entrar nella sala, per un lieve saluto. - Oh bella! e se avessi voluto vendicarmi della tua stessa freddezza? - Via, via bugiarda! E l'altra sera di che ti vendicavi dunque? Credi che io non sappia da quanto tempo dura questa tua scalmana per Raimondo! - Ma se ti ripeto che tutto era per distoglier Giulio! Vorresti che avessi il coraggio di dargli un rifiuto se mi piacesse sul serio? - Vedi, come fai smacco alla tua stessa virtù?... Ti vantavi pure poco fa del tuo rifiuto come di un gran sacrifizio! La fanciulla restò attonita confusa e stizzita. Era la prima volta che le sue lusinghe non mi trovavano pronto a farmi corbellare; e questo appunto la spronò a insistervi perché non era donna da ritrarsi da nessuna cosa senza prima averla spuntata. In fatto, fosse merito della mia presenza, della predica, o della sua bontà; il fatto sta che il suo bollore per Raimondo si sfreddò tutto d'un colpo, e il povero Giulio si vide onorato da alcuni di quegli sguardi che tanto piú sembrano cari quando sono da lunga pezza insoliti. In fondo in fondo, peraltro, ella non dedicava a lui che la parte d'attenzione che gli veniva come persona della conversazione; e le premure della donzella tornavano a poco a poco a concentrarsi in me. Andò tant'oltre questa mia fortuna che ne fui turbato e sconvolto. A Fratta, vicino alla Pisana, ammaliato dalle sue occhiate, dalla sua bellezza, infiammato dalle sue parole, rade, bizzarre, ma talvolta sublimi e tal'altra perfin pazze di delirio d'amore, io dimenticava tutto, io riprendeva la servitù d'una volta, era tutto per lei. Ma a Portogruaro mi si rizzava dinanzi come una larva la faccia cadaverica e beffarda di Giulio: io aveva paura, rabbia, rimorso; mi pareva ch'egli avesse diritto di chiamarmi amico sleale e traditore e che la Pisana avesse fiutato meglio di me la innata viltà del mio cuore quando aveva sospettato che non pel bene di Giulio ma pel mio io cercassi distoglierla affatto dal Venchieredo. Eppure quella sete inesauribile, quel diritto che ci sembra avere a un'ombra almeno di felicità, combatteva sovente cotesti scrupoli. Quando mai era io stato l'amico di Giulio? Non era anzi egli stato il primo a romper guerra con me, rubandomi l'affetto della Pisana, o almeno attirandone a sé la parte piú fervida e bramata? Qual amante sfortunato non ha aperto l'adito alla rivincita e non se ne giova? E poi non aveva io adoperato verso di lui con ottime intenzioni? Se queste intenzioni in mano della fortuna le avean servito per favorir me, doveva io confessarmi colpevole; o non piuttosto approfittar della mia ventura, giacché me ne cadeva il destro? - La coscienza non s'acquetava a questi argomenti. "È vero", rispondeva, "è vero che non vi è ragione alcuna per cui tu debba essere l'amico di Giulio; ma quante cose non accadono senza apparente ragione? La stima, la somiglianza delle indoli, la compassione, la simpatia generano l'amicizia. Il fatto sta che per quanto tu dovessi odiar Giulio, appena arrivato da Venezia, la sua miseria i suoi tormenti te lo hanno fatto amare; gli dimostrasti affetto d'amico; tanto basta perché tu debba allontanare perfino il solo dubbio che le tue profferte d'allora non fossero sincere. Hai avuto rimorso del suo smarrimento per conto della Pisana, e non vuoi averlo per te?... Vergogna! Impari le sofisticherie dell'avvocato Ormenta e a non essere galantuomo colla pretesa di parerlo. Volevi che la Pisana sacrificasse il Venchieredo per la salute di Giulio, or dunque adesso sacrifica te, o ti dichiaro un codardo!". Quest'ultima intemerata della mia padrona mi persuase. A poco a poco con mille accorgimenti, con mille sforzi tutti premeditati e dolorosi, mi ritirai dalla Pisana. Ella invece si apprendeva a me coll'umiltà del cagnolino cacciato; ma quella sentenza di codardia mi minacciava sempre nel cuore; io soffocava i miei sospiri, nascondeva i miei desiderii, divorava le lagrime, e cercava lungi da lei la solitudine e l'innocenza del dolore. Tanto feci che, fosse consapevole assentimento a' miei disegni, o riscossa d'orgoglio, od altro, ella cessò dal perseguitarmi; e allora toccò a me tornarmi a dolere di quella freddezza, provocata con tanta arte, con tanta costanza. Il giovine Venchieredo, per poco geloso di me, si rallegrò in breve di non vedermi piú in casa Frumier e di sapermi trascurato. Ma argomentava male di credersi destinato a raccoglier di nuovo i frutti del mio abbandono. La Pisana non badava per allora né a lui né ad altri, o se mostrava qualche preferenza, l'era piuttosto a favore di Giulio Del Ponte. Questi accoglieva quei rari contrassegni di benevolenza, come il calice del fiore riceve avidamente dopo un mese d'arsura qualche goccia di rugiada. Se ne ravvivava tutto, e a ravvivarlo meglio contribuiva il credere che non al mio sacrifizio né alla generosità della Pisana, ma alla propria virtù si dovesse quel rilievo d'amore. Ciò io aveva temuto e sperato insieme. Il tumulto che si rimescola nell'animo all'azzuffarsi della pietà della gelosia dell'amore e dell'orgoglio, non può essere dichiarato cosí facilmente; figuratevi di esser nel caso, se potete, e vi saranno chiare le continue contraddizioni dell'animo mio. Raimondo intanto, frodato della sua lusinga, non disperava per nulla di soperchiare un nemico cosí malconcio e avvantaggiato di poco com'era il Del Ponte. Ma la sicurezza ch'egli mostrava sull'esito di quel duello, allontanava da lui piucchealtro il cuore della Pisana. Le donne son come quei generali cui preme piú l'onore della bandiera che la vittoria; accondiscendono a capitolare, ma vogliono esser cinti dalle parallele e minacciati dalle bombe. Un'intimazione alla bella prima, senza apparecchi militari e senza avvisaglie, non la si fa che alle fortezze di poco conto; e non v'è figliuola d'Eva cosí spudorata da confessare di esser tale. Raimondo, respinto colle belle parole, tornò all'assalto coi regali. La Pisana era piú orgogliosa che delicata e accettò coraggiosamente i regali senza quasi domandare da chi le venissero. Passeggiera contentezza per Raimondo, e nuova bile per me. Ma dopo tutto, la segreta soddisfazione d'una buona opera mi teneva il cuore in una calma triste e monotona bensí, ma non priva di qualche diletto. Adoperava anche possibilmente di metter in pratica una delle massime ereditate da Martino, di dimenticare cioè i piaceri venutimi dall'alto, e di cercarli al basso fra i semplici e gli umili. A questo mi erano continua occasione le faccende di cancelleria. Ho la vanagloria di credere che dal tempo dei Romani in poi la giustizia non fosse amministrata nella giurisdizione di Fratta colla rettitudine e colla premura da me adoperata. Un briciolo di cuore, qualche po' di studio e di ponderazione aiutata da un discreto buon senso mi dettavano sentenze tali che la firma del Conte era onorata di potervi fare in calce la sua comparsa. Tutti portavano a cielo la pazienza, la bontà, la giustizia del signor Vice-cancelliere: la pazienza soprattutto, che è altrettanto rara quanto necessaria in un giudice di campagna. Ho veduto alle volte taluno fra questi arrovellarsi infuriare tempestare pel tardo ingegno delle parti; andar coi pugni al muso dell'attore, minacciar bastonate al reo convenuto, e pretendere da essi quella moderazione quella chiaroveggenza quel riserbo che son frutto solamente di una lunga educazione. Appetto ai ragionamenti bisogna ficcarsi in capo che gli ignoranti son come i bambini; bisogna perciò usare la logica lenta e minuziosa d'un maestrucolo elementare, non la retorica sommaria d'un professorone d'Università. La giustizia vuol essere largita, ma non imposta; e convien mantenerle la sua fama, il suo decoro di giustizia colla persuasione, non darle colore di arbitrio coi rabbuffi e coll'arroganza. Finché non si muti il galateo dei tribunali foresi, i codici alla gente di campagna parranno non differenti per nulla dalle antiche sibille. Sentenziavano perché di sí, e chi aveva ragione non ci capiva meglio di quello cui si dava torto. Avvezzo dalla culla a vivere fra gente rozza e ignorante, io non durai fatica a vestirmi di questa tolleranza; anzi la mi venne di suo piede, perché non si potea farne senza. E il mio esempio fu efficace anche sugli uomini di Comune incaricati della giustizia piú minuta; sicché non si udirono piú tanti lagni per la tal trascuranza a favore di questo, o per la tal rappresaglia a carico di quello. L'Andreini, il vecchio, era morto poco prima del Cancelliere; e suo figlio che gli era succeduto non fu restio a secondare il mio zelo pel buon andamento delle cose giurisdizionali. Il Cappellano era al colmo della consolazione; non lo inquietavano piú per la sua amicizia collo Spaccafumo; e purché costui, che cominciava a darsi all'ubbriachezza, non turbasse la pace festiva con qualche baruffa, era in facoltà di far visita cui piú gli piacesse. Il bando era scaduto, la sua vita, è vero, non somigliava a quella di tutti; ma non si potea parlar male, e ciò bastava perché io non lo angariassi senza costrutto. Qualche inverno prima, per un mal di petto ribelle, gli era mancata la Martinella, che solea provvederlo di sale di polenta e delle derrate piú necessarie. Allora dunque egli usciva piú spesso dalle lagune per provvedersele da sé; ma del resto non se ne sapea nulla a viveva come un'ostrica in mezzo alle ostriche. Il Cappellano mi disse ch'egli si ricordava di quella sera quando mi avea recato in groppa fin vicino al castello, e che se ne lodava sempre per la buona riuscita che avea fatto e pei grandi diritti che aveva alla gratitudine del Comune. Le lodi dello Spaccafumo mi lusingavano non poco: quelle poi del vecchio piovano di Teglio mi mandavano in estasi. Ed egli me le decretava con un certo fare autorevole e moderato, come chi ha facoltà di darle e di negarle; e poi non convien tacere che le glorie del discepolo riverberavano in volto al maestro. Per lui io rimasi sempre lo scolaretto dalle orecchie spenzolate, e il latinante da quattro sgrammaticature al periodo. Perfino Marchetto ci trovava il suo conto della mia amministrazione, perché la sua pancia cominciava a brontolare delle troppo lunghe cavalcate, ed io glielo sparagnava coi spessissimi componimenti. I faccendieri e Fulgenzio mio aiutante brontolavano; perché le liti degli altri erano la loro pasqua, ma io non ci badava al malumore dei tristi, e a quest'ultimo sopratutto rivedeva le bucce assai di sovente perché si ravvedesse della sua vecchia usanza di farsi pagar a doppio le proprie fatiche dal giurisdicente e dalle parti. Giulio Del Ponte m'ebbe ad avvertire di non urtarmi troppo con lui, perché colla sua umiltà e con la sua gobba aveva voce di esser ben sentito da chi poteva molto. Ed io ripensando al processo del vecchio Venchieredo mi capacitai benissimo di questi sospetti; ma il mio dovere soprattutto; ed io avrei lavato il muso ai Serenissimi Inquisitori nonché ad una loro sucida spia se li avessi colti in flagrante di disonorare il mio ufficio. C'era del resto un altro personaggio che senza farne le viste mi mandava di cuore a tutti i diavoli; e questi era il fattore. La mia presenza, la mia nuova autorità avea sgominato certi suoi vecchi sotterfugi di mangerie e di rubamenti. Io ne aveva scoperto la trafila, gliel'avea perdonata, ma non gli avrei perdonato in seguito; ed egli sel sapeva e sopportava la mia sorveglianza con discreto malumore. Il Conte del resto era felicissimo di risparmiar il salario del Cancelliere; e non parlava né di farmi fare gli esami né di mettermi in posto regolarmente. Quelle condizioni di ripiego gli accomodavano assai. Ed io tirava innanzi abbastanza contento delle benedizioni che mi venivano da tutti per la mia imparzialità, per la mia premura, sopratutto poi per la moderazione nel riscuotere le tasse. Donato, il figliuolo dello speziale, e il mugnaio Sandro, da antichi rivali che mi erano stati, divenuti allora miei compagni ed amici, mi crescevano il favor della gente coi loro panegirici. Insomma, io provava allora la verità di quella massima, che nello zelante adempimento dei proprii doveri si nasconde il segreto di dimenticare i dolori e di vivere meno male che si può. La salute di Giulio Del Ponte che pareva ristabilirsi ogni giorno piú era la piú cara ricompensa che m'avessi dei miei sacrifizi. Io riguardava quel miracolo come opera mia, e mi sarà perdonato se fra me osava insuperbire. Raimondo, stanco stanchissimo di veder la Pisana portare gli abiti donatigli da lui e affibbiarsi i suoi spilloni senza tornar per nulla alle tenerezze d'una volta, se l'avea svignata pulitamente. Giovandosi delle dissensioni che inacerbivano sempre piú in casa Provedoni, e della vecchiaia omai quasi impotente del dottor Natalino, persuase egli Leopardo di accasarsi a Venchieredo per aiutarvi il suocero. Il buon pastriccione, sempre piú infinocchiato dalla Doretta, accondiscese; e cosí tutti dicevano che il signor Raimondo era ben fortunato di abitar colla ganza sotto le stesse tegole. Il solo marito non credeva a ciò; egli era innamorato e piú che innamorato servitore di sua moglie. Cosí le cose s'erano raccomodate o bene o male per tutti; ma il mondo non era solamente Fratta, e fuori di là i romori i guai le minacce di guerre e di rivoluzioni crescevano sempre. Le novelle di Venezia si chiedevano ansiosamente, si commentavano, si storpiavano, si ingrandivano e formavano poi il tema a burrascose contese dintorno al focolare del castello. Il Capitano provava, come due e due fanno quattro, che le paure erano esagerate e che la Signoria avvisava saggiamente di ristare dai provvedimenti straordinari, perché i Francesi, anche con ogni buon vento in poppa, avrebbero dovuto impiegare tre anni al passaggio delle Alpi, e altri quattro ad un avanzamento dalla Bormida al Mincio. Numerava le linee di difesa, le forze dei nemici, i capitani, le fortezze; insomma, secondo lui quella guerra o sarebbe finita al di là dei monti, o al di qua sarebbe caduta in retaggio alla generazione seguente. Giulio Del Ponte e qualchedun altro che veniva da Portogruaro non erano di questo parere; secondo loro i vantaggi degli alleati eran ben lungi dall'assicurar completamente la Repubblica contro le esorbitanze dei Francesi, e questi di lí a due, di lí a tre mesi poteva benissimo darsi che avessero già invasi gli Stati di terraferma, e lo stesso Friuli. Il Conte e Monsignore rabbrividivano di queste previsioni; e toccava poi a me distruggere i cattivi effetti di tante soverchie e precoci paure. Cosí barcheggiando si venne alla primavera del '95. La Repubblica di Venezia avea già riconosciuto solennemente il nuovo governo democratico di Francia; il suo rappresentante Alvise Querini aveva fatto al Direttorio la sua chiacchierata, e a saldare la recente amicizia s'era anzi dato lo sfratto da Verona al Conte di Provenza. Il Capitano diceva: - Fanno benissimo. Pazienza ci vuole e non por mano subito alla borsa e alla spada. Vedete? le cose si vanno già raffreddando laggiù! Quelli che ammazzavano i preti, i frati ed i nobili, l'hanno finita anch'essi sul patibolo: la crisi può dirsi nel decrescere, e la Repubblica se l'è cavata senza esporre a pericolo la vita d'un uomo. - Rispondeva Giulio: - Fanno malissimo; ci metteranno i piedi sul collo; si tace ora per gridar piú forte di qui a poco. Ora che ci par d'essere avvezzi al pericolo, e pericolo non c'è, verrà il pericolo vero e ci troverà assopiti e sprovveduti. Dio ce la mandi buona, ma alla meglio non ci faremo la miglior figura! - Io mi accostava all'opinione di Giulio, tanto piú che Lucilio mi avea scritto da Venezia che sperassi bene, ché mai la sorte del mio amico non era stata piú vicina a un propizio rivolgimento. Ma la sua invece, la sorte del povero dottorino, subí a que' giorni un grave tracollo. La Clara fu relegata finalmente al convento di Santa Teresa; e a Fratta se n'ebbe la novella quando la Contessa scrisse perché le mandassero i danari della dote: ella diceva di essersi intanto impegnata con un usuraio, ma che non si voleva udir parlare di termini troppo lunghi con quei torbidi che c'erano allora. Il Conte sospirò molto e molto; ma raccolse anco una volta i danari richiesti, e li mandò alla moglie. Io mi accorgeva pur troppo che la famiglia correva alla rovina, e dovea limitarmi a stagnare qualche goccia della botte, lasciando poi che lo spillone gettasse a piena gola, perché da quel lato non potea rimediare. Al Conte non mi arrischiava, al Canonico era inutile, al fattore dannoso il mover parola: e la Pisana, cui ne accennai qualche volta, mi rispondeva squassando le spalle, che alla mamma non si potea comandare, che le cose erano sempre ite cosí, e che già lei non se ne dava fastidio, ché avrebbe vissuto in una maniera o nell'altra. La tristarella pareva essersi corretta di molto dalle sue bizzarrie. Senza mostrarsi né adirata né contenta del mio riserbo, mi trattava con bastevole confidenza; e a Giulio poi faceva sempre buon viso, benché si vedesse che non era nella solita smania de' suoi innamoramenti. La maggior parte della giornata la passava in camera della nonna, e pareva si fosse preso l'assunto di farle dimenticare la lontananza della sorella maggiore; ma la povera vecchia, omai affatto imbecillita, non era neppure piú in grado di esserle riconoscente de' suoi sacrifizi. Questi non diventavano perciò che piú meritori. Quando la nuova del noviziato della Clara fu sparsa nei dintorni, capitò in castello il Partistagno che non vi si era piú fatto vedere dopo l'esito tragico-comico della domanda solenne. Egli urlò strepitò e sragionò molto; spaventò il Conte e Monsignore, e partí dichiarando che andava a Venezia a chieder giustizia e a liberare una nobile donzella dall'inconcepibile tirannia della sua famiglia. Il tempo trascorso lo avea persuaso sempre piú del valore irresistibile de' proprii meriti, e contro tutte le ragioni che aveva per ritenere il contrario, si ostinava a credere che la Clara fosse innamorata di lui, e che i suoi parenti non gliela volessero concedere per qualche causa misteriosa ch'egli si proponeva di svelare in seguito. Infatti si udí poco dopo ch'egli avea levato il campo da Lugugnana per trasportarlo a Venezia; e da Fratta si affrettavano a dar di ciò contezza a Venezia; ma non essendo venuti di colà ulteriori ragguagli, si finí coll'acquietarsi nella fiducia che il grande sussurro del Partistagno dovesse svamparsi in chiacchiere. Frattanto quello ch'io già prevedeva da un pezzo avvenne pur troppo. La salute del signor Conte andava scadendo di giorno in giorno: e alla fine ammalò gravemente e prima che si potesse prevenirne la Contessa del pericolo, egli spirò senza accorgersene fra le braccia del Cappellano, di monsignor Orlando e della Pisana. Il dottore Sperandio gli aveva cavato ottanta libbre di sangue, e recitò poi un numero straordinario di testi latini per provare che quella morte era avvenuta per legge di natura. Ma il defunto, se avesse potuto buttar un'occhiata fuori della cassa, sarebbe rimasto quasi contento di esser morto tanta fu la pompa del funerale. Monsignor Orlando pianse con moderazione e cantò egli stesso l'ufficio d'esequie con voce un po' piú nasale del solito. La Pisana se ne disperò ai primi giorni piú ch'io non avessi creduto possibile: ma poi tutto ad un tratto ne parve smemorata. E quando vennero i Frumier a prenderla e ad avvertirla che la volontà di sua madre la richiamava a Venezia, parve che tutto dimenticasse per la grandissima gioia di cambiar la noia di Fratta coi divertimenti della capitale. Ella partí quindici giorni dopo; e soltanto nell'accomiatarsi parve che il dolore di doversi separare da me soverchiasse la contentezza di correre a una vita nuova piena di splendide lusinghe. Io le fui grato di quel dolore, e dell'averlo essa lasciato travedere senza alcuna superbia. Conobbi ancora una volta che il suo cuore non era cattivo; mi rassegnai e rimasi. La mia presenza a Fratta era proprio necessaria. Narrare la confusione che vi avvenne dopo la morte del Conte sarebbe discorso troppo lungo. Usurai, creditori, rivendicatori calavano da ogni parte. I beni messi all'asta, le derrate sequestrate, i livelli ipotecati: fu un vero saccheggio. Il fattore se la svignò dopo aver abbruciati i registri; restai io solo, povero pulcino, ad arrabattarmi in quella matassa. Per soprassello le istruzioni mi mancavano affatto e da Venezia capitavano solamente continue ed affamate richieste di danaro. I Frumier mi erano di pochissimo aiuto; e poi il padre Pendola credo ci soffiasse sotto contro di me, e mi guardavano allora piuttosto in cagnesco. Io peraltro risolsi di rispondere coi fatti: e sudai e lavorai e n'adoperai tanto, sempre col pensiero in testa di giovare alla Pisana e di esser utile a chi bene o male mi aveva allevato, che quando il contino Rinaldo capitò a prender le redini del governo, gli ottomila ducati di dote delle Contessine erano assicurati, i creditori pagati o acchetati, le entrate correvano libere, e i poderi, diminuiti di qualche appezzamento in qua ed in là, continuavano a formare un bel patrimonio. I guasti c'erano ancora purtroppo, ma di tal natura che davano tempo ad esser sanati. Peraltro io non fui l'ultimo a credere che per tal operazione un signorino di ventiquattr'anni uscito allora allora di collegio (la Contessa ve lo avrebbe lasciato fino a trenta senza la morte del marito) non era l'uomo piú adatto. Basta! non sapeva che farci, e mi proposi solamente di tenerlo d'occhio per potergli giovare con qualche consiglio. Del resto mi ritirai nella cancelleria ove, sostenuti i miei esami, diventai poco dopo cancelliere in formis. Giulio Del Ponte, non potendo piú reggere al tormento della lontananza, avea seguito la Pisana a Venezia. Io rimasi solo soletto a consolarmi del bene che aveva fatto, a farne ancora quando poteva, a vivere di memorie, a sperar di meglio dal futuro, e a leggere di tanto in tanto i ricordi di Martino. Quella vita, se non felice, era tranquilla utile occupata. Io aveva la virtù di contentarmene. CAPITOLO DECIMO Carlino cancelliere, ovvero l'Età dell'Oro. Come al principiare del 1796 si giudicasse al castello di Fratta il general Bonaparte. La Repubblica democratica a Portogruaro e al castello di Fratta. Mio mirabile dialogo col Gran Liberatore. Ho finalmente la certezza che mio padre non è né morto né turco. La Contessa m'invita da parte sua a raggiungerlo a Venezia. Il conte Rinaldo era un giovine studioso e concentrato che si dava pochissima cura delle cose proprie e meno ancora di spassarsi come voleva la sua età. Egli rimaneva a lungo rinchiuso nella sua camera; e con me in particolare non parlava quasi mai. Gli è vero che col Capitano e colla signora Veronica io partecipava tuttavia all'onore della sua mensa; ma egli mangiava poco e parlava meno. Salutava nell'entrare e nell'uscire lo zio monsignore e tutto si riduceva lí. Peraltro manieroso affabile giusto all'occorrenza; io non ebbi a lagnarmi di lui per cosa alcuna, e ascriveva quella sua salvatichezza o a malattia o a paura d'un qualche vizio organico; infatti l'era d'una tinta piuttosto infelice, come di coloro che patiscono nel fegato. Io del resto menava i miei giorni l'uno dopo l'altro sempre tranquilli sempre uguali come i grani d'un rosario. Di rado andava a Portogruaro a visitare i Frumier per paura del padre Pendola, massime dappoiché la diocesi avea cominciato a mormorare della sua mascherata prepotenza, e la Curia e il Capitolo e il Vescovo stesso a risentirsi dell'esser menati dolcemente pel naso. L'ottimo padre pativa le gran convulsioni, ed io non voleva assistere a sí doloroso spettacolo. Piuttosto praticava sovente a Cordovado in casa Provedoni, ove avea stretto grande amicizia coi giovani; e la Bradamante e l'Aquilina incalorivano la conversazione con quella donnesca magia che ne fa noi uomini esser doppiamente vivi, doppiamente lesti e giocondi quando ci troviamo insieme a donne. Per me almeno fu sempre cosí; fuori dei colloqui obbligati a un prefisso argomento, quello che si chiama proprio il vero spontaneo brioso chiacchierio non ho mai potuto farmelo venire in bocca trattenendomi con uomini; fossero anche amici, piú naturalmente taceva se avessi nulla a dire di nuovo o d'importante, sicché avrò anche fatto le mille volte la figura dello stupido. Ma fosse venuta a mettercisi di mezzo una donna! subito si aprivano le rosee porte della fantasia, e gli usci segreti dei sentimenti, e immagini e pensieri, e confidenze scherzose le correvano incontro ridendo, come ad una buona amica. Notate però ch'io non ebbi mai una eccessiva facilità d'innamorarmi; e non dirò che tutte le donne mi facessero questo effetto lusinghiero, ma lo provai da parecchie né giovani né belle. Bastava che un raggio di bontà o un barlume ideale splendesse loro sul viso; il resto lo faceva quella necessità che gli inferiori sentono di figurar bene dinanzi ai superiori per esserne favorevolmente giudicati. Le donne superiori a noi! Sí, fratellini miei; consentite questa strana sentenza in bocca d'un vecchio che ne ha vedute molte. Sono superiori a noi nella costanza dei sacrifizi, nella fede, nella rassegnazione; muoiono meglio di noi: ci son superiori insomma nella cosa piú importante, nella scienza pratica della vita, che, come sapete, è un correre alla morte. Al di qua delle Alpi poi le donne ci son superiori anche perché gli uomini non ci fanno nulla senza ispirarsi da loro: un'occhiata alla nostra storia alla nostra letteratura vi persuada se dico il vero. E questo valga a lode e a conforto delle donne; ed anche a loro smacco in tutti quei secoli nei quali succede nulla di buono. La colpa originale è di esse soltanto. Se ne ravvedano a tempo, e l'Appennino mugolante partorirà non piú sorci, ma eroi. Qualche volta mi spingeva fino a Venchieredo a trovar Leopardo sempre piú istupidito dalla tirannia e dalla frivolezza della moglie. Mi ricorda averlo visto qualche domenica ai convegni vespertini intorno alla fontana. E dire che là gli avea balenato per la prima volta il sorriso della felicità e dell'amore! Allora invece l'andava col capo chino a braccio della Doretta; e tutti sogghignavano loro dietro; solito conforto dei mariti burlati. Ma aveva almeno la fortuna di non accorgersi di nulla, tanto quella vipera di donna gli teneva in servitù perfino l'intendimento. Oh! colei non era certamente l'esemplare d'una di quelle donne superiori a noi, che accennava poco fa! Guai se le femmina traligna! È vecchio il proverbio; la si cangia in diavolo. Raimondo veniva talvolta anche lui alla fontana. Se conversava o scherzava colla Doretta lo faceva senza alcun riserbo, e in modo quasi da mover lo stomaco; se poi non si curava di lei per badare ad altre forosette o civettuole dei dintorni, allora la sfacciata non si schivava dal perseguitarlo, sempre a rimorchio del marito. E dava in tali atti di malgarbo, di sdegno e di gelosia, che i capi ameni delle brigate ne facevano il gran baccano alle spalle del buon Leopardo. Gli altri Provedoni, che si trovavano presenti a caso, scantonavano per vergogna; ed io stesso doveva allontanarmi perché la vista d'una confidenza sí piena e sí indegnamente tradita mi moveva la nausea. Pur troppo peraltro è vero che lo spettacolo delle sventure altrui è conforto alle nostre: per questo avanzando nella vita sembriamo indurirci alle percosse del dolore, ma non è per abitudine, bensí perché l'occhio, allargandosi d'intorno, ci scopre ad ogni momento altri infelici oppressi e bersagliati peggio di noi. La compassione dei mali che vedeva, mi armava di pazienza per quelli che sentiva. La Pisana mi avea promesso di scrivermi di tanto in tanto; io l'avea lasciata promettere e sapeva fin d'allora quanto dovessi fidarmi alla sua parola. Infatti trascorsero parecchi mesi senza ch'io avessi sentore di lei, e soltanto sul cader della state mi pervenne una lettera strana assurda scarabocchiata, nella quale la veemenza dell'affetto e l'umiltà delle espressioni mi compensavano un poco della passata trascuranza. Ma sarebbe stato compenso per tutt'altri che per me. Io conosceva quella testolina vulcanica; e sapeva che, sfogato quel suo impeto di pentimento e di tenerezza, sarebbe tornata per Dio sa quanto tempo all'indifferenza di prima. Alcuni versi di Dante mi stavano fitti in capo come tanti coltelli avvelenati: ... indi s'apprende quanto in femmina il foco d'amor dura se l'occhio o il tatto spesso nol raccende. Quel piccolo Dantino io l'avea pescato nel mare magnum di libracci di zibaldoni e di registri donde la Clara anni prima avea raccolto la sua piccola biblioteca. E a lei quel libricciuolo roso e tarlato, pieno di versi misteriosi, di abbreviature piú misteriose ancora, e di immagini di dannati e di diavoleria, non avea messo nessunissima voglia. Io invece, che l'avea sentito lodare e citare a Portogruaro ed a Padova piú o meno a sproposito, mi parve trovare un gran tesoro; e cominciai ad aguzzarvi entro i denti, e per la prima volta giunsi fino al canto di Francesca che il diletto era minore d'assai della fatica. Ma in quel punto cominciai ad innamorarmene. Piantai i piedi al muro, lo lessi fino alla fine; lo rilessi godendo di ciò che capiva allora e prima mi era parso non intelligibile. Insomma finii con venerare in Dante una specie di nume domestico; e giurava tanto in suo nome, che perfino quei due versi citati poco fa mi sembravano articoli del credo. Notate che allora non s'impazziva ancora pel Trecento; e che né il Monti aveva scritto la Bassvilliana, né le Visioni del Varano piacevano se non agli eruditi. Voi già vi beffate di me; ma vi siete accorti che questa religione dantesca, creata da me solo, giovinetto non filologo, non erudito, io me la reco a non piccola gloria. E avrete anco ragione. Ed io me ne glorio di piú ancora, giacché piú che i versi, piú che la poesia, amava l'anima e il cuore di Dante. Quanto alle sue passioni, erano grandi forti intellettuali e mi piacevano in ragione di queste qualità, fatte omai tanto rare. Tuttociò s'appicca poco a proposito col proverbio: lontano dagli occhi, lontano dal cuore; ma a Dante è piaciuto applicar quel proverbio alla fedeltà delle donne, ed io ho tirato in campo lui, ed i miei studi scervellati di sessant'anni fa, come le memorie mi venivano. Pur troppo in chi racconta la propria vita s'hanno a compatire sovente di cotali digressioni. Io poi per tirar innanzi ho proprio bisogno della vostra generosità, o amici lettori; ma su questo particolare delle mie glorie letterarie dovete usarmi indulgenza doppia, perché le meno e le rimeno, come si dice, appunto perché ne conosco la pochezza. I nostri grandi autori li ho piuttosto indovinati che compresi, piuttosto amati che studiati; e se ve la devo dire, la maggior parte mi alligavano i denti. Sicuro che il difetto sarà stato mio; ma pur mi lusingo che pel futuro anche chi scrive si ricorderà di esser solito a parlare, e che lo scopo del parlare è appunto quello di farsi intendere. Farsi intendere da molti, o non è forse meglio che farsi intendere da pochi? In Francia si stampano si vendono e si leggono piú libri non per altro che per la universalità della lingua e la chiarezza del discorso. Da noi abbiamo due o tre vocabolari, e i dotti hanno costumi di appigliarsi al piú disusato. Quanto poi alla logica la adoperano come un trampolo a spiccare continui salti d'ottava e di decima. Quelli che son soliti a salire gradino per gradino restano indietro le mezze miglia, e perduto che hanno di vista la guida siedono comodamente ad aspettarne un'altra che forse non verrà mai. Animo dunque: non dico male di nessuno: ma scrivendo, pensate che molti vi abbiano a leggere. E cosí allora si vedrà la nostra letteratura porger maggior aiuto che non abbia dato finora al rinnovamento nazionale. E la lettera della Pisana dove l'ho lasciata? - Fidatevi: sono un girellone ma dàlli dàlli alle lunghe ci torno. La lettera della Pisana l'ho ancora qui insieme alle altre nel cantero piú profondo del mio scrittoio: e se ne avessi voglia potrei farvi assaggiare qualche fioretto di lingua d'un gusto molto bizzarro; ma vi basterà sapere che la mi dava notizia della Clara sempre novizia in convento e un po' anche di Lucilio, il quale faceva parlar molto di sé a Venezia col suo fanatismo pei Francesi. Se costoro davano volta gli si pronosticava una brutta fine. Ma di dar volta non se la sognavano nemmeno, quegli invasati Francesi d'allora! La guerra contro di loro s'era impiccolita: soltanto l'Austria e il Piemonte duravano in campo; e cosí ridotta essi la sostenevano con miglior animo e con maggiori speranze di prima. Peraltro non accaddero grandi novità fino all'inverno e allora, chi le ebbe se le tenne; quello che doveva inventar la guerra d'ogni mese non aveva ancor fatto capolino dalle Alpi, e le nevi intimarono il solito armistizio. Quell'inverno fu il piú lungo e il piú tranquillo che passassi in mia vita. Le cure del mio uffizio mi tenevano occupato assiduamente. Fuori di quelle il pensiero della Pisana mi martellava sempre; ma la sua lontananza se aggiungeva melanconia toglieva anche acerbità al mio cordoglio. Sempre poi trovava qualche ristoro nell'idea di aver fatto il mio dovere. Giulio Del Ponte mi scrisse un paio di volte; lettere balzane e sibilline, vere lettere d'un innamorato ad un amico. Dalle quali comprendeva benissimo ch'egli non era felice pienamente; anzi che quella sua mezza felicità dell'ultimo anno s'era venuta a Venezia assottigliando di molto, sia pel bizzarro umore della Pisana, sia pel crescere dei desiderii. Quelle lettere pertanto mi angustiavano per lui, e per me quasi mi rallegravano. Da una parte capiva che se fossi stato a Venezia anch'io, non ci avrei forse goduto maggior felicità che a Fratta, e dall'altra, credete voi che le contentezze d'un rivale, per quanto degno ed amico, ci diano in fondo un gusto proprio sincero? - Non vedendo i patimenti di Giulio cosí davvicino, io era piú disposto a perdonarli a chi glieli infliggeva; non voglio darmi per un santo; la cosa era proprio tal quale ve la confesso. Del resto nella nostra solitudine nulla s'era cambiato. Il Contino sempre nella sua stanza; la Contessa che chiedeva denari con ogni corriere e la vecchia nonna sempre confitta nel suo letto e affidata alla sorveglianza della signora Veronica e della Faustina. Intorno al camino erano rimasti il Capitano e monsignor Orlando che litigavano ogni sera per accomodare il foco. Ciascuno volea brandire l'attizzatoio, ciascuno voleva disporlo a proprio modo, e finivano col bruciar la coda al vecchio Marocco che si ricoverava malcontento sotto il secchiaio. Ad ogni gazzetta vecchia che ci capitasse, il Capitano trionfava di vedere quei maledetti Francesi arenati fra gli Appennini e le Alpi. Non piú quattro, ma sei, ed otto anni di tempo avrebbe lor dato per passarle. - Intanto - diceva egli - si può far venire sul Mincio tutta armata la Schiavonia, e mi saprebbero essi dire come andrebbe il giuoco! Marchetto Fulgenzio e la cuoca, che soli formavano l'uditorio, non avevano certo la pretesa di smantellare i bei castelli in aria del Capitano; e il Cappellano, quando c'era, lo aiutava a fabbricarli colla sua credula ignoranza. Io poi dimenava il capo, e non mi ricordo bene cosa ne pensassi. Certo le opinioni del Capitano non dovevano entrarmi gran fatto appunto perché erano sue. Sul piú bello giunse un giorno la notizia che un generale giovine e affatto nuovo dovea capitanare l'esercito francese dell'Alpi, un certo Napoleone Bonaparte. - Napoleone! che razza di nome è? - chiese il Cappellano - certo costui sarà un qualche scismatico. - Sarà un di quei nomi che vennero di moda da poco a Parigi - rispose il Capitano. - Di quei nomi che somigliano a quelli del signor Antonio Provedoni, come per esempio Bruto, Alcibiade, Milziade, Cimone; tutti nomi di dannati che manderanno spero in tanta malora coloro che li portano. - Bonaparte! Bonaparte! - mormorava monsignor Orlando. - Sembrerebbe quasi un cognome dei nostri! - Eh! c'intendiamo! Mascherate, mascherate, tutte mascherate! - soggiunse il Capitano. - Avranno fatto per imbonir noi a buttar avanti quel cognome; oppure quei gran generaloni si vergognano di dover fare una sí trista figura e hanno preso un nome finto, un nome che nessuno conosce perché la mala voce sia per lui. È cosí! è cosí certamente. È una scappatoia della vergogna!... Napoleone Bonaparte!... Ci si sente entro l'artifizio soltanto a pronunciarlo, perché già niente è piú difficile d'immaginar un nome ed un cognome che suonino naturali. Per esempio avessero detto Giorgio Sandracca, ovverosia Giacomo Andreini, o Carlo Altoviti, tutti nomi facili e di forma consueta: non signori, sono incappati in quel Napoleone Bonaparte che fa proprio vedere la frode! Si decise adunque al castello di Fratta che il generale Bonaparte era un essere immaginario, una copertina di qualche vecchio capitano che non voleva disonorarsi in guerre disperate di vittoria, un nome vano immaginato dal Direttorio a lusinga delle orecchie italiane. Ma due mesi dopo quell'essere immaginario, dopo vinte quattro battaglie, e costretto a chieder pace il re di Sardegna, entrava in Milano applaudito festeggiato da quelli che il Botta chiama utopisti italiani. In giugno, stretta Mantova d'assedio, aveva già in sua mano la sorte di tutta Italia; dappertutto era un supplicar di alleanze, un chieder di tregue; Venezia ancor deliberante quando era tempo d'aver già fatto, s'appigliò per l'ultima volta alla neutralità disarmata. Il general francese se ne prevalse a sua commodità. Scorrazzò invase taglieggiò provincie, città, castelli. Ruppe due eserciti di Wurmser e d'Alvinzi sul Garda sul Brenta sull'Adige; un terzo di Provera presso a Mantova e nel febbraio del '97 la fortezza si arrende. A Fratta si dubitava ancora; ma a Venezia tremavano davvero; quasi quasi s'aveva udito a San Marco il tuonar dei cannoni; non era piú tempo da ciarle. Pur seguitavano a sperare e a credere che come eran vissuti, cosí sarebbero scampati per sorte, per accidente, secondo la celebre espressione del doge Renier. La Contessa peraltro in mezzo a quei subbugli non si vedeva tranquilla; neppur le pareva buon partito di rifugiarsi in terraferma quando tutti ne partivano per ricoverarsi a Venezia. I Frumier vi erano già tornati con gran rammarico della eletta società di Portogruaro; la Contessa adunque scrisse a suo figlio che avrebbe adoperato ottimamente di recarsi egli pure presso di lei, giacché un uomo in famiglia era una gran malleveria; e gli raccomandava di portar seco quanto piú danaro poteva per ogni emergenza. Il conte Rinaldo giunse a Venezia quando appunto la guerra napoleonica romoreggiava alle porte del Friuli e persuadeva al capitano Sandracca che il giovine general còrso non era né un essere ipotetico né un nome romanzesco inventato dal Direttorio. Il Capitano tanto piú temette reale e presente il generale di Francia quanto piú lo avea schernito lontano e imaginario. Tutto ad un tratto si sparge la nuova che l'arciduca Carlo scende al Tagliamento con un nuovo esercito, che i Francesi gli vengono addosso, che sarà un massacro un saccheggio una rovina universale. Le case rimanevano abbandonate, i castelli si asserragliavano contro le soperchierie degli sbandati e dei disertori; si sotterravano i tesori delle chiese; i preti si vestivano da contadini o fuggivano nelle lagune. Già da Brescia da Verona da Bergamo le crudeltà, gli stupri, le violenze si scrivevano si lamentavano si esageravano; l'odio e lo spavento s'alternavano nell'ugual misura, ma il secondo invigliacchiva il primo. Tutti fuggivano senza ritegno senza pudore senza provvidenza di sé o della famiglia. Il Capitano e la signora Veronica scapparono credo a Lugugnana dove si nascosero presso un pescatore in un isolotto della laguna. Monsignore non andò piú in là di Portogruaro perché il digiuno lo spaventava piú ancora di Bonaparte. Fulgenzio e i suoi figliuoli erano scomparsi; Marchetto essendo malato s'era fatto trasportare all'ospitale. Ebbi un bel dire e un bel che fare a trattener la Faustina che non la mi lasciasse solo colla vecchia Contessa; mi restavano poi l'ortolano e il castaldo, che non avendo forse nulla da perdere non s'affrettavano tanto a mettersi in salvo. Ma cosí non poteva stare; tanto piú che i birbaccioni dei dintorni assicurati dal comune spavento imbaldanzivano, e mettevano a ruba or questo or quello dei luoghi piú appartati e mal difesi. D'altronde non era sicuro né dell'ortolano né del castaldo né meno che meno della Faustina; e cosí risolsi prima che il pericolo stringesse maggiormente di far una corsa a Portogruaro a chiedervi soccorso. Sperava che il Vice-capitano mi avrebbe concesso una dozzina di quegli Schiavoni che capitavano tutti i giorni, avviati a Venezia, e che monsignor Orlando mi avrebbe procurato una donna, un'infermiera da porre al letto di sua madre. Misi dunque la sella al cavallo di Marchetto, che poltriva nella scuderia da una settimana, e via di galoppo a Portogruaro. Le notizie, signori miei, non avevano a quel tempo né vapori né telegrafi da far il giro del mondo in un batter d'occhio. A Fratta poi esse giungevano sull'asino del mugnaio, o nella bisaccia del cursore; laonde non fu meraviglia se appena lontano tre miglia dal castello trovassi della gran novità. A Portogruaro era a dir poco un parapiglia del diavolo; sfaccendati che gridavano; contadini a frotte che minacciavano; preti che persuadevano; birri che scantonavano, e in mezzo a tutto, al luogo del solito stendardo, un famoso albero della libertà, il primo ch'io m'abbia veduto, e che non mi fece anche un grande effetto in quei momenti e in quel sito. Tuttavia era giovine, era stato a Padova, era fuggito alle arti del padre Pendola, non adorava per nulla l'Inquisizione di Stato e quel vociare a piena gola come pareva e piaceva, mi parve di botto un bel progresso. - Mi persuadetti quasi che i soliti fannulloni fossero divenuti uomini d'Atene e di Sparta, e cercava nella folla taluno che al crocchio del Senatore soleva levar a cielo le legislazioni di Licurgo e di Dracone. Non ne vidi uno che l'era uno. Tutti quei gridatori erano gente nuova, usciti non si sapeva dove; gente a cui il giorno prima si avrebbe litigato il diritto di ragionare e allora imponevano legge con quattro sberrettate e quattro salti intorno a un palo di legno. Balzava da terra se non armata certo arrogante e presuntuosa una nuova potenza; lo spavento e la dappocaggine dei caduti faceva la sua forza; era il trionfo del Dio ignoto, il baccanale dei liberti che senza saperlo si sentivano uomini. Che avessero la virtù di diventar tali io non lo so; ma la coscienza di poterlo di doverlo essere era già qualche cosa. Io pure dall'alto del mio cavalluccio mi diedi a strepitare con quanto fiato aveva in corpo; e certo fui giudicato un caporione del tumulto, perché tosto mi si radunò intorno una calca scamiciata e frenetica che teneva bordone alle mie grida, e mi accompagnava come in processione. Tanto può in certi momenti un cavallo. Lo confesso che quell'aura di popolarità mi scompigliò il cervello, e ci presi un gusto matto a vedermi seguito e festeggiato da tante persone, nessuna delle quali conosceva me, come io non conosceva loro. Lo ripeto, il mio cavallo ci ebbe un gran merito, e fors'anco il bell'abito turchino di cui era vestito; la gente, checché se ne dica, va pazza delle splendide livree, e a tutti quegli uomini sbracciati e cenciosi parve d'aver guadagnato un terno al lotto col trovar un caporione cosí bene in arnese, e per giunta anco a cavallo. Fra quel contadiname riottoso che guardava di sbieco l'albero della libertà, e pareva disposto ad accoglier male i suoi coltivatori, v'avea taluno della giurisdizione di Fratta che mi conosceva per la mia imparzialità, e pel mio amore della giustizia. Costoro credettero certo che io m'intromettessi ad accomodar tutto per lo meglio, e si misero a gridare: - Gli è il nostro Cancelliere! - Gli è il signor Carlino! - Viva il nostro Cancelliere! - Viva il signor Carlino! La folla dei veri turbolenti cui non pareva vero di accomunarsi in un uguale entusiasmo con quella gentaglia sospettosa e quasi nimica, trovò di suo grado se non il cancelliere almeno il signor Carlino; ed eccoli allora a gridar tutti insieme: - Viva il signor Carlino! - Largo al signor Carlino! - Parli il signor Carlino! Quanto al ringraziarli di quegli ossequi e all'andar innanzi io me la cavava ottimamente; ma in punto a parlare, affé che non avrei saputo cosa dire: fortuna che il gran fracasso me ne dispensava. Ma vi fu lo sciagurato che cominciò a zittire, a intimar silenzio; e pregare che si fermassero ad ascoltar me, che dall'alto del mio ronzino, e inspirato dal mio bell'abito prometteva di esser per narrar loro delle bellissime cose. Infatti si fermano i primi; i secondi non possono andar innanzi; gli ultimi domandano cos'è stato. - È il signor Carlino che vuol parlare! Silenzio! Fermi! Attenti!... - Parli il signor Carlino! - Oramai il cavallo era assediato da una folla silenziosa, irrequieta, e sitibonda di mie parole. Io sentiva lo spirito di Demostene che mi tirava la lingua; apersi le labbra... - Ps, ps!... Zitti! Egli parla! - Pel primo esperimento non fui molto felice; rinchiusi le labbra senza aver detto nulla. - Avete sentito?... Cosa ha detto? - Ha detto che si taccia! - Silenzio dunque!... Viva il signor Carlino! Rassicurato da sí benigno compatimento apersi ancora la bocca e questa volta parlai davvero. - Cittadini - (era la parola prediletta di Amilcare) - cittadini, cosa chiedete voi? L'interrogazione era superba piú del bisogno: io distruggeva d'un soffio Doge, Senato, Maggior Consiglio, Podesteria e Inquisizione; mi metteva di sbalzo al posto della Provvidenza, un gradino di piú in su d'ogni umana autorità. Il castello di Fratta e la cancelleria non li discerneva piú da quel vertice sublime; diventava una specie di dittatore, un Washington a cavallo fra un tafferuglio di pedoni senza cervello. - Cosa chiediamo? - Cosa ha detto? - Ha domandato cosa si vuole! - Vogliamo la libertà!... Viva la libertà!... - Pane, pane!... Polenta, polenta! - gridavano i contadini. Questa gridata del pane e della polenta finí di mettere un pieno accordo fra villani di campagna e mestieranti di città. Il Leone e San Marco ci perdettero le ultime speranze. - Pane! pane! Libertà!... Polenta!... La corda ai mercanti! Si aprano i granai!... Zitto! zitto!... Il signor Carlino parla!... Silenzio!... Era vero che un turbine d'eloquenza mi si levava pel capo e che ad ogni costo voleva parlare anch'io giacché erano tanto ben disposti ad ascoltarmi. - Cittadini - ripresi con voce altisonante - cittadini, il pane della libertà è il piú salubre di tutti; ognuno ha diritto d'averlo perché cosa resta mai l'uomo senza pane e senza libertà?... Dico io, senza pane e senza libertà cos'è mai l'uomo? Questa domanda la ripeteva a me stesso perché davvero era imbrogliato a rispondervi; ma la necessità mi trascinava; un silenzio piú profondo, un'attenzione piú generale mi comandava di far presto; nella fretta non cercai tanto pel sottile, e volli trovare una metafora che facesse colpo. - L'uomo - continuai - resta come un cane rabbioso, come un cane senza padrone! - Viva! viva! - Benissimo! - Polenta, polenta! - Siamo rabbiosi come cani! Viva il signor Carlino!... - Il signor Carlino parla bene! - Il signor Carlino sa tutto, vede tutto! Il signor Carlino non avrebbe saputo chiarir bene come un uomo senza libertà, cioè con un padrone almeno, somigliasse ad un cane che non ha padrone e che ha per conseguenza la maggior libertà possibile; ma quello non era il momento da perdersi in sofisticherie. - Cittadini - ripresi - voi volete la libertà: per conseguenza l'avrete. Quanto al pane e alla polenta io non posso darvene: se l'avessi vi inviterei tutti a pranzo ben volentieri. Ma c'è la Provvidenza che pensa a tutto: raccomandiamoci a lei! Un mormorio lungo e diverso, che dinotava qualche disparità di pareri, accolse questa mia proposta. Poi successe un tumulto di voci, di gridate, di minacce e di proposte che dissentivano alquanto dalle mie. - Ai granai, ai granai! - Eleggiamo un podestà! - Si corra al campanile! - Si chiami fuori monsignor Vescovo! - No no! Dal Vice-capitano! - Si metta in berlina il Vice-capitano! Vinse l'impeto di coloro che volevano ricorrere a Monsignore; ed io sempre col mio cavallo fui spinto e tirato fin dinanzi all'Episcopio. - Parli il signor Carlino! Fuori Monsignore! Fuori monsignor Vescovo! Si vede che la mia parlata, senza ottenere un effetto decisivo sottomettendoli in tutto e per tutto ai decreti della Provvidenza, li aveva almeno persuasi a confidare nel suo legittimo rappresentante. Ma nell'Episcopio intanto non si stava molto tranquilli. Preti, canonici e curiali ognuno dava il suo parere, e nessuno avea trovato quello che facesse veramente all'uopo. Il padre Pendola che vacillava da un pezzo sul suo trono credette opportuno il momento per saldarvisi meglio. Deliberato di tentare il gran colpo, egli tese una mano al di dentro in segno di fidanza. Indi aperse coraggiosamente la vetriera, e uscito sul poggiuolo, sporse mezza la persona dal davanzale. Una salva di urli e di fischiate salutò la sua comparsa: lo vidi balbettar qualche parola, impallidire e ritirarsi a precipizio quando le mani della folla si chinarono a terra per cercar qualche ciottolo. Monsignore di Sant'Andrea giubilò sinceramente di quello smacco toccato all'ottimo padre; e con lui tutti dal primo all'ultimo fecero eco nel fondo del cuore agli urli e alle fischiate della folla. Il Vescovo, ch'era un sant'uomo, guardò pietosamente il suo segretario, ma gli era da un pezzo che aveva in animo di congedarlo appunto perché era un santo, e se non lo ringraziò dell'opera sua lí sui due piedi, anche questo fu effetto di santità. Egli si volse con faccia serena a monsignor di Sant'Andrea, pregandolo a volersi far interprete dei desiderii di quel popolo che tumultuava. Io guardava sempre al solito poggiuolo, e vidi comparirvi alla fine la figura sinodale del canonico; nessun fischio, nessun urlo alla sua comparsa; un bisbiglio di zitti, zitti, un mormorio di approvazione e nulla piú. - Fratelli - cominciò egli - monsignor Vescovo vi domanda per mio mezzo quali desiderii vi menano a romoreggiare sotto le sue finestre!... Successe un silenzio di sbalordimento, perché nessuno e neppur io sapeva meglio degli altri il perché fossimo venuti. Ma alfine una voce proruppe: - Vogliamo vedere monsignor Vescovo! - e allora seguí una nuova tempesta di grida: - Fuori monsignor Vescovo!... vogliamo monsignor Vescovo! Il canonico si ritirò, e già fervevano intorno a Monsignore due diversi partiti circa la convenienza o meno ch'egli si esponesse agli atti turbolenti di quell'assembramento. Egli il Vescovo s'appigliò al piú coraggioso; si fece strada con dolce violenza fra i renitenti, e seguito da chi approvava si presentò sul poggiuolo. Il suo volto calmo e sereno, la dignità di cui era vestito, la santità che traluceva da tutto il suo aspetto commosse la folla, e mutò quasi in vergogna i suoi sentimenti di odio e di sfrenatezza. Quando fu sedato il tumulto promosso dalla sua presenza, egli volse al basso uno sguardo tranquillo ma severo, poi con voce quasi di paterno rimprovero domandò: - Figliuoli miei, cosa volete dal padre vostro spirituale? Un silenzio, come quello che aveva accolto le parole del canonico, seguí a una tale dimanda: ma il pentimento soverchiava lo stupore, e già qualcheduno piegava le ginocchia, altri levavano le braccia in segno di preghiera, quando una voce unanime scoppiò da mille bocche che parvero una sola. - La benedizione, la benedizione!... Tutti s'inginocchiarono, io chinai il capo sulla criniera arruffata del mio ronzino, e la benedizione domandata scese sopra di noi. Allora, prima anche che il Vescovo potesse soggiungere, come voleva, qualche parola di pace, la folla dié volta urlando che si doveva andare dal Vice-capitano, e colla folla io e il mio cavallo fummo trascinati dinanzi alla Podesteria. Quattro Schiavoni che sedevano alla porta si precipitarono nell'atrio chiudendo e sbarrando le imposte; indi, dopo molte chiamate e molte consultazioni, il signor Vice-capitano si decise a presentarsi sulla loggia. La turba non aveva né schioppi né pistole, e il degno magistrato ebbe cuore di fidarsi: - Cos'è questa novità, figliuoli miei?... - cominciò con voce tremolante. - Oggi è giorno di lavoro, ognuno di voi ha famiglia, come l'ho anch'io; si dovrebbe attendere ciascuno ai proprii doveri, e invece... Un evviva alla libertà dei pazzi indemoniati soffocò a questo punto la voce dell'arringatore. - La libertà ve la siete presa, mi pare - continuò con un piglio di vera umiltà. - Godetevela, figliuoli miei; in queste cose io non ci posso entrare... - Via gli Schiavoni!... Alla corda gli Schiavoni! - sorsero urlando parecchi. - I Francesi! viva i Francesi! vogliamo la libertà! - risposero altri. Questi signori Francesi mi vennero allora in mente per la prima volta in quel subbuglio; e misero qualche chiarezza nelle mie idee. In pari tempo mi ricordai di Fratta e del perché fossi venuto a Portogruaro; ma quel signor Vice-capitano non mi pareva in cosí buone acque da poter pensare a soccorrere gli altri oltreché se stesso. Egli mostrava una grandissima voglia di ritirarsi dalla loggia, e ci volevano le continue gridate della folla per fare ch'ei rimanesse. - Ma signori miei - balbettava egli - non so qual utile io rechi a me ed a voi collo starmene qui sulla pergola in esposizione!... Io non sono che un ufficiale, uno strumento cieco dell'Eccellentissimo signor Luogotenente; dipendo affatto da lui... - Non, no!... Deve dipendere da noi! - Non abbiamo piú padroni! - Viva la libertà! - Abbasso il Luogotenente... - Badino bene, signori! loro non sono autorità costituite, loro non hanno legittimi magistrati... - Bene!... Ci costituiremo! Nominiamo un avogadore. Ai voti ai voti l'avogadore. Ella ubbidirà al nostro avogadore!... - Ma per carità - si opponeva disperatamente il Vice-capitano - questa è vera ribellione. Eleggere l'avogadore va benissimo, ma diano prima il tempo di scriverne all'Eccellentissimo Luogotenente che ne passi parola al Serenissimo Collegio... - Morte al Collegio! - Vogliamo l'avogadore! Fermi! fermi! Pena la vita al Vice-capitano, se osa muoversi! - Ai voti l'avogadore! Ai voti! La confusione cresceva sempre e con essa lo schiamazzo; e da questo e da quello si bisbigliavano dieci nomi per la votazione; ma non v'è merito degli assenti che vinca l'autorità dei presenti. Un villano anche questa volta si pose a gridare: - Nominiamo il signor Carlino! - E tutti dietro lui a strepitare: - Ecco l'Avogadore del popolo! Viva il signor Carlino! Abbasso il Vice-capitano!... In verità, io non m'era avventurato in quel rimescolio con mire tanto ambiziose; ma poiché mi vidi tanto in alto, non mi bastò il cuore di scendere; rimane poi sempre in dubbio se lo avrei potuto. Cominciarono a stringermisi intorno, a sollevare quasi sulle spalle la pancia del cavallo, a sventolarmi il viso con moccichini sudici, con cappelli e con berrette, a battermi le mani come ad un attore che abbia ben rappresentato la propria parte. Il Vice-capitano mi guardava dalla loggia come un can grosso alla catena guarderebbe il botoletto sguinzagliato; ma ogni volta ch'egli facesse atto di ritirarsi, subito mille facce da galera gli si voltavano contro minacciando di appiccar fuoco al Capitanato s'egli non obbediva al nuovo avogadore. - Sissignori, si ritirino loro, mandino di sopra il signor Avogadore... e ce la intenderemo fra noi... La folla tumultuava senza sapere il perché, e già molti dei curiosi se l'erano cavata, e alcuni fra i contadini stanchi di quella commedia avevano ripreso il cammino verso casa. Per me io non sapeva in qual mondo mi fossi, perché mi avessero nominato avogadore, e qual costrutto dovesse avere l'abboccamento cui m'invitava il Vice-capitano. Ma mi piaceva quell'esser diventato uomo di rilievo, e tutto sacrificai alla speranza della gloria. - Apra, apra le porte!... Lasci entrar l'Avogadore! - gridava la folla. - Signori miei - rispose il Capitano - ho moglie e figliuoli, e non ho voglia di farli morire dallo spavento... Aprirò le porte quando loro si sieno allontanati... Veggono che non ho tutto il torto... Patti chiari e amicizia lunga!... La gente non ci sentiva di allontanarsi, ed io, tra perché ero stanco di stare a cavallo, tra perché mi tardava l'ora di trattar da paro a paro con un Vice-capitano, mi accinsi a persuadernela. - Cittadini - presi a dire - vi ringrazio; vi sarò grato eternamente! Sono commosso ed onorato da tanti contrassegni d'affetto e di stima. Tuttavia il signor Vice-capitano non ha torto. Bisogna dimostrargli confidenza perch'egli si fidi di noi... Sparpagliatevi, state tranquilli... Aspettatemi in piazza... Intanto io difenderò le vostre ragioni... - Viva l'Avogadore!... Bene! benissimo!... in piazza, in piazza!... Vogliamo che si apra il granaio della Podesteria!... Vogliamo la cassa del dazio macina!... Quello è il sangue dei poveri!... - Sí, state tranquilli... fidatevi di me!... giustizia sarà fatta... ma nel frattempo restate in piazza tranquilli ad aspettarmi... - In piazza, in piazza!... Viva il signor Carlino! viva l'Avogadore!... Abbasso San Marco!... Viva la libertà! In tali grida la folla rovinò tumultuosa verso la piazza a saccheggiare qualche botteguccia di panettiere e d'erbivendola; ma il chiasso era maggiore della fame e non ci furono guai. Alcuni de' piú diffidenti rimasero per vedere se il Vice-capitano atteneva le sue promesse; io scavalcai con tutto il piacere, consegnai il ronzino ad uno di loro, e attesi alla porta che mi aprissero. Infatti, con ogni accorgimento di prudenza un caporale di Schiavoni aperse una fessura, ed io vi entrai di sbieco; e poi si rimisero le sbarre e i catenacci come proprio se volessero tenermi prigione. Quel fracasso di serramenti e di chiavistelli mi diede un qualche sospetto, ma poi mi ricordai di essere un personaggio importante, un avogadore, e salii le scale a testa ritta e col braccio inarcato sul fianco, come appunto se avessi in tasca tutto il mio popolo pronto a difendermi. Il Capitano rientrato premurosamente dalla loggia mi aspettava in una sala fra una combriccola di scrivani e di sbirri che non mi andò a sangue per nulla. Egli non aveva piú quella cera umile e compiacente mostrata alla turba un cinque minuti prima. La fronte arcigna, il labbro arrovesciato, e il piglio sbrigativo del Vice-capitano non ricordavano per nulla il pallore verdognolo, gli sguardi errabondi, e il gesto tremante della vittima. Mi venne incontro baldanzosamente chiedendomi: - Di grazia, qual è il suo nome? Io lo ringraziai fra me di avermi sollevato dalla pena di interrogar il primo, giacché proprio non avrei saputo a qual chiodo appiccarmi. Cosí, stuzzicato nel mio amor proprio alzai la cresta come un galletto. - Mi chiamo Carlo Altoviti, gentiluomo di Torcello, cancelliere di Fratta, e da poco in qua avogadore degli uomini di Portogruaro. - Avogadore, avogadore! - borbottò il Vice-capitano. - È lei che lo dice; ma spero che non vorrà torre sul serio lo scherzo d'una folla ubbriaca: sarebbe troppo rischio per lei. Quella masnada di sgherri assentí del capo alle parole del principale; io sentii una scalmana venirmi su pel capo, e poco mancò che non dessi fuori in qualche enormezza per dar loro a divedere quanto poco mi calesse di tali minacce. Un alto sentimento della mia dignità mi trattenne dallo scoppiare, e risposi al Vice-capitano che certamente io non era degno del grande onore impartitomi, ma che non intendeva scadere di piú mostrandomi piú dappoco che non fossi infatti. Or dunque vedesse lui quali concessioni fosse disposto a fare perché il popolo mio cliente s'avvantaggiasse della libertà nuovamente acquistata. - Che concessioni, che libertà? io non ne so nulla! - rispose il Vice-capitano. - Da Venezia non son venuti ordini; e la libertà è tanto antica nella Serenissima Repubblica da non esservi nessun bisogno che il popolo di Portogruaro l'inventi oggi stesso. - Piano, piano, con questa libertà della Serenissima! - replicai io già addestrato a simili dispute pel mio noviziato padovano. - Se lei per libertà intende il libero arbitrio dei tre Inquisitori di Stato son pronto a darle ragione; essi possono fare alto e basso come loro aggrada. Ma in quanto agli altri sudditi dell'Eccellentissima Signoria le domando umilmente in qual lunario ha ella scoperto che si possano chiamar liberi? - L'Inquisizione di Stato è una magistratura provata ottima da secoli - soggiunse il Vice-capitano con una vocina malsicura nella quale l'antica venerazione si contemperava colla peritanza attuale. - Fu trovata ottima pei secoli andati - soggiunsi io. - Quanto al presente siamo di diverso parere. Il popolo la trova pessima, e giovandosi del suo diritto di sovranità la libera per sempre dall'incomodo di servirla. - Signor... signor Carlino, mi pare - riprese il Vice-capitano - le faccio osservare che questa sovranità nessuno l'ha ancora data al popolo di Portogruaro, e che questo popolo nulla ha fatto per conquistarla. Io sono ancora l'officiale della Serenissima Signoria, e non posso certo permettere... - Eh via! - lo interruppi io - cosa non hanno permesso gli officiali della Serenissima a Verona a Brescia a Padova e dappertutto dove hanno voluto entrare i Francesi! - Fuoco di paglia, signor mio! - sclamò imprudentemente il Vice-capitano. - Si finge alle volte di concedere per riprender meglio poi. So da buona fonte che il nobile Ottolin tien pronti trentamila armati nelle valli bergamasche, e mi sapranno dire se il ritorno dei signori Francesi somiglierà all'andata. - Insomma, signor mio - ripigliai - qui non si tratta di sapere cosa avverrà domani: si tratta di esaudire o no le inchieste d'un popolo libero. Si tratta di rendergli quello che gli fu estorto con quel tirannico dazio delle macine, piú di aprire a suo profitto quei granai dell'erario che ormai sono diventati inutili perché i Schiavoni possono tornar a casa quando loro aggrada. Un mormorio di scontento corse per le bocche di tutti, ma il Capitano che era dilicato d'orecchio e udiva ingrossar di fuori un nuovo tumulto fu piú moderato degli altri. - Io sono il Vice-capitano delle milizie e delle carceri - mi rispose egli. - Questi (e m'additava un omaccio grosso e bernoccoluto) questi è il Cassiere dei dazi; quest'altro (un figuro lungo e magro come la fame) è il Conservatore dei pubblici granai. Investiti dalla Signoria delle nostre cariche, noi non possiamo certamente riconoscere in lei un legittimo magistrato né obbedire al piacer suo senza un rescritto della Signoria stessa. - Corpo e sangue! - io gridai. - Son dunque avogadore per nulla? Quella gente si guardò in viso allibita per tanta baldanza; laonde io piú impegnato che mai a sostener la mia parte uscii affatto dai gangheri. - Io, signori, ho promesso di tutelare gli interessi del popolo e li tutelerò. Piú devo tornare a Fratta prima di sera, e prima di sera voglio dar ordine a tutte queste faccende. Mi hanno capito, signori? Altrimenti io ricorro al popolo e lascio fare a lui. - Ho capito - rispose con maggior tenacità ch'io non m'aspettassi il Vice-capitano. - Ma senza un ordine della Signoria io non riconoscerò altri superiori che l'Eccellentissimo Luogotenente. E quanto al popolo esso non vorrà far il matto finché noi terremo lei per ostaggio in nostra compagnia. - Come, io tenuto per ostaggio?... Un avogadore!... - Lei non è avogadore per nulla! Sono io il Vice-capitano. - Grazie! vedremo anche questa. - La vedremo di sicuro: ma non la consiglio ad aver fretta. Già ne sappiamo alquanto sul conto suo e come ella tratta con poco rispetto i fidatissimi dell'Inquisizione. - Ah ne sanno alquante!... Me l'immagino! Il loro fidatissimo appena tornato a Fratta lo farò impiccare!... Sappiamo anche questa! - Olà! d'ordine dell'Eccellentissima Signoria questa persona è arrestata come rea di lesa maestà! A questa tirata affatto tragica del Vice-capitano la sua masnada mi si schierò intorno, come per impedirmi di fuggire; ma lo domando adesso per allora, qual uopo si aveva di questa precauzione se tutte le porte erano serrate? Se fossi stato Pompeo mi avrei messo il lembo della toga sul capo, invece incrociai le braccia sul petto e diedi a quella ciurma vigliacca il sublime spettacolo d'un avogadore senza popolo e senza paura. Quel quadro plastico non durava da un minuto, che uno scalpito di cavalli, un accorrere e un urlare di popolo nella sopposta contrada attrasse l'attenzione dei miei carcerieri. Tutti si precipitavano alle finestre quando s'intesero piú distinte le grida di quel nuovo tumulto. - I Francesi! I Francesi! Viva la libertà!... Largo ai Francesi! Rimasero come tante statue del convito di Medusa, chi qua chi là per la stanza. Io solo fui d'un salto alla finestra, e vidi giunto alla porta del Capitaniato un drappello di cavalleggieri colle loro lance, e intorno ad essi un tramestio, una confusione di pazzi, di curiosi, di fanatici che parevano disposti a fracassarsi la testa l'uno contro l'altro per le diverse passioni che li agitavano. - Vivano i Francesi!... Largo ai signori Francesi! Non c'era dubbio; quei cavalleggieri erano francesi, e si misero a picchiare colle loro lance nella porta del Capitaniato, urlando e bestemmiando con tutte le peste e i sacrebleu del loro vocabolario. Io gridai dall'alto che si sarebbe aperto sul momento; e le mie parole furono accolte da un raddoppio di grida e d'entusiasmo nella folla. - Bravo il signor Avogadore!... Avanti il signor Avogadore! Commosso da tanta bontà io m'inchinai e corsi poi dentro per fare che si aprisse. Ma dentro nessuno mi udiva, tutti fuggivano all'impazzata qua e là per le stanze; alcuni si rimpiattavano negli armadi vuoti dell'archivio; altri cercavano le chiavi delle carceri per mescolarsi ai prigionieri; gli Schiavoni di scolta se l'erano data a gambe per la porticciuola del vicolo, e dovetti scendere io stesso per togliere le sbarre alla porta. Si salvi chi può; appena socchiuse le imposte si precipitò nell'atrio col cavallo e colla lancia un dannato sergente che per poco non m'infilzò da banda a banda; e dietro a lui tutti quegli altri spiritati benché davanti alle soglie ci fosse una gradinata di sette scalini: e poi nell'atrio volteggiavano di gran trotto alla rinfusa quasi per infilar la scala e salir Dio sa dove. Il Vice-capitano e i suoi satelliti udendo sotto i piedi quel baccano che facea tremar le muraglie si raccomandavano alla beata Vergine del Terremoto. Io poi cercava farmi intendere dal sergente e persuaderlo a scender da cavallo se intendeva salir le scale come pareva sua idea. Il sergente con grande mia meraviglia mi rispose in buon italiano che cercava del Sopraintendente ai granai, che cercava del Vice-capitano, e che se costoro non gli comparivano tosto dinanzi li avrebbe fatti impiccare all'albero della libertà. Un evviva frenetico alla libertà sancí da parte del popolo questa sentenza; l'atrio era già invaso dalla turba e fra i cavalli dei Francesi e il gridare dei cittadini succedette un bell'inferno. Finalmente il sergente, vedendo di non poter salire le scale a cavallo e che il Vice-capitano non si dava alcuna premura di scendere, balzò da cavallo, e mi disse che lo accompagnassi presso quei signori magistrati. Al veder me avviato del pari coll'officiale francese, un'altra gridata scrollò il Capitaniato dalle fondamenta. - Viva il signor Avogadore! Saliti che fummo io ed il sergente, dopo molte indagini ci venne fatto di stanare il Cassiere della camera dei dazi, il Sopraintendente ai granai ed il Vice-capitano, i quali si erano stretti a mucchio come tre serpenti in un canto della soffitta. Ma ebbimo un bel che fare a salvarli dall'unghie del popolo che ci aveva seguito; e solamente colla mia autorità spalleggiata da qualche bestemmia del sergente giunsi ad imporre un po' di silenzio. Il sergente allora si fece a domandare coi modi piú burberi che una sovvenzione di cinquemila ducati gli fosse fatta a titolo di viaria, e che i granai rimanessero aperti in servizio della libertà e dell'esercito francese. Il popolo colse anche questo pretesto per gridar un evviva alla libertà. I tre magistrati tremavano di conserva che parevano tre arboscelli investiti dal zefiro; ma il Cassiere ebbe fiato di rispondere che non avevano ordini, che se si fosse usata la forza... - Che forza o non forza! - gli gridò minacciosamente il sergente. - Il generale Bonaparte ha vinto ier mattina una battaglia al Tagliamento; noi abbiamo sparso il nostro sangue in difesa della libertà e un popolo libero ci negherà adesso un qualche ristoro? I cinquemila ducati devono essere sborsati prima di un'ora, e il resto della cassa il Generale comanda che lo si metta a disposizione del popolo. Quanto ai granai, fornito che ne sia il campo a Dignano, si lascino aperti alle famiglie piú bisognose. Ecco i benefici intendimenti dei repubblicani francesi! - Vivano i Francesi! Abbasso i San Marchini! Viva la libertà! - gridava la turba infuriando nelle sale dell'ufficio, fracassando mobili e gettando carte e scaffali fuori dalle finestre. Gli altri di fuori strepitavano con peggiori urli per la rabbia di non poter fare altrettanto. Allora mi fu meraviglioso il vedere che la paura cosí pressante e vicina non avesse liberato i tre magistrati dal vecchio e doveroso spavento dell'Inquisizione di Stato. Tutti e tre concepirono l'ugual idea, ma il Vice-capitano fu il primo che si arrischiò di esporla. - Signore - balbettò esso - signor ufficiale pregiatissimo, il popolo, come lei dice, è libero; noi... noi non c'entriamo per nulla... I granai e la cassa si sa dove sono. Qui (e accennava a me), qui c'è appunto l'illustrissimo signor Avogadore creato appunto stamane per servizio del Comune, faccia il piacere di rivolgersi a lui. Quanto a noi... noi abdicheremo nelle mani... nelle mani... Non sapeva nelle mani di chi abdicare, ma una nuova vociata della turba lo sollevò dal peso di quella dichiarazione. - Viva la libertà! Vivano i Francesi!... Viva il signor Avogadore!... Il sergente volse le spalle a quei tre disgraziati, mi prese a braccetto e mi condusse giù per le scale. E mentre parte della folla restava a trastullarsi coi suoi vecchi magistrati imponendo loro la coccarda e facendoli gridare viva questo e viva quello, un altro codazzo di popolo seguí il drappello dei Francesi che accerchiando la mia importantissima persona si avviava all'ufficio della cassa. Lungo la via notai al sergente ch'io non aveva le chiavi, ma egli mi rispose con un sorrisetto di compassione, e cacciò gli sproni nel ventre al cavallo per far piú presto. Le porte furono sfondate da due zappatori; il sergente penetrò nella cassa, chiuse le somme ritrovatevi nella sua valigia, dichiarò che non v'aveano se non quattromila ducati, e riprese il cammino verso i granai lasciando anche là la rabbia popolare sfogarsi nei mobili e nelle carte. Sotto i granai trovammo già pronta una lunga fila di carri, parte soldateschi, parte requisiti dalle cascine dei dintorni, e scortati da buona mano di cacciatori provenzali. Mediante l'opera di costoro gli orzi i frumenti le farine furono insaccate e caricate in brevissimo spazio di tempo; al popolo fu concesso lo spolverio delle farine che usciva dalle finestre, e nullameno esso gridava sempre: - Vivano i Francesi! Abbasso San Marco!... Viva la libertà... Approntato il convoglio, il capitano che lo dirigeva ed avea raccolto i riferimenti del sergente, mi chiamò solennemente a sé onorandomi ad ogni due parole dei titoli di cittadino e di avogadore. Mi proclamò benemerito della libertà, salvatore della patria, e figliuolo adottivo del popolo francese. Indi i carri presero la via in buona regola verso San Vito, i cavalleggieri scomparvero colla valigia in un nembo di polvere, ed io mi rimasi allibito sorpreso scornato fra un popolo poco contento e meno ancora satollo. Tuttavia gridavano ancora: - Viva i Francesi! Viva la libertà! - solamente si erano dimenticati del loro avogadore, e questo mi procurò il vantaggio di potermela svignare appena cominciò ad imbrunire. Il ronzino non aveva tempo di rintracciarlo e poi non mi bastava il cuore di cimentarmi sovr'esso a qualche nuovo trionfo; capii che miglior prudenza era rimaner a piedi. A piedi dunque, e col rammarico di aver perduto in superbe frascherie tutta quella giornata, ripresi per sentieri e per traghetti il cammino di Fratta. Molte considerazioni politiche e filosofiche sull'instabilità della gloria umana, e del favor popolare, e sulle bizzarre usanze dei paladini della libertà mi distoglievano la mente dalla paura che qualche disgrazia fosse successa nel frattempo al castello. Peraltro le cascine deserte per le quali ebbi a passare e le tracce di disordine e di saccheggio che osservai in esse mi davano qualche pensiero e fecero sí che affrettassi il passo involontariamente, e che mano a mano che m'avvicinava a casa mi pentissi sempre piú di aver trascurato per tante ore la faccenda piú importante per la quale mi era mosso. Pur troppo i miei timori erano fondati. - A Fratta trovai letteralmente quello che si dice la casa del diavolo. Le case del villaggio abbandonate; frantumi di botti di carri di masserizie ammonticchiati qua e là; rimasugli di fuochi ancora fumanti; sulla piazza le tracce della piú gran gazzarra del mondo. Carnami mezzo crudi, mezzo arrostiti; vino versato a pozzanghere; sacchi di farina rovesciati, avanzi di stoviglie di piatti di bicchieri: e in mezzo a questo il bestiame sciolto dalle stalle che pascolava e nel chiaroscuro della notte imminente dava a quella scena l'apparenza d'una visione fantastica. Io mi precipitai nel castello gridando a perdifiato: - Giacomo! Lorenzo! Faustina! - ma la mia voce si perdeva nei cortili deserti, e solo di sotto all'atrio mi rispose il nitrir d'un cavallo. Era il ronzino di Marchetto, che sbrigliatosi nel parapiglia di Portogruaro era tornato a casa, piú fedele e piú coraggioso il povero animale di tutti quegli altri animali che si vantavano forniti di cervello e di cuore. Un dubbio crudele mi squarciò l'anima riguardo alla vecchia Contessa, e passai di volo i cortili e i corritoi a rischio anche di fiaccarmi il collo contro qualche colonna. Là dentro, perché la luna non potea penetrare, non mi caddero sott'occhio i segni della tregenda, ma ne fiutava passando il puzzo stomachevole. Inciampando nelle imposte scassinate, nelle mobilie fracassate, salii mezzo carpone le scale, nella sala fui quasi per ismarrirmi tanta era la confusione delle cose che la ingombravano; lo spavento mi rischiarava, giunsi alla camera della vecchia e mi vi precipitai entro in un buio terribile gridando da forsennato. Mi rispose dalla profonda oscurità un suono spaventevole come d'un respiro affannato insieme e minaccioso: il bramito della fiera, il gemito di un fanciullo armonizzavano in quel rantolo cupo e continuo. - Signora, signora! - sclamai coi capelli irti sul capo. - Son io! Sono Carlino! Risponda! Allora udii il romore d'un corpo che a stento si sollevava, e gli occhi mi si sbarravano fuori delle orbite per pur discernere qualche cosa in quel mistero di tenebre. Avanzarmi per toccare, retrocedere in cerca di lume erano partiti che non mi passavano neppur pel capo tanto la terribilità di quell'incertezza mi rendeva attonito ed inerte. - Ascolta; - cominciò allora una voce la quale a stento io riconobbi per quella della Contessa vecchia - ascolta, Carlino: giacché non ho prete voglio confessarmi a te. Sappi... dunque... sappi che la mia volontà non ha mai consentito a male alcuno... che ho fatto tutto, tutto il bene che ho potuto... che ho amato i miei figliuoli, le mie nipoti, i miei parenti... che ho beneficato il prossimo... che ho sperato in Dio... Ed ora ho cent'anni; cent'anni, Carlino! cosa mi serve aver vissuto un secolo?... Ora ho cent'anni, Carlino, e muoio nella solitudine, nel dolore, nella disperazione!... Io tremai tutto da capo a fondo; e sviscerando coll'occhio della pietà tutti i misteri di quell'anima ravvivata soltanto per sentire il terror della morte: - Signora - gridai - signora, non crede ella in Dio?... - Gli ho creduto finora - mi rispose con voce che s'andava spegnendo. E indovinai da quelle parole un sorriso senza speranza. Allora non udendola piú moversi né respirare avanzai fino alla sponda del letto, e toccai rabbrividendo un braccio già aggranchito dalla morte. Fu un momento che mi parve di vederla; mi parve di vederla, benché le tenebre si affoltassero sempre piú in quella stanza funeraria, e sentii le punte avvelenate de' suoi ultimi sguardi figgermisi in cuore senza misericordia, e quasi mi sembrò che l'anima sua abbandonando l'antico compagno mi soffiasse in volto una maledizione. Maledetta questa vita lusinghiera e fugace che ci mena a diporto per golfi ameni e incantevoli e ci avventa poi naufraghi disperati contro uno scoglio!... Maledetta l'aria che ci accarezza giovani adulti e decrepiti per soffocarci moribondi!... Maledetta la famiglia che ci vezzeggia, che ne circonda lieti e felici, e si sparpaglia qua e là e ci abbandona negli istanti supremi e nella solitudine della disperazione! Maledetta la pace che finisce coll'angoscia, la fede che si volge in bestemmia, la carità che raccoglie l'ingratitudine! Maledetto... La mia mente in questi tetri delirii vacillava fra il furore e la stupidità; quella vita santa e centenaria troncata a quel modo negli spasimi dello spavento mi travolgeva la ragione, e stetti lunga pezza con quel braccio gelato tra mano che non avrei saputo dire se fossi vivo o morto. Finalmente mi riscossi vedendo farsi luce nella stanza, e vidi essere il Cappellano che si maravigliò non poco di trovarmi in quel luogo. Lo Spaccafumo gli veniva dietro recando una candela. In tutt'altro momento la scompostezza delle loro figure, il pallore del viso, l'infossamento degli occhi, il sanguinar delle carni mi avrebbe messo raccapriccio; allora invece non vi badai nemmeno. Il prete s'accostò senza parole al letto della vecchia, e sollevato l'altro suo braccio lo lasciò ricadere. - Cani di Francesi! - mormorò egli. - Ecco ch'ella è morta senza i conforti della religione!... E sí, io non ne ho colpa, mio Dio?... Ciò dicendo egli si guardava la persona tutta pesta e lacerata pei mali trattamenti dei soldati, dei quali avea sfidato la collera col voler rimanere al letto dell'inferma. Lo avevano trascinato fuori di là sbeffeggiandolo e percotendolo, ma egli avea ronzato sempre intorno al castello e tornava allora non appena i saccheggiatori si erano dileguati. Quanto allo Spaccafumo, egli indovinava cento miglia lontano le disgrazie del Cappellano e non mancava mai di accorrere in buon punto; l'era proprio una seconda vista aguzzata dalla gratitudine e dall'amicizia. Io, né potei forse allora né volli poi amareggiare il dolore del buon prete raccontandogli la morte della signora. Tacqui dunque e m'inginocchiai con esso loro a recitare le litanie dei morti; nell'animo mio piú per conforto ai vivi che per suffragio alla defunta. Indi ricomponemmo il cadavere in un'attitudine cristiana; ma l'idea impressa dalla morte su quelle sembianze sformate contrastava spaventosamente colle mani giunte in croce in atto di preghiera. Io che volgeva nell'anima il segreto di quel contrasto mi allontanai poco dopo, lasciando il prete ed il suo compagno recitare con devoto fervore le orazioni dei defunti. Vagai a lungo per la campagna come uno spettro; indi tornato in paese seppi da qualche fuggiasco la storia terribile di quella scorreria soldatesca che dopo aver insozzato tutto il territorio s'era rovesciato col furore dell'ubbriachezza sul castello di Fratta. I vitùperi che una masnada di sicari doveva aver commesso su quella povera vecchia che sola era rimasta ad affrontarli, non voleva immaginarmeli. Ma quel poco che ne avea veduto il Cappellano, lo stato miserevole del cadavere, il disordine della stanza attestavano degli scherni spietati ch'ella aveva sofferto. Confesso che il mio entusiasmo pei Francesi si rallentò d'assai; ma poi a ripensarvi mi parve impossible che premeditatamente si lasciassero commettere tali mostruosità, e divisando che le dovevano imputarsi al talento bestiale di alcuni soldati, decisi di trarne giustizia. La fama dipingeva il general Bonaparte come un vero repubblicano, il difensore della libertà; mi cacciai in capo di ricorrere a lui, e due giorni dopo, quando il corpo della Contessa fu deposto coi soliti onori nella tomba gentilizia, mi misi in viaggio per Udine ove aveva allora sua stanza lo Stato Maggiore dell'esercito francese. Dai dati raccolti avea potuto argomentare che i colpevoli appartenessero all'ugual battaglione di bersaglieri che scortava il convoglio dei grani partito quel giorno stesso da Portogruaro: perciò non disperava che verrebbe fatto di rintracciarli e di punirli ad esemplare castigo. La virtù antica del giovine liberatore d'Italia era caparra, secondo me, di pronta giustizia. Ad Udine trovai la solita confusione. Gli ospiti che comandavano, i padroni che ubbidivano. Le autorità veneziane senza forza senza dignità senza consiglio; il popolo e i signori del paese spartiti in diverse opinioni le une piú strane e fallaci delle altre. Ma moltissimi che giorni prima aveano gridato evviva agli usseri d'Ungheria e ai dragoni di Boemia, plaudivano allora ai sanculotti di Parigi. Questo era il frutto della nullaggine politica di tanti secoli: non si credeva piú di essere al mondo che per guardare; spettatori e non attori. Gli attori si fanno pagare, e chi sta in poltrona è giusto che compensi quelli che si movono per lui... Il generale in capite Napoleone Buonaparte (cosí lo chiamavano allora) dimorava in casa Florio. Chiesi di abboccarmi con essolui affermando di aver a fare gravissime comunicazioni sopra cose avvenute nella provincia, e siccome egli mestava in fin d'allora nel torbido coi malcontenti veneziani, cosí mi venne concessa un'udienza. Questo perché non lo seppi che in appresso. Il Generale era nelle mani del suo cameriere che gli radeva la barba; allora non disdegnava di farsi vedere uomo, anzi ostentava una certa semplicità catoniana, cosicché al primo aspetto rimasi confortato d'assai. Era magro sparuto irrequieto; lunghi capelli stesi gli ingombravano la fronte, le tempie e la nuca fin giù oltre al collare del vestito. Somigliava appunto a quel bel ritratto che ce ne ha lasciato l'Appiani, e che si osserva alla villa Melzi a Bellagio: dono del Primo Console Presidente al Vicepresidente, superba lusinga del lupo all'agnello. Solamente a quel tempo era piú sfilato ancora tantoché gli si avrebbero dati pochi anni di vita, ed anzi una tal sembianza di gracilità aggiungeva l'aureola del martire alla gloria del liberatore. Egli sacrificava la sua vita al bene dei popoli; chi non si sarebbe sacrificato per lui? - Cosa volete, cittadino? - mi diss'egli ricisamente, fregandosi le labbra col pizzo dello sciugatoio. - Cittadino generale - risposi con un inchino lievissimo per non offendere la sua repubblicana modestia - le cose di cui vengo a parlarvi sono della massima importanza e della maggior delicatezza. - Parlate pure - egli soggiunse accennando il cameriere che continuava l'opera sua. - Mercier non ne sa d'italiano piú che il mio cavallo. - Allora - ripresi - mi spiegherò con tutta l'ingenuità d'un uomo che si affida alla giustizia di chi combatte appunto per la giustizia e per la libertà. Un orrendo delitto fu commesso tre giorni sono al castello di Fratta da alcuni bersaglieri francesi. Mentre il grosso della loro schiera saccheggiava arbitrariamente i pubblici granai e l'erario di Portogruaro, alcuni sbandati invasero una onorevole casa signorile, e svillaneggiarono e straziarono tanto una vecchia signora inferma piú che centenaria rimasta sola in quella casa, che ella ne morí di disperazione e di crepacuore. - Ecco come la Serenissima Signoria inacerbisce i miei soldati! - gridò il Generale balzando in piedi, poiché il cameriere avea finito di sciacquargli il mento. - Si predica al popolo che sono assassini, che sono eretici: al loro comparire tutti fuggono, tutti abbandonano le case. Come volete che simili accoglienze predispongano gli animi all'umanità e alla moderazione?... Ve lo dico io; bisognerà che mi volga indietro a pulirmi la strada da questi insetti molesti. - Cittadino generale, capisco anch'io che la fama bugiarda può aver impedito la cordialità dei primi accoglimenti; ma vi è una maniera di smentir questa fama, mi pare, e se con un esempio luminoso di giustizia... - E sí, parlatemi proprio di giustizia, oggi che siamo alla vigilia d'una battaglia campale sull'Isonzo!... La giustizia bisognava che fosse fatta a noi fin da due o tre anni fa!... Adesso raccolgono quello che hanno mietuto. Ma ho il conforto di vedere che il peggior danno non vien loro da' miei soldati... Bergamo Brescia e Crema hanno già divorziato da San Marco, e quella stupida e frodolenta oligarchia s'accorgerà finalmente che i loro veri nemici non sono i Francesi. L'ora della libertà è suonata; bisogna levarsi in piedi e combattere per essa, o lasciarsi schiacciare. La Repubblica francese porge la mano a tutti i popoli perché si rifacciano liberi, nel pieno esercizio dei loro diritti innati e imprescrivibili. La libertà val bene qualche sacrifizio! Bisogna rassegnarsi. - Ma, cittadino generale, io non parlo di rifiutarmi a nessun utile sacrifizio per la causa della libertà. Soltanto mi sembra che il martirio d'una vecchia contessa... - Ve lo ripeto, cittadino; chi ha esacerbato l'animo de' miei soldati? chi ha volto contro di essi il talento dei preti di campagna e dei contadini?... È stato il Senato, è stata l'Inquisizione di Venezia. Non dubitate che giustizia sarà fatta sopra i veri colpevoli... - Pure, mi parrebbe che un esempio per ovviare a simili disordini nel futuro... - L'esempio, cittadino, i miei bersaglieri lo daranno sul campo di battaglia. Non dubitate. Giustizia sarà fatta anche sopr'essi; già non pretendereste che li ammazzassi tutti!... Or bene; saranno nella prima fila; laveranno col loro sangue e a pro' della libertà l'onta della colpa commessa. Cosí il male sarà volto in bene, e la causa del popolo si sarà avvantaggiata degli stessi delitti che la deturparono! - Cittadino generale, vi prego di osservare... - Basta, cittadino: ho osservato tutto. Il bene della Repubblica innanzi ad ogni cosa. Volete essere un eroe?... Dimenticate ogni privato puntiglio e unitevi a noi, unitevi con quegli uomini integri e leali che fanno anche nel vostro paese una guerra lunga ostinata sotterranea ai privilegi dell'imbecillità e della podagra. Di qui a quindici giorni mi rivedrete. Allora la pace la gloria la libertà universale avranno cancellato la memoria di questi eccessi momentanei. In queste parole il gran Napoleone aveva finito di vestirsi, e si mosse verso la camera vicina ove lo attendevano alcuni officiali superiori. Vedendo ch'egli né era molto contento della mia visita, né pareva disposto a badarmi oltre, io m'avviai mogio mogio giù per la scala riandando il tenore di tutto quel colloquio. Non ci capii per verità molto addentro; ma pure que' suoi gran paroloni di popolo e di libertà, e quel suo piglio riciso ed austero m'avevano annebbiato l'intelletto, e mi partii, a conti fatti, che l'odio contro i patrizi veneziani superava d'assai perfino il risentimento contro i bersaglieri francesi. La tremenda disgrazia della Contessa mi parve una goccia d'acqua in confronto al mare di beatitudine che ci sarebbe venuto addosso pel valido patrocinio dell'esercito repubblicano. Quel cittadino Bonaparte mi pareva un po' aspro un po' sordo un po' anche senza cuore, ma lo scusai pensando che il suo mestiere lo voleva pel momento cosí. E a questo modo lasciai a poco a poco darsi pace la morta, e tornai col pensiero ai vivi: cosicché nella lettera che scrissi a Venezia per partecipare il triste caso alla famiglia, ne affibbiai forse piú la colpa all'improvvidenza delle venete magistrature, e alla sciocca paura del popolo, che alla barbara sfrenatezza degli invasori. Il Cappellano fu molto meravigliato di vedermi tornar a Fratta colle mani piene di mosche, e tuttavia piú calmo e contento di quando n'era partito. Monsignore e il Capitano che s'erano raccovacciati in castello udirono con terrore il racconto del mio colloquio col general Bonaparte. - L'avete proprio veduto? - mi chiese il Capitano. - Capperi se l'ho veduto! si faceva anzi la barba. - Ah! si rade anche la barba? io invece avrei creduto che la portasse lunga. - A proposito - saltò su Monsignore - dopo la morte della mamma (un lungo sospiro) non mi son piú raso né il mento né la chierica. Faustina, dico, (anche costei era tornata) mettete su la cocoma dell'acqua!... Cosí sentiva i proprii dolori e le pubbliche miserie monsignor Orlando di Fratta. Son io a dirlo che le bestie si mostrarono le piú sensibili fra tutti gli abitanti del castello in quella congiuntura: non eccettuato me medesimo cui un tardo e vano pentimento non varrà certo a purgare dall'odiosa smemorataggine di quella tremenda giornata. Non contando il ronzino di Marchetto che lasciò il tafferuglio per tornarsene a casa come doveva far io, ci fu il cane del Capitano, il vecchio Marocco, che sdegnò di accompagnarsi al padrone nella sua fuga verso Lugugnana. Ed egli rimase vagante pel deserto castello, fiutando qua e là come in cerca d'un'anima migliore della sua; ma non gli venne fatto di trovarla: e un francesino scapestrato si divertí a forarlo parte a parte colla baionetta nel bel mezzo del cortile. Reduce a casa, quella frotta di vigliacchi restò tanto attonita e confusa, che non sentirono neppur il puzzo di quella carogna che appestava l'aria da tre giorni. Toccò accorgermene a me tornato che fui da Udine; e allora diedi ordine a un contadino perché fosse gettata in qualche fogna. Ma il contadino, uscito per questa pia opera, mi chiamò indi a poco acciocché contemplassi anch'io una cosa meravigliosa. Sul cadavere già verminoso di Marocco aveva preso stanza il gattone soriano, suo compagno di tanti anni, e non c'era verso di poternelo snidare. Carezze minacce e strappate non valsero, tantoché me ne impietosii, e presi anche in qualche venerazione quel povero morto che avea saputo destare in un gatto una sí profonda amicizia. Lo feci staccare a forza, e comandai che Marocco fosse seppellito là dove aveva ricevuto il funesto premio della sua fedeltà. Il contadino gli affondò per tre braccia la buca e poi gli buttò sopra la terra e credette di aver fornito la bisogna. Ma per mesi e mesi continui bisognò ogni mattino rimettere quella terra al suo posto perché il gatto fedele occupava le sue notti a rasparla fuori per riposare ancora sugli avanzi dell'amico. Cosa volete? io rispettai il dolore di quella bestia, né mi bastò il cuore di trafugargli quelle spoglie tanto dilette a lui e cosí lungamente incomode all'olfatto dei castellani. Le feci coprire con una pietra. Allora il gatto vi posò sopra giorno e notte lamentandosi continuamente, e girando intorno al sepolcro con un miagolio melanconico. Là visse ancora qualche mese, e poi morí; e lo so di sicuro perché non mancai poscia d'informarmi come fosse finita quella tragica amicizia. Diranno poi che i gatti non hanno la loro porzioncella d'anima! Quanto ai cani la loro fama in proposito è bastevolmente assicurata. Il loro affetto ha posto tra gli affetti familiari; l'ultimo posto certo, ma il piú costante. Il primo che fece festa al ritorno del figliuol prodigo, scommetto io che fu il cane di casa! E quando mi si gracchia intorno sull'inutilità ed il pericolo di questa numerosa famiglia canina che litiga all'umana il nutrimento, e le inocula talvolta una malattia spaventosa e incurabile, io non posso far a meno di sclamare: - Rispettate i cani! - forse adesso si può star in bilico, ma forse anche, e Dio non voglia, verrà un tempo che si giudicheranno migliori affatto di noi! Di questi tempi ne furono altre volte nella storia dell'umanità. Noi bipedi tentenniamo fra l'eroe ed il carnefice, fra l'angelo e Belzebù. Il cane è sempre lo stesso; non cambia mai come la stella polare. Sempre amoroso paziente e devoto fino alla morte. Ne vorreste di piú, voi che non avreste cuore di distruggere neppure una tribù di cannibali?... Intanto io deggio confessare che, quanto a me, la dimora di Fratta non mi pareva piú né cosí tranquilla né cosí degna come un mese prima. I Francesi mi frullavano pel capo; sognava di diventare qualche coso d'importanza; e questa mi sembrava la miglior via per racquistar l'amore della Pisana. Pensava sempre a Venezia, alla caduta di San Marco, al nuovo ordinamento che ne sarebbe sorto, alla libertà, all'uguaglianza dei popoli. Quel tal general Bonaparte di poco era piú attempato di me. Perché non poteva anch'io mutarmi di sbalzo in un vincitore di battaglie, in un salvatore di popoli? L'ambizione mi adescava a braccetto dell'amore: e non sentiva piú quel pietoso rispetto per la dolorosa passione di Giulio Del Ponte. Trascurava le faccende di cancelleria, e il piú del mio tempo lo perdeva a dottrineggiar di politica con Donato, o a lottare di scherma o al tiro al bersaglio con Bruto Provedoni. Bruto era il piú infervorato dei giovani fratelli per la causa della libertà e spesso la Bradamante e l'Aquilina ce ne davano la baia. Esse aveano veduto i Francesi senza concepirne per verità la favorevole opinione che ne avevamo concepita noi, e noi dal canto nostro andavamo in collera quando esse, per divertirci da questo incantesimo, ci tornavano a mente alcune delle nefandità commesse da quei propagatori dell'incivilimento. Soprattutto lo strazio della vecchia Contessa di Fratta non voleva udirlo nominare. Sentiva che avevano ragione, ma non voleva concederlo; e per questo inveleniva a tre doppi. Non so come avrei finito, se le cose andavano per la solita strada; ma la fortuna s'intromise a farla vincere a me coi miei grilli d'ambizione e di superbia. Un bel giorno (eravamo agli ultimi di marzo) mi capita da Venezia una lettera della signora Contessa. Leggo e rileggo la sottoscrizione. Non c'è caso: l'è proprio lei. Mi reca sommo stupore ch'ella mi scriva e piú ancora che la incominci in capo a pagina con un caro nipote. Fui per gettar via la testa dalla maraviglia, ma ebbi il buon senso di tenermela per capire il resto. Figuratevi chi era giunto a Venezia?... Mio padre! nientemeno che mio padre!... Ma doveva crederlo?... Un uomo che si credeva morto, che non si era fatto vedere per venticinque anni! La ragione quasi si rifiutava, ma il cuore avido d'amare diceva di sí, e già egli volava sulla via di Venezia che non era giunto al fine della lettera. Gli è vero che a leggerla tutta credo d'avervi impiegato una mezza giornata, e poi durante il viaggio la riscorreva ogni tanto per paura di aver frainteso e di essermi lusingato indarno. Consegnata la cancelleria a quel buon capo di Fulgenzio, io partii il giorno stesso. Aveva il cuore che non si voleva star cheto; e nel cervello poi mi sobbollivano tante speranze condite di memorie, di passioni, di desiderii, d'impossibile, che non ebbi piú pace. La Contessa mi ammoniva di prepararmi a riprendere nella società il posto concesso ad un rappresentante del patrizio casato degli Altoviti; aggiungeva che mio padre non iscriveva lui perché avea disimparato l'alfabeto italiano, che smontassi intanto presso di lei non piú in casa Frumier ma in casa Perabini in Canarregio, e finiva col mandare al diletto nipote i baci suoi e della cugina Pisana. Mio padre e costei mi stavano sul cuore assai piú della zia. CAPITOLO DECIMOPRIMO Come a Venezia si accorgessero che gli Stati della Serenissima facevano parte dell'Italia e del mondo. Mio ingresso nel Maggior Consiglio come patrizio veneziano al dí primo di maggio 1797. Macchinazioni contro il governo fomentate dagli amici e dai nemici della patria. Cade la Repubblica di San Marco come il gigante di Nabucco, ed io divento segretario della nuova Municipalità. La prima persona che vidi e che abbracciai a Venezia fu la Pisana; la prima che mi parlò fu la signora Contessa la quale dal fondo dell'appartamento correndo verso di me s'affaccendava a gridarmi: - Bravo, il mio Carlino, bravo!... Come ti vedo volentieri!... Su dunque, un bel bacione da vero nipote!... - Io passai di malissima voglia dai baci della Pisana a quelli della Contessa ancor piú gialla e uncinata che per l'addietro. Ma anche in quel tumulto di affetti che mi turbava allora, rimase un buon cantuccio per la meraviglia d'un sí inusato accoglimento. Mi rassegnai a chiarirmene in seguito e intanto la Contessa mandò fuori la Rosa in cerca di mio padre. Questa missione della fida cameriera mi sorprese anche un poco, tanto piú che essa, non piú giovane ma sempre bisbetica com'era stata, vi si disponeva con assai borbottamenti. Tali incarichi appartenevano agli staffieri, e cominciai a dubitare che il seguito della Contessa non fosse molto numeroso. Infatti, stando lí ad aspettare, osservai nelle camere quello che non parrebbe possibile, un grandissimo disordine nella stessa nudità: polvere e ragnatele componevano gli addobbi; qualche mobile, qualche infisso nel muro; poche seggiole sparute e tisicuzze qua e là; insomma la vera miseria abitante in un palazzo. Ma quello che distoglieva la mente da queste melanconie era l'aspetto della Pisana. Piú bella piú fresca piú gioconda io non l'aveva veduta mai; e tale ella sapeva di essere, benché con mille vezzi imparati novellamente a Venezia cercasse di offuscare lo splendor di quei pregi. Ma fosse dono di natura, o cecità mia, perfino gli artifizi prendevano nelle sue fattezze un incanto di leggiadria. Peraltro la ritrovai ancor piú taciturna e meno espansiva del solito; la mi guardava a tratti coll'anima negli occhi, indi chinava gli sguardi arrossendo, e le mie parole sembravano dilettarle voluttuosamente l'orecchio senzaché colla mente arrivasse a comprenderle. A tutto ciò io badava mentre la Contessa zia mi annegava in un subisso di chiacchiere, ed io non ne capiva un iota; soltanto mi ferí spesse volte il nome di mio padre, e mi parve accorgermi ch'ella pure fosse molto lieta del suo inaspettato e miracoloso ritorno. - E non torna mai quella sciocca di Rosa! - borbottava la signora. - Io non ho voluto che ci andassi tu, perché voglio proprio ridonartelo io il tuo papà, ed esser presente alla gioia del vostro riconoscimento. Oh che buon papà che hai, il mio Carlino!... Mi parve che a quelle parole la Pisana arrossasse piú del solito, e fosse turbata dagli sguardi ch'io teneva fermi continuamente in lei. Finalmente tornò la Rosa a dire che il mio signor padre finito un affare in Piazza sarebbe stato da noi, e allora io volli ancora uscire in traccia di lui per anticiparmi la gioia di quel soave momento, ma la Contessa mi sforzò tanto che dovetti rimanere. Un'ora dopo squillò il campanello, e un ometto rubizzo, sciancato d'una gamba, mezzo turco e mezzo cristiano al vestito, entrò saltabeccando nell'anticamera. Io gli era corso incontro fin là; la Contessa, venutami dietro, si pose a gridare: - Carlino, è tuo padre!... abbraccia tuo padre! - Io infatti mi abbandonai fra le braccia del nuovo arrivato versando fra le pieghe della sua zimarra armena le prime lagrime di gioia che spargessi mai. Mio padre non fu verso di me né molto affettuoso né troppo discorsivo; si maravigliò assaissimo che col nome che portava mi fossi nicchiato in un cosí oscuro bugigattolo come era una cancelleria di campagna, e mi promise, che inscritto che io fossi come suo legittimo figliuolo nel Libro d'Oro, avrei fatto la mia gran figura nel Maggior Consiglio. Quell'accorto vecchietto parlava di cotali cose con un certo fare che non si sapeva se fosse da burla o da senno; e ad ogni punto e virgola, quasi per corroborar l'argomento, usava battere col rovescio della mano sul taschino del sottabito da dove rispondevagli un lusinghiero tintinno di zecchini e di doble. Ad ognuno di questi accordi metallici il viso giallognolo della Contessa s'irraggiava d'un roseo riflesso, come il cielo scuriccio d'un temporale all'occhiata di traverso che gli manda il sole. Io poi ascoltava e guardava quasi trasognato. Quel signor padre capitatomi di Turchia, colla ricchezza in una mano, la potenza nell'altra, e una larghissima dose di canzonatura in tutte le sue maniere, mi faceva un effetto maraviglioso. Io non mi stancava di osservare quei suoi occhietti bigi un po' sanguigni un po' loschi, che per tanti anni avevano guardato il sole d'Oriente, e quelle rughe capricciose e profonde formatesi sotto il turbante al lavorio corrosivo di Dio sa quali pensieri, e quei gesti un po' autorevoli un po' marinareschi che armeggiavano sempre per commentare la zoppicante oscurità di un gergo piú arabo che veneziano. Si vedeva un uomo avvezzo alla vita; il che vuol dire che non si fa piú caso di nulla, che crede a poco, che spera meno ancora, e che sacrificatosi per lungo tempo alla speranza d'una futura commodità, trova tutto agiato tutto commodo perché tutto mena all'ugual fine. Cosí i mezzi sono alle volte scuola ed esercizio a disprezzar il fine. In tal modo almeno io giudicai mio padre; e confesso sinceramente che mi misi intorno a lui fin dapprincipio con maggior curiosità che amore. Mi pareva che tali dovessero essere stati que' vecchi mercatanti veneziani della Tana o di Smirne, che a furia di furberia, di chiacchiere e d'attività facevano perdonare o dimenticare dai Tartari la differenza di fede. Turchi a Costantinopoli, cristiani a San Marco, e mercanti dovunque, avevano essi fatto di Venezia la mediatrice dei due mondi d'allora. Perfino una certa barbetta rada grigia e stizzosa accostava la fisonomia di mio padre alla maschera di Pantalone; ma egli veniva tardi sulla scena del mondo. Mi pareva uno di quei personaggi comici ancor travestiti da Persiani o da Mamalucchi che dopo calato il sipario escono ad annunziar la commedia per l'indomani. Tuttociò senza alcun pregiudizio della paterna autorità. Intrattenutici un pochino, con molte interiezioni di cordialità e di maraviglia della signora Contessa, e qualche sospiro represso della Pisana, il signor padre m'invitò ad uscire con essolui: e mi menò infatti a San Zaccaria dove aveva preso alloggio in una bella casa, e addobbatala quasi alla turchesca con tappeti divani e pipe a bizzeffe. Vi si desideravano le tavole, e qualche forziere da riporre le robe, ma vi era per compenso un gran numero di armadi donde si cavava come per incanto ogni cosa che si potesse desiderare. Una mulatta scurissima, di oltre quarant'anni, ammanniva il caffè da mane a sera, e tra lei e il padrone se l'intendevano a cenni e a monosillabi, che era un trastullo a vederli; non credo che parlassero nessuna lingua di questo mondo, e potrebbe darsi che i diavoli favellassero come loro nelle escursioni terrestri. Il signor padre depose il cappello a tre corni, si tirò sulle orecchie un berrettone moresco, accese la pipa, si fece versare il caffè, e volle che sedessi come lui incrocicchiando le gambe sopra un tappeto. Ecco un futuro patrizio del Maggior Consiglio occupato a compitare il galateo di Bagdad. Mi disse che era grato a sua moglie di avergli essa lasciato una sí bella eredità come io era, in compenso forse delle poche delizie procacciategli col matrimonio; mi lasciò travedere che egli chiudeva un occhio sopra alcuni rancidi sospetti che aveano guastato la loro concordia e ricondotto mia madre a Venezia; finí col confessare che io gli somigliava, massime negli occhi e nell'apertura delle narici; tanto bastava per ricongiungerlo d'un affetto immortale al suo figliuolo unigenito. Io lo ringraziai a mia volta di cosí benigni sentimenti a mio riguardo; lo pregai di scusarmi dove trovasse difettiva la mia educazione, per la condizione di orfano nella quale era vissuto; non volli aprirgli gli occhi sulla maniera poco onorevole della protezione accordatami dagli zii alla sua venuta; e col mio modesto contegno m'accaparrai, credo, la sua stima fin da quel primo colloquio. Egli mi osservava colla coda dell'occhio, e quanto sembrava poco attento alle parole, tanto notava in me tutti gli altri segni dai quali per lunga esperienza aveva imparato a conoscere gli uomini. Ebbi dal suo criterio una sentenza piuttosto favorevole. Almeno cosí dovetti inferire dal maggior affetto dimostratomi in seguito. Indi volle ch'io gli narrassi della contessina Clara, come si era fatta monaca; e mi nominò sovente il dottor Lucilio col massimo segno di rispetto, maravigliandosi come la famiglia di Fratta non si tenesse onorata di imparentarsi con essolui. L'ugualità mussulmana temperava in lui l'aristocrazia naturale; almeno lo credetti, e piú mi confermai in questa opinione, quand'egli tirò innanzi beffandosi dell'illustrissimo Partistagno che voleva tener dietro il secolo collo spadone di suo nonno. Io mi stupii di trovar mio padre istruito al pari di me in cotali faccende e che egli ne chiedesse contezza agli altri dove tanta ne aveva lui. Peraltro le cose val meglio saperle da due bocche che da una; ed egli si regolava giusta il sapiente dettato di questo proverbio. Mi parlò poi cosí in via di discorso della Pisana e dei gran corteggiatori che aveva a Venezia, e del suo torto marcio di non appigliarsi al piú ricco per ristorarne la dignità della casa e la fortuna della mamma. "Ahi, ahi!" pensai fra me "ecco l'aristocrazia che rigermoglia!". Giulio Del Ponte, soprattutto, gli pareva, per usar la sua frase, un saltamartino. La Pisana adoperava male a non torselo d'infra i piedi, che l'era un cantastorie pieno di tossi, di miserie e di melanconia. Le belle ragazze devono badare ai bei giovani, e quei mezzi omiciattoli in Levante si mandano a vender bagiggi per le contrade. Io mi scaldava tutto a questi aforismi del signor padre; e quasi sarei stato lí per fargli una confessione generale. Non mi tratteneva piú la compassione per Giulio, ma una certa vergogna di mostrarmi ragazzo e innamorato ad un uomo cosí esperto e ragionatore. Egli continuava a codiarmi, e intanto narrava le dilapidazioni della Contessa, e la ruinosa indifferenza del conte Rinaldo che si perdeva a far lunari nelle biblioteche, mentre la bassetta e il faraone strappavano di mano a sua madre le ultime razzolature del loro scrigno. Mi confessò con maligna compiacenza che la Contessa avea cercato di sentir il peso delle sue doble, ma che non avea potuto vederne neppur il colore; e in questo batteva la mano al taschino sulla solita sonagliera di monete. Tale guardinga taccagneria non mi andò a' versi affatto, e son quasi certo ch'egli se ne avvide. Ma non usò per questo la cortesia di cambiar registro, anzi vi ribadí sopra come un uomo incapato nella propria opinione che il danaro sia la cosa meglio apprezzata ed apprezzabile. Io invece dei pochi ducati che aveva in tasca ne avrei dato la metà al primo accattone che me li chiedesse; e forse la pensava cosí perché ne aveva sempre avuti pochi. La povertà mi fu maestra di generosità; ed i suoi precetti mi giovarono anche quando io non l'ebbi piú per aia e per compagna. Peraltro ebbi campo indi a poco a rilevare che mio padre non era uno spilorcio. Egli mi trasse quel giorno alle migliori botteghe, perché vi provvedessi da raffazzonarmi come il piú compito damerino di San Marco. Indi mi condusse alla mia stanza che aveva una porta libera sulla scala, e mi lasciò colla promessa ch'egli avrebbe fatto di me il secondo capostipite della famiglia Altoviti. - I nostri antenati furono tra i fondatori di Venezia: - mi diss'egli prima di partire - venivano da Aquileia ed erano romani della stirpe Metella. Ora che Venezia tende a rifarsi, bisogna che un Altoviti ci ponga le mani. Lascia fare a me! Il signor padre sbruffava in tali parole tutta la boria proverbiale della povera nobiltà di Torcello; ma le doble levantine s'adoperarono tanto che il mio diritto all'iscrizione nel Libro d'Oro fu riconosciuto immantinente, ed io comparvi per la prima volta come patrizio votante al Maggior Consiglio nella seduta del 2 aprile 1797. Quanto a lui, egli non voleva immischiarsene; pareva non si tenesse degno di porsi in cima al rinnovamento del casato e che stesse contento di fornirmene i mezzi. Quei pochi giorni vissuti signorilmente a Venezia, e per mezzo della Contessa di Fratta e degli eccellentissimi Frumier nelle migliori conversazioni, mi avevano fruttato una fama straordinaria. Non era spiacevole di figura, le mie maniere si stoglievano un poco dalle solite leziosaggini, la coltura non mancava affatto ma non soffocava neppure colle pedanterie quel modesto brio concessomi da natura; piú di tutto poi credo che la voce di dovizioso mi accreditasse come ottimo partito presso tutte le zitelle, o presso le madri che ne avevano. Carlino di qua, Carlino di là, tutti mi chiamavano, tutti mi volevano. Anche qualche sposina non fece la disdegnosa; e insomma io non ebbi che a scegliere fra molte maniere di felicità. Per allora non ne scelsi alcuna, e la novità mi occupò talmente, che perfin la Pisana non mi dava piú da pensare una volta ch'io l'avessi fuori degli occhi. Ella forse se ne stizziva; ma per essere in una fase di superbia non si degnava di mostrarlo, e soltanto si accontentava di sfogar quella stizza contro il povero Giulio. Mi ricorda che a quel tempo lo vidi parecchie volte, e sarei anche tornato ad averne compassione, se le mie occupazioni me ne porgevano il tempo nulla nulla. Il povero giovine stava sempre fra la vita e la morte e dàlli una volta e dàlli due, s'era ridotto a tale che ad ogni mosca che ronzasse intorno alla Pisana sdilinquiva di paura. Intanto le cose d'Italia si stravolgevano sempre piú. Già da piú che sei mesi Modena Bologna e Ferrara aveano dato l'esempio di una servile imitazione di Francia, dietro eccitamento francese: aveano improvvisato, come una bolla di sapone, la Repubblica cispadana. Carlo Emanuele succedeva a Vittorio Amedeo nel regno di Sardegna già occupato e ridotto in provincia militare francese. Tutta Italia s'insudiciava i ginocchi dietro le orme trionfali di Bonaparte ed egli ingannava questi, sbeffeggiava quelli con alleanze con lusinghe con mezzi termini. Gli Stati veneziani di terraferma da lui astutamente stuzzicati si levavano a romore contro lo stendardo del Leone: sorgevano per tutto alberi della libertà; egli solo sapeva con quanta radice. E fu un momento ch'egli dubitò della propria fortuna pel gran nugolo di nemici che aveva dinanzi a combattere, per la grande distanza di provincie non tanto fedeli né pienamente illuse che lo divideva da Francia; ma rifiutatigli i proposti negoziati, buttò via ogni timore e andò fino a Leoben ad imporre all'Austria i preliminari di pace. La Serenissima Signoria aveva veduto passarsi dinanzi quel turbine di guerra, come l'agonizzante che travede nell'annebbiata fantasia lo spettro della morte. Altro non avea fatto che avvilirsi, pazientare, pregare e supplicare, dinanzi al nemico prepotente che la schiacciava oncia ad oncia, disonorandola cogli inganni e col vitupero. Francesco Battaja, Provveditore straordinario in terraferma, fu l'interprete piú degno di cotali vilissimi sensi di servitù; e infamò peggiormente la sua codarda obbedienza coll'inobbedienza e col tradimento piú codardi ancora. Alle umilianti proteste contro l'invasione delle città, l'occupazione dei castelli e delle fortezze, il sollevamento delle popolazioni, lo spoglio delle pubbliche casse, e la devastazione universale. Buonaparte rispondeva con beffarde proposte d'alleanza, con ironici lamenti, e con domande di tributi. Il procuratore Francesco Pesaro e Giambattista Cornes, Savio di terraferma, si erano abboccati con lui a Gorizia per protestare contro la parte presa da officiali francesi nelle rivoluzioni di Brescia e di Bergamo, nonché contro le piraterie degli armatori francesi negli intimi recessi del golfo. Ne ebbero tale risposta che, sulla chiusa del loro rapporto, i due inviati non esitarono ad affermare che soltanto dalla divina assistenza bisognava sperare alla loro negoziazione quell'esito che dalle durissime circostanze non era permesso in alcun modo di attendere. Francesco Pesaro ebbe animo retto e chiara antiveggenza; ma gli mancavano la costanza e l'entusiasmo, come mostrò dappoi; per questo né fu capace di salvar la Repubblica né di imprimere alla sua caduta un suggello di grandezza. I turbolenti intanto romoreggiavano; i paurosi davano ansa al partito, e fu veduto nel Maggior Consiglio lo strano caso che la filosofia e la paura votassero contro la stabilità e il coraggio. Ma la vera filosofia a quei giorni avrebbe dovuto consigliare di cercar la salute nella propria dignità, non di chiederla in ginocchione alla sapienza politica d'un condottiero. Io per me fui degli illusi, e me ne pento e me ne dolgo; ma operava a fin di bene, e d'altra parte l'amicizia di Amilcare ancora prigione, Lucilio intrinseco affatto dell'ambasciatore francese, e mio padre piú di tutti fiducioso nel prossimo rinnovamento di Venezia, mi spingevano per quella via. O terribile insegnamento! Ripudiare, schernire le virtù antiche senza prima essersi ricinti il cuore colle nuove, e implorare la libertà col lievito della servitù già gonfio nell'animo! Vi sono diritti che sol meritati possono chiamarsi tali; la libertà non si domanda ma si vuole: a chi la domanda vilmente è giusto rispondere cogli sputi: e Bonaparte aveva ragione e Venezia torto. Soltanto anche un eroe che ha ragione può esser codardo nei modi di farsela. Il partito democratico, che allora poteva chiamarsi ed era infatti francese, non predominava forse a Venezia per numero; sibbene per gagliardia d'animo, per forza d'azione, e sopratutto per potenza d'aiuti. I contrari non formavano partito; ma un volume inerte di viltà e d'impotenza, che dalla grandezza non riceveva alcun accrescimento di forza. I nervi ubbidiscono all'anima, le braccia all'idea, e dove non vi sono né idee né anima, o intorpidisce il letargo o la vita stultizza. I perrucconi veneziani erano nel primo caso. La Legazione francese non il Senato né il Collegio dei Savi governava allora. Essa sotto l'occhio stesso e a marcio dispetto dell'Inquisizione preparava i fili della trama che dovea precipitare dal trono la sfibrata aristocrazia; e buona parte della gente di lettere e di garbo le dava mano in cotali macchinazioni. I Piombi ed i Pozzi erano vani spauracchi; un monitorio dell'ambasciatore Lallement spalancava ai rei di Stato quelle porte che non si riaprivano di solito che ai condannati del capo o ai cadaveri. Il dottor Lucilio si facea notare per la sua fervorosa devozione alla causa dei Francesi; e forse l'addentellato a questo zelo virile si trovava da lungo tempo disposto nelle misteriose turbolenze della sua gioventù. Si sa già ch'egli era, come allora si diceva, filosofo; e fra i filosofi principalmente si cernevano i caporioni delle società secrete, che serpeggiavano fin d'allora cupe e corrosive sotto la vernice crepolante della vecchia società. Ad ogni modo nel suo apostolato liberalesco ei ci metteva tutto il calore tutta l'accortezza di cui era capace; e i patrizi che lo incontravano in Piazza, tremavano, come i peccatori alla notturna apparizione d'un demonio. Gli è vero che se uno d'essi ammalava, non era restio dal ricorrere a questo demonio, perché trovasse il bandolo di guarirlo. Allora il celebre medico tastava quei polsi, guardava quelle facce con un certo ghigno che lo vendicava dell'odio sofferto. Pareva che dicesse: "Io vi disprezzo tanto che voglio anche guarirvi, e so che mi siete nemici, ma non me ne cale." Le signore dimostravano a Lucilio quel rispetto timido e vergognoso che pare uno stregamento, e suole ad una sola occhiata ad un sol cenno trasformarsi piú che in amore in venerazione e in servitù. Dicevano ch'egli fosse maestro nell'arte di Mesmer e ne contavano miracoli; certo peraltro di quel suo potere egli usava assai parcamente. E non vi fu donna che potesse dire di aver raccolto da' suoi occhi il lampo d'un desiderio. Serbava l'indipendenza la castità il mistero del mago; ed io solo conosceva forse il segreto di tale sua ritenutezza, poiché i costumi d'allora e piú la sua fama di gran medico, di gran filosofo, non consentivano il sospetto d'un amore che lo preoccupasse tutto. Eppur era; e ve lo posso dir io; e quell'amore, allargatosi in un'anima capace come la sua, pigliava oggimai la forza e la grandezza d'una passione irresistibile. Direte voi che egli avea lasciata tranquilla la Clara presso sua madre, che non s'era sbizzarrito nel darle la scalata al balcone, o nel cantarle la serenata dalla gondola, ché l'avea lasciata entrare in convento e che so io. Ma l'amor suo non apparteneva ai comuni: egli non voleva rapire ma ottenere: sicuro della Clara e ch'essa lo avrebbe aspettato un secolo senza piegare e senza disperarsi, egli agognava e maturava con ogni fervore d'opere e di sacrifici il momento quando lo avrebbero pregato di prendersela, tenendosi onorati del suo parentado. L'amore e la religione politica s'erano confusi in un solo sentimento tanto vivace tanto potente tanto ostinato quanto possono esserlo tutte le forze d'un'indole cosí robusta, strette e attortigliate in un solo fascio. Quand'egli si abbatteva nel viso adunco e orgoglioso della Contessa, o nella faccia nebbiosa slavata aristocratica del conte Rinaldo, o in quei visetti mobili graziosi sdolcinati di casa Frumier, egli sorrideva di sottecchi. Sentiva che era prossimo a diventar il padrone lui, e allora avrebbe potuto intimare a quei vanarelli i patti qualunque da lui stimati convenevoli. La loro pieghevole natura e la facilità degli spaventi lo assicuravano dal timore di un'importuna opposizione. Ma la Contessa dal canto suo non si stava colle mani alla cintola; essa conosceva Lucilio piú forse ch'egli non credesse, e le mura d'un monastero le sembravano debole riparo contro la sua temerità. Perciò aveva raccomandato particolarmente la figliuola a una certa madre Redenta Navagero che era la piú gran santa e astuta monaca del convento, perché con altri argomenti le rafforzasse l'anima contro le tentazioni del demonio. Infatti costei ci si mise di gran lena e non dirò che a quel tempo fosse ita molto innanzi, ma avea fatto già uscire del capo alla Clara se non Lucilio certo tutte le altre cose del mondo. Non era poco; molti fili erano tagliati; restava il capo grosso, la gomena maestra, ma scuoti sega e risega, non disperava di recidere anche quello, e di ridurre quella diletta animina al beato isolamento dell'estasi claustrale. La Clara per mezzo d'una servigiale del monastero riceveva qualche notizia di Lucilio; ma ciò succedeva di rado e negli intervalli chiedeva conforto alle reminiscenze e alla devozione. Ma la divozione spostò a poco a poco le reminiscenze, massime quando il confessore e la madre Redenta la ebbero persuasa a non divagare troppo in immagini mondane, e ad abbondare nella preghiera, allora che se ne avea tanto bisogno per gli urgenti pericoli della Repubblica e della religione. Per quelle monache, quasi tutte patrizie, Repubblica di San Marco e religione cristiana formavano un solo impasto; e a udirle parlare delle cose di Francia e dei Francesi sarebbe stato il gusto piú matto del mondo. Nominar Parigi o l'inferno era per esse l'egual cosa; e le piú vecchie tremavano di raccapriccio pensando le orrende cose che avrebbero potuto commettere quei diavoli incarnati una volta entrati in Venezia. Le piú giovani dicevano: - Non bisogna spaventarsi, Iddio ci aiuterà! - E taluna fors'anco che aveva fatto i voti per ubbidienza o per distrazione, sperava di abbisognare quandocchessia di questo soccorso divino. Qui non è il caso di dire che sarebbe stato il soccorso di Pisa; ma ad ogni modo chi non ebbe una decisiva vocazione, non è poi obbligato a cercare e ad adorare la necessità di fingere d'averla avuta. La Clara, piú sincera e meno bigotta, si scandolezzava di queste mezze eresie. Quanto ai Francesi, ella stava colle vecchie, massime dopo l'orrenda tragedia della nonna, che sebbene contata a lei con tutti i debiti riguardi, pure l'aveva fatta piangere lunghi giorni e lunghissime notti. Ella li credeva con tutta buona fede eretici, bestiali, indemoniati; e nelle litanie dei santi, dopo aver pregato il Signore per l'allontanamento di ogni male, lo supplicava mentalmente di liberar Venezia dai Francesi che le sembravano il male piú grosso. Per Venezia infatti se non il piú grosso erano certo il male piú nuovo ed imminente. Le altre disgrazie già incancrenite non davano piú sentore di sé. Quella era la piaga viva e sanguinosa che si dilatava nello Stato, facendone rifluir al cuore gli umori guasti e stagnanti. Ogni giorno recava l'annunzio d'una nuova defezione, d'un nuovo tradimento, di un'altra ribellione. Il Doge si scomponeva il corno sul capo anche nelle grandi cerimonie; i Savi perdevano la testa e commettevano al Nobile di Parigi che comperasse da qualche portiere i segreti del Direttorio. Tentarono anche di giungere al cuore di Bonaparte per una lunga trafila d'amici, di cui il primo capo era un banchiere francese stabilito a Venezia e pagato perciò, credo, alcune migliaia di ducati. Figuratevi che puntelli da sostenere un governo pericolante! - La storia della Repubblica di Venezia si trovò nel caso eguale degli spettacoli comici d'inverno; una tragedia non basta ad occupare le ore troppo lunghe, ci vuole dopo la farsa. E la farsa ci fu, ma non tutta da ridere. Molti giovinastri, non per liberalità d'opinione, ma per ruzzata da bravi, si perdevano a far la satira di que' parrucconi senza cervello; come succede a tutti i grandi diventati piccoli, a tutti i potenti ridotti inetti che s'hanno subito addosso le maledizioni il danno e le beffe. I libelli, i versacci, le cantafere che andarono attorno a quel tempo, servirono lunga pezza dappoi a incartocciar sardelle; ma sembra impossibile il merito che allor si faceva agli autori di quelle sconce e vili parodie. Giulio Del Ponte, letteratuzzo sparvierato, non gli parve vero d'impiegare il proprio ingegno a sí alta usura e si mescolò per bene in tali pettegolezzi. Egli godeva di vedersi segnato a dito; e bisogna anche dire che le sue composizioni si stoglievano dalle solite; e taluna non mancava né di forza né di brio né quasi anche d'opportunità. La Pisana, nel vederlo tanto stimato e temuto, gli concedeva qualcheduna delle sue occhiate d'una volta, e a merito di queste egli sfidava gli atti villani, e perfino i rabbuffi della Contessa. Io poi, anch'io le era andato in uggia alla signora zia pei miei grilli democratici, ma le doble del signor padre me la tenevano buona; e spesso ella lavorava di gomito nelle coste alla figliuola perché mi usasse maggior cortesia. Queste gomitate e il mio svagamento continuo davano la stizza alla Pisana, e la allontanavano col pensiero da me: rimaneva però sempre qualche sguardo fuggitivo, qualche subito rossore, che ad osservarlo come andava osservato, mi avrebbe potuto lusingare. Giulio Del Ponte se ne accorgeva e ne diventava giallo di bile; ma cercava un compenso nella vanità, e correva a' suoi amici che lo incensavano mattina e sera come il Persio e il Giovenale o l'Aristofane del suo tempo. Soltanto il dottor Lucilio, benché simile d'opinioni, gli avea parlato chiaro dimostrandogli il pericolo di infervorarsi a un alto ministero civile non già per salda persuasione e per istudio del pubblico bene, ma per frivolezza e per albagia. - Che ne sapete voi? - gli rispondeva Giulio. - Posso ben avere anch'io come pretendete averla voi la vera virtù del cittadino!... Devo proprio prendere a prestito tutte le idee dall'orgoglio e dall'irrequietudine?... Lucilio squassava il capo vedendo quel cervellino gonfio di boria sfarfallare in tali gradassate; ma forse impietosiva entro sé a tante belle doti già appassite in una persona esile e diroccata. Il dottore ci vedeva a doppio nell'anima e nel corpo. Là in Giulio egli ebbe tantosto indovinato i segni d'una passione, ed erano segni fatali; di piú s'accorgeva che la calma di quella passione non bastava a cancellarli; e perciò guai per lui s'ella risorgesse mai con tutta la sua misera violenza! - Il giovinotto invece non badava a tali paure: omai persuaso di valer qualche cosa, se la Pisana lo disdegnava egli s'arrischiava a punirla con un'ombra d'indifferenza. Poco dopo se ne pentiva, perché la banderuola era pronta a piegar altrove; e raddoppiava allora di premura e di brio per rendersele desiderabile e gradito. E sopratutto in mio confronto egli s'affaccendava a primeggiare, perché nelle maniere usate dalla Pisana verso di me aveva fiutato una vogliuzza non mai sazia, una rimembranza non ancora spenta d'amore. Io non mi rassegnava tanto facilmente a sparir dietro a lui, massime dopo le belle accoglienze ch'era usato a ricevere per tutta Venezia. E a poco a poco ne nacque un astio, una inimicizia scambievole che scoppiò molte volte perfino dinanzi alla Pisana stessa in rimbrotti e in improperi. Giulio cominciò a tacciarmi di aristocratico e di sammarchino; io presi dal canto mio a trascendere nei sentimenti di libertà e d'eguaglianza; la Pisana in tali dispute si scaldava anch'ella, e in breve ella diventò, al pari di noi, la piú sfrenata e incorreggibile libertina. Credo che simili contese, nelle quali tutti andavamo d'accordo e ognuno anzi non faceva che correr innanzi al compagno nei disegni e nelle speranze, non possano rinnovarsi cosí di leggieri. I Francesi erano il tema prediletto de' nostri discorsi; e senza di essi non vedevamo salute. Giulio li cantava in versi, io li invocava in prosa, la Pisana ne sognava fuori tanti paladini della libertà colla fiamma dell'eroismo accesa sulla fronte. E sí, che giorni prima, praticando nel convento di sua sorella, essa era giunta a vincer le monache nel loro odio contro di essi. Un giorno capita la notizia dell'entrata dei Francesi in Verona, creduta fino allora la città piú restía a far novità. I villici armati s'eran dispersi, le truppe raccolte per ridurre Bergamo e Brescia, ritirate a Padova e a Vicenza. Fu una gran baldoria pei fautori di Francia. Alcuni giorni dopo succede lo spavento delle tremende Pasque Veronesi, e con tutte le atrocità sopra i Francesi che le contaminarono. Giungono le furiose proteste di Bonaparte, e l'intimazione di guerra in tutta regola. Senatori, Savi, Consiglieri, e tutti, cominciano a credere che quello che ha durato molto possa anche finire; essi di buon accordo si danno attorno per provvedere di viveri la Serenissima Dominante; quanto alla difesa ci pensano poco, perché a dirla chiara, nessuno ci crede. Finalmente il generale Baraguay d'Hilliers cinge col suo campo l'estuario; le comunicazioni sono intercettate; Donà e Giustinian, inviati al general Bonaparte, svelano le intenzioni di questo che una nuova forma piú libera e piú larga sia introdotta nel Governo della Repubblica. Egli impone di piú che l'Ammiraglio del Porto e gli Inquisitori di Stato siano consegnati nelle sue mani, come colpevoli di atti ostili contro una nave francese che voleva sforzare l'ingresso del porto di Lido. I signori Savi capirono l'avvertimento e si disposero umilmente a servire il generale di barba e di perrucca, come si dice a Venezia. Parve a loro che le deliberazioni del Maggior Consiglio fossero troppo lente alla stretta del bisogno, e improvvisarono una specie di magistratura funeraria, un collegio di becchini per la moribonda Repubblica, il quale si componeva di tutte le cariche componenti la Signoria, dei Savi di Consiglio, dei tre Capi del Consiglio dei Dieci e dei tre Avogadori del Comune; in tutto quarantuna persona, e il Serenissimo Doge a capo, col titolo comodissimo di Conferenza. Intanto si ciarlava per Venezia che sedicimila congiurati coi loro pugnali fossero già appostati in città per rinnovare su tutti i nobili la strage degli innocenti. Figurarsi che conforto per la Conferenza! - Mi ricordo che con modi da furbo io domandai Lucilio di quello ch'egli credesse esservi di vero in quella voce, e che il dottore mi rispose squassando le spalle: - Oh Carlino mio! credete che siano pazzi i Francesi ad assoldare sedicimila congiurati reali, mentre facendoli balenare affatto immaginari si ottiene lo stesso effetto?... Credetemi che in tuttociò non c'è di vero la punta d'un chiodo, eppure sarà come fosse vero, perché questi patrizi non è necessario ammazzarli! Sono già belli e morti! La Conferenza si radunò per la prima volta la sera del trenta aprile nelle camere private del Doge. Questi spifferò un esordio che principiava: "La gravità e l'angustia delle presenti circostanze ", ma le sciocchezze che vi si dissero poi, se designarono bassamente l'angustia, non corrisposero affatto all'accennata gravità delle circostanze. Si tornò a proporre di toccar il cuore del general Bonaparte per mezzo di certo Haller suo amicissimo. E il cavalier Dolfin fu ritrovatore d'un sí decisivo consiglio. Il Procuratore Antonio Cappello, da me conosciuto in casa Frumier, si levò a deriderne la puerilità; e con lui si strinse il Pesaro per far deliberare sulla costanza nella difesa e nulla piú. Infatti le intenzioni dei Francesi non avean oggimai bisogno di esser chiarite, ed era inutile illudersi con vane chimere. Ma i Savi adoperarono in modo che si perdesse il filo di questo discorso; quando sul piú bello giunse al Savio di settimana un piego dell'ammiraglio Tommaso Condulmer, che riferiva l'avanzarsi dei Francesi sulla laguna coll'aiuto di botti galleggianti. La costernazione fu subitanea e quasi generale; alcuni cercavano di cavarsela, altri proponevano si trattasse, o meglio si offrisse, la resa. Fu in quella circostanza che il Serenissimo Doge Lodovico Manin, passeggiando su e giù per la stanza e tirandosi la brachesse sul ventre, pronunciò quelle memorabili parole: "Sta notte no semo sicuri gnanca nel nostro letto ". Il Procurator Cappello mi assicurava che la maggior parte dei consiglieri uguagliava Sua Serenità in altezza d'animo ed in coraggio. Fu deciso a rompicollo che si proporrebbe al Maggior Consiglio la parte, per cui ai due deputati fosse concesso di trattare col Bonaparte sui cambiamenti nella forma del governo. Il Pesaro, indignato di sí vigliacca deliberazione, proruppe colle lagrime agli occhi in parole di compassione sulla rovina della patria, già sicura; e dichiarò di voler partire quella notte stessa da Venezia per ritirarsi fra gli Svizzeri. Il che egli non fece poi, e credo che l'andasse per le poste a Vienna. Davvero che a me non basta l'animo di palliare per un misero orgoglio nazionale la viltà buffonesca di tutte queste scene. Raccolgono esse un grande e severo insegnamento. Siate uomini se volete esser cittadini; credete alla virtù vostra, se ne avete; non all'altrui che vi può mancare, non all'indulgenza o alla giustizia d'un vincitore, che non ha piú freno di paure e di leggi. Il primo maggio colla mia toga e la mia perrucca io entrai nel Maggior Consiglio a braccetto del nobiluomo Agostino Frumier, secondogenito del Senatore. Il primo apparteneva al partito di Pesaro e sdegnava far comunella con noi. Quel giorno il consesso era scarso; appena giungeva al numero di 600 votanti senza il quale, per legge, nessuna deliberazione era valida. I vecchi erano pallidi non di dolore ma di paura, i giovani ostentavano un portamento altero e contento; ma molti sapevano dentro a sé di esser costretti a darsi la zappa sui piedi, e quell'allegria non era sincera. Si lesse il decreto che dava facoltà ai negoziatori di mutare a lor grado la Repubblica, e che prometteva a Bonaparte la liberazione di tutti gli arrestati politici dal primo ingresso delle armate francesi in Italia. In questa ultima clausola io conobbi l'influenza del dottor Lucilio, pensai ad Amilcare, e fui forse il solo che ne gioisse non indecorosamente. Del resto era un capo d'oca a non intendere la vigliaccheria di quella promessa, e a trovarla giusta per un sentimento affatto privato. Il decreto fu approvato con soli sette voti contrari; altri quattordici ne furono di non sinceri, cioè di quelli che né accoglievano né rigettavano la proposta ma ne negavano la presente opportunità. E appena esso fu noto in piazza, subito i favoreggiatori dei Francesi, che vi tulmultuavano, corsero con gran impeto alle carceri. Coi buoni uscirono i galeotti, coi fanatici i tristi, e la favola dei sedicimila congiurati ottenne maggior fede di prima. I patrizi credettero aver dato prova di sommo coraggio col non deliberare sulla consegna richiesta dell'Ammiraglio del Lido e dei tre Inquisitori. Ma ecco che il general Bonaparte torna da capo col dichiarare al Donà e al Giustinian che non li accoglierà come inviati del Maggior Consiglio se prima quei quattro magistrati non siano imprigionati e puniti. L'umilissimo Maggior Consiglio si inchinò un'altra volta, non piú con cinquecento ma con settecento voti: e il Capitano del Porto e i tre Inquisitori furono carcerati quel giorno stesso per lo strano delitto di aver ubbidito meno infedelmente degli altri alle leggi della patria. Francesco Battaja, il traditore, fu tra gli Avogadori di Comune incaricato dell'esecuzione di quel sacrilego decreto. Ma questo non bastava né all'impazienza dei novatori né alla spaventata condiscendenza dei nobili. La solita Conferenza ammanní un altro decreto nel quale veniva ordinato al Condulmer di non resistere colla forza alle operazioni militari dei Francesi, ma soltanto di persuaderli a non entrare nella Serenissima Dominante, finché si avesse il tempo di allontanar gli Schiavoni a scanso di spiacevoli conseguenze... Volevano tosarsi perfino le unghie per non dare in isbaglio qualche graffiatura a chi si apprestava a soffocarli. Se questa non fu mansuetudine meravigliosa anzi unica al mondo, io sfido i pecori ad inventarne una migliore. Mio padre era proprio tornato di Turchia a tempo, per far me poverello partecipe senza saperlo di tali codarde castronerie. E d'altra parte cosa valeva il sapere? Il dottor Lucilio fu invischiato peggio di me in quella brutta pece. Guai anche ai sapienti cui non corrisponde la virtù dei contemporanei: sorretti dalla confidenza nelle proprie dottrine essi salgono facilmente ad abitar le nuvole: e se non disperano prima per discrezione di criterio, disperano poi per necessità d'esperienza. Amilcare intanto era uscito di prigione e secolui avevamo rappiccato l'antica amicizia; un altro invasato anche lui, che vedeva nei Francesi i liberatori del mondo, e fin lí forse il ragionamento si reggeva; ma zoppicava poi, quando li credeva i liberatori di Venezia. Ciò non toglie che Amilcare non cooperasse a infervorare e persuadere maggiormente anche me: poiché il suo ardore non era chiuso come quello di Lucilio ma tendeva a dilatarsi con tutta l'espansione della gioventù. Insieme ad Amilcare indovinate mo chi fu liberato dagli artigli dell'Inquisizione? - Il signor di Venchieredo. Non ve l'aspettavate forse, perché il suo delitto non era certo di favoreggiare i Francesi. Ma io credo che o avesse dal carcere intelligenza con questi, o che la grazia fosse concessa anche a lui per isbadataggine, o che la sua pena fosse prossima a finire. Il fatto sta che Lucilio mi diede sue novelle, aggiungendo misteriosamente che dalla Rocca d'Anfo egli era corso a Milano dove era allora la stanza del general Bonaparte, e dove si agitavano diplomaticamente i destini della Repubblica veneta. Una sera (già si correva precipitosamente all'abisso del dodici maggio) mio padre mi chiamò nella sua camera, dicendo che aveva grandi cose a comunicarmi, e che stessi ben attento e ponderassi tutto perché dalla mia destrezza dipendeva la fortuna mia e lo splendore della famiglia. - Domani - egli mi disse - si compirà la rivoluzione a Venezia. Io diedi un strabalzo di sorpresa, perché colla duttile arrendevolezza del Maggior Consiglio e i negoziati pendenti ancora a Milano non mi entrava quel bisogno di rivoluzione. - Sí - egli riprese - non fartene le meraviglie: poiché stasera sarai chiarito di tutto. Intanto io voglio metterti sulla buona via perché non ti perda poi nel momento decisivo. Sai tu, figliuol mio, cosa voglia dire una repubblica democratica? - Oh certo! - io sclamai coll'ingenuo entusiasmo d'un giovane di ventiquattr'anni. - Essa è la concordia della giustizia ideale colla vita pratica, è il regno non di questo o di quell'uomo ma del pensiero libero e collettivo di tutta la società. Chi pensa rettamente, ha diritto di governare e governerà bene. Ecco il suo motto. - Va bene, va bene, Carlino - riprese biascicando mio padre. - Questo sarà un bel concetto scientifico e mettilo da una banda perché il signor Giulio se ne faccia bello in qualche canzonetta. Ma un governo di tutti, cercato da pochi, imposto da pochissimi, e creato da un generale còrso; un governo libero di gente che non vuole e non può esser libera, sai tu qual piega sia disposto a prendere? Io mi guardai intorno confuso, perché in tali materie usava far i conti senza pensare agli uomini; e sommava e moltiplicava, e divideva come se tutto fosse oro, ma alla fine invece di trovarmi innanzi una somma netta e liquida di zecchini, poteva darsi benissimo che rimanessi con un ciarpame di soldatacci e di quattrinelli. Io, come dissi, non ci pensava, e perciò mi confusi affatto alla domanda di mio padre. - Ascolta - continuò egli col fare paziente del maestro che riprende l'insegnamento da bel principio. - Queste cose, che tu abbellisci di sogni e di illusioni, io le ho prevedute da anni, tali quali devono essere. Non capisco per verità né pretendo capire a fondo le tue immaginazioni, ma ci veggo per entro una buona dose di gioventù e d'inesperienza. Se fosti stato per qualche tempo alle prese con un bascià o col Gran Visir, credo che sputeresti meno filosofia, ma ci vedresti meglio e piú da lontano. La grossaccia furberia dei Mamelucchi ci insegna a conoscere quella sottilissima dei cristiani. Credilo a me che l'ho provato. E non l'ho provato per nulla, giacché lavorava al mio buon fine, ed ora sarei in ballo io, se tornando a Venezia non mi fosse risovvenuto di te. Figurati che allora ho pensato: "Per Allah! che la Provvidenza ti manda la palla in buon punto! Tu eri vecchio ed essa ti ringiovanisce di quarant'anni con un giochetto di mano. Coraggio, Bey. Cedi il posto al cavallo piú giovine e giungerete prima!". In poche parole, Carlino, io ti ho preso per mio figlio certo e legittimo, e ho voluto cederti anche prima di morire l'eredità delle mie speranze. Sarai tu tale da raccoglierla?... Ecco quello che si vedrà in breve. - Parlate, padre mio - soggiunsi io, vedendo prolungarsi la pausa dopo quella gran chiacchierata mezzo maomettana. - Parlare, parlare!... non è tanto facile quanto credi. Son cose da capirsi al volo. Ma pure, veduta la tua ignoranza, guarderò di spiegarmi meglio. Sappi dunque che io ho qualche merito con questi signorini infranciosati e cogli stessi Francesi che reggono ora le cose d'Italia. Meriti arcani, lontanetti se vuoi, ma pur sempre meriti. Di piú mi fanno corona alcuni milioni di piastre che non corteggiano male coi loro raggi brillantati il fuoco centrale della mia gloria. Carlino, io ti cedo tutto, io dono tutto a te, purché tu mi assicuri un divano, una pipa, e dieci tazzine di caffè il giorno. Ti cedo tutto pel maggior lustro di casa Altoviti. Cosa vuoi? È la mia idea fissa! Avere un doge in famiglia! - Ti assicuro che ci riesciremo se vorrai fidarti di me! - Che? io... io doge? - sclamai colla voce sospesa e non osando quasi respirare. - Vorreste che di punto in bianco io diventassi doge? - Ottimamente, Carlino, tu pigli le cose di volo, come non avrei sperato. Il mestiere del doge diventerà tanto piú proficuo, quanto meno seccante e pericoloso. Tu guadagnerai ducati, io li farò fruttare. Dopo sei anni compreremo tutto Torcello, e la famiglia Altoviti diventerà una dinastia. - Padre mio, padre mio, cosa dite mai!... - (V'accerto proprio ch'io lo credetti agli ultimi guizzi per diventar matto.) - Ma già - egli riprese - e non c'è da stupirsene. Coi nuovi ordinamenti che ci incastreranno, ognuno che ha meriti dovrebbe soverchiare chi non ne ha. Questo in via di astrazione. Ma nel concreto colle vostre abitudini coi vostri costumi credi tu che il piú ricco ed il piú furbo non abbia ad esser giudicato il piú meritevole?... Ogni tempo ha i suoi fortunati, figliuolo mio; e saremmo corbelli a non farcene il nostro pro'!... - Per carità, come vedete tutto brutto e corrotto! Qual trista parte mi date a sostenere a me che m'accingeva a combattere per la libertà e la giustizia! - Benone, Carlino! Per accingersi a questo non c'è che la mia strada; perché del resto se rimani al disotto ti sfido io a combattere, sarai schiacciato. Dunque per far trionfare il vero e il buono bisogna farsi posto fra i primi, a gomitate anche, non importa. Ma figurati il gran danno che ne verrebbe se in quei posti ci spuntassero dei tristi e dei fannulloni! Or dunque avanti, figliuol, per far poi ire innanzi gli altri; e l'intenzione scusi la maniera. Non dico che tu voglia farti doge domani o dopo; ma pazienza un pochino, e le nespole matureranno piú presto di quello che si crede!... Intanto io ti voglio avvertire perché tu assecondi le mire de' tuoi amici e non ti abbia a tirare indietro per falsa modestia. Credi tu di aver retto animo e buone e sode intenzioni?... Credi tu che sia utilissimo metter a capo della cosa pubblica uno che ami il proprio paese e non scenda a patti coi suoi nemici? - Oh, sí! padre mio, lo credo! - Animo dunque, Carlino! Stasera il signor Lucilio ti parlerà piú chiaro. Allora intenderai, vedrai, deciderai. Tienti daccosto a lui. Non tentennare, non indietreggiare. Chi ha cuore e coscienza deve farsi innanzi coraggiosamente generosamente non per proprio orgoglio ma per l'utilità di tutti. - Non temete, padre mio. Mi farò innanzi. - Basta per ora che tu ti lasci spingere. Intanto siamo intesi. Tu sarai spalleggiato dai nobili ed hai il favore dei democratici: la fortuna non può fallirti. Io vado dal signor Villetard per metter in ordine qualche ultima clausola. Ci rivedremo stasera. Dopo un tale colloquio io rimasi tanto strabiliato e perplesso che non sapeva a qual muro dar il capo. Il maggior malanno si era che ci intendeva ben poco. Io salire ai primi posti, al piú alto seggio forse della Repubblica? Cosa volevan dire cotali sogni? - Certo mio padre avea recato seco dall'Oriente qualche volume di appendice alle Mille e una notte. E cosa volevan dire quelle sue vaghe parole di rivoluzione, di clausole, di che so io? - Il signor Villetard era un giovine segretario della Legazione francese, ma quale autorità aveva il mio signor padre d'ingerirsi con essolui in faccende di Stato? - Piú ci pensava e piú i miei pensieri volavano fra le nuvole. Non ne sarei disceso piú, se non veniva Lucilio a orizzontarmi. Egli m'invitò a seguirlo in un luogo ove si aveva a deliberare sopra cose importantissime al pubblico bene: nella calle ci unimmo ad altre persone sconosciute che lo aspettavano, e tutti insieme prendemmo via verso uno dei sentieri piú deserti della città, dietro il ponte dell'Arsenale. Dopo una camminata lunga sollecita e silenziosa entrammo in un salone buio e spopolato; salimmo la scala al dubbio chiarore d'un lumicino d'olio; nessuno ci aperse, nessuno ci introdusse; somigliavano una coorte di fantasmi che andasse a spaventare i sonni d'un malandrino. Finalmente entrati in una sala umida e ignuda, ci fu concessa una luce meno avara: e al lume di quattro candele poggiate sopra una tavola vidi ad una ad una tutte le persone della radunanza e ne distinsi bene o male le fattezze. Eravamo in trenta all'incirca, la maggior parte giovani: ravvisai fra questi Amilcare e Giulio Del Ponte: il primo acceso in volto e coll'impazienza negli occhi, il secondo pallidissimo e con un fare neghittoso che sconsolava. V'era l'Agostino Frumier, v'era anche il Barzoni, giovane robusto, impetuoso, innamorato di Plutarco e de' suoi eroi: quello che scrisse poi un libello contro i Francesi intitolandolo I Romani in Grecia. Tra i piú attempati conobbi l'avogadore Francesco Battaja, il droghiere Zorzi, il vecchio general Salimbeni, un Giuliani da Desenzano, Vidiman, il piú onesto e liberale patrizio di Venezia, e un certo Dandolo che aveva acquistato gran fama di sussurrone nei crocchi piú tempestosi; gli altri mi erano quasi sconosciuti, benché di taluno non mi comparissero nuove le sembianze. Costoro si stringevano con grande impegno intorno ad un omiciattolo lattimoso e rossigno che parlava poco e sotto voce, ma agitava le braccia come un primo ballerino. Il dottor Lucilio s'aggirava per la sala muto e pensoso; tutti gli facevano largo rispettosamente e pareva attendessero i comandi da lui solo. Vi fu un momento che il Battaja tentò primeggiar a lui colla voce e attirare a sé l'attenzione di tutti; ma non gli badarono; uno scantonò di qua e l'altro di là; chi si raschiava in gola e chi tossiva nel fazzoletto; nessuno si fidava ed egli restò come il corvo dopo ch'ebbe cantato. Cosí si rimase lunga pezza senzaché io potessi capir nulla né dalle mie previsioni né dalle parole tronche di Amilcare né dai sospiri di Giulio; finalmente un altro perruccone giallo, sfinito e livido di paura si precipitò nella stanza. Lucilio gli era ito incontro fin sulla soglia, e alla sua comparsa tutta l'adunanza si dispose in cerchio come per udire qualche grande ed aspettata novella. - È il Savio supplente in settimana! - mi bisbigliò all'orecchio Amilcare. - Ora vedremo se sono disposti a cedere colle buone. Io finsi di capire, e considerai piú attentamente il perruccone che non sembrava per nulla agevolato a sfoggiar l'eloquenza da quella numerosa combriccola che lo circondava. Il Battaja se gli fece ai panni per interrogarlo, ma Lucilio gli tagliò la strada, e tutti stettero zitti ad ascoltare quanto diceva. - Signor Procuratore - cominciò egli - ella sa il deplorabile stato di questa Serenissima Dominante dappoiché tutte le provincie di terraferma hanno inalberato lo stendardo della vera libertà. Ella sa l'inettitudine del governo dopo l'imbarco dei primi reggimenti schiavoni, e la fatica durata finora ad imbrigliare la rabbia del popolo. - Sí... sissignore, so tutto - balbettò il Savio di settimana. - Io ho ritenuto mio dovere di chiarire all'Eccellentissimo Procuratore tali tristi condizioni della Repubblica - soggiunse il Battaja. Lucilio, senza degnarsi di badare a costui, riprese la parola. - Ella conosce del pari, signor Procuratore, gli estremi sommari del trattato che si firmerà fra breve a Milano fra il cessante Maggior Consiglio e il Direttorio di Francia! Questo crudele ricordo cavò dagli occhi del Procuratore due lagrimone che se non accennavano il coraggio non erano peraltro senza una tal qual dignità di mestizia e di rassegnazione. Esse bagnarono tortuose la cipria di cui aveva spruzzolata la pelle, e ne divenne piú giallo e men bello di prima. - Signor Procuratore - riprese Lucilio - io sono un semplice cittadino; ma cerco il bene, il vero bene di tutti i cittadini! Dico che si farebbe atto di patria carità e prova d'indipendenza correndo incontro alle ottime intenzioni degli altri; cosí si risparmierebbero molti disordini interni che non mancheranno di intorbidare le cose se ancora si tarda la conclusione del trattato. Io per me son alieno da qualunque ambizione, e lo vedranno dal posto che mi si è voluto concedere nel quadro della futura Municipalità. Il signor Villetard (e accennava l'ometto irrequieto e rossigno) ha favorito scrivere le condizioni, a tenor delle quali cambiatesi le forme del governo, un presidio francese entrerà a proteggere il primo stabilimento della vera libertà in Venezia. Sono i soliti articoli (prendeva in ciò dire dalla tavola uno scritto e lo scorreva rapidamente): erezione dell'albero della libertà, proclamazione della democrazia con rappresentanti scelti dal popolo, una Municipalità provvisoria di ventiquattro veneziani alla testa dei quali l'ex-doge Manin e Giovanni Spada, ingresso di quattromila Francesi come alleati in Venezia, richiamo della flotta, invito alle città di terraferma, di Dalmazia e delle isole ad unirsi colla madre patria, licenziamento definivo degli Schiavoni, arresto del signor d'Entragues, manutengolo dei Borboni, e cessione delle sua carte al Direttorio pel canale della Legazione francese. Son tutte cose note e concesse dall'unanime assenso del popolo. Infatti ieri stesso il Doge si dichiarò pronto in piena assemblea a deporre le insegne ducali e a rimettere le redini del governo in mano dei democratici. Noi chiediamo meno di quello ch'ei sia disposto a concedere. Vogliamo ch'egli resti a capo del nuovo governo, arra di stabilità e d'indipendenza per la futura Repubblica; non è vero, signor Villetard? L'omiciattolo accennò di sí con gran lavorio di gesti e di boccacce. Lucilio si rivolse allora di bel nuovo al Savio di settimana e gli porse quello scritto che aveva scorso poco prima. - Ecco, signor Procuratore - egli soggiunse - qui stanno i destini della patria: guardi ella di capacitarne l'animo del Serenissimo Doge e degli altri nobili colleghi, altrimenti... Dio protegga Venezia! io avrò fatto per salvarla quanto umanamente poteva. Rispose colle lagrime agli occhi il Procuratore: - Io sono veramente grato a tanto deferenza di loro illustri signori; - (Gli incorruttibili cittadini rabbrividirono a questi titoli scomunicati) - Il Serenissimo Doge ed i colleghi Procuratori, come cariche perpetue della Repubblica, sono pronti a sacrificarsi per la sua salute - (sacrificarsi voleva dire cavarsela) - tanto piú che la fedeltà degli Schiavoni rimasti comincia a tentennare, e non ci meraviglierebbe per nulla di vederli unirsi ai nostri nemici... - (Il Procuratore s'accorse d'aver detto un sproposito e tossí e tossí che divenne scarlatto come la sua tonaca) - dico di vederli unirsi ai nostri amici, che... che... che... vogliono salvarci... ad ogni costo. Dunque io mi riprometto che queste condizioni - (e mostrava il foglio come se stringesse fra le dita una vipera) - saranno accettate con tutto il cuore dalla Serenissima Signoria, che il Maggior Consiglio ratificherà i nostri salutari intendimenti, e che presto formeremo una sola famiglia di cittadini uguali e felici. La voce moriva in gola al Procuratore come un singhiozzo; ma le sue ultime parole furono coperte da una salva di applausi. Egli ne arrossí, il poveruomo, certo di vergogna, e poi s'affrettò a chiedere che taluno di quella egregia adunanza volesse accompagnarsi con lui per recar quel foglio a Sua Serenità. Fu scelto a voti unanimi il Zorzi: un droghiere da appaiarsi ad un procuratore, per intimar l'abdicazione ad un doge!... Due secoli prima l'intero Consiglio dei Dieci si era presentato al Foscari, per chiedergli il corno e l'anello. Venezia tutta silenziosa e tremante aspettava sulla soglia del Palazzo la gran novella dell'ubbidienza o del rifiuto. Il vecchio e glorioso Doge preferí l'ubbidienza e ne morí di dolore: ultima scena terribile e solenne d'un dramma misterioso. Qual divario di tempi!... L'abdicazione del doge Manin potrebbe entrare come incidente in una commedia del Goldoni senza tema di derogare alla propria gravità. Intanto partirono il Procuratore e lo Zorzi, partí il Villetard col Battaja e alcuni altri patrizi, stupidamente traditori di se stessi: restammo noi pochi, l'eletta, il fiore della democrazia veneziana. Il Dandolo era quello che parlava di piú, io certo quello che ci capiva meno. Lucilio s'era rimesso a passeggiare, a tacere, a pensare. Tutto ad un tratto egli si volse a noi con cera poco contenta, e disse quasi pensando a voce alta: - Temo che faremo un bel buco nell'acqua! - - Come? - gli diede sulla voce il Dandolo. - Un buco nell'acqua ora che tutto arride alle nostre brame?... Ora che i carcerieri della libertà impugnano essi medesimi lo scalpello per infrangerne i ceppi? Ora che il mondo redento alla giustizia ci prepara un posto degno onorato indipendente al gran banchetto dei popoli, e che il liberatore d'Italia, il domatore della tirannide ci porge la mano egli stesso per sollevarci dall'abiezione ove eravamo caduti? - Io sono medico - soggiunse pacatamente Lucilio. - Indovinare i mali è il mio ministero. Temo che le nostre buone intenzioni non abbiano bastevole radice nel popolo. - Cittadino, non disperare della virtù al pari di Bruto! - uscí a dire come ruggendo un giovinetto quasi imberbe e di fisonomia tempestosa. - Bruto disperò morendo, noi siamo per nascere! Quel giovinetto era un levantino di Zante, figliuolo d'un chirurgo di vascello della Repubblica, e dopo la morte del padre avea preso stanza a Venezia. Le sue opinioni non erano state le piú salde in fino allora, perché si bisbigliava che soltanto alcuni mesi prima gli fosse passato pel capo di farsi prete; ma comunque la sia, di prete che voleva essere era diventato invece poeta tragico; e una sua tragedia, il Tieste, rappresentata nel gennaio allora decorso sul teatro di Sant'Angelo, avea furoreggiato per sette sere filate. Quel giovinetto ruggitore e stravolto aveva nome Ugo Foscolo. Giulio Del Ponte, che non avea fiatato in tutta la sera, si riscosse a quella sua urlata, e gli mandò di sbieco uno sguardo che somigliava una stilettata. Tra lui e il Foscolo c'era l'invidia dell'ingegno, la piú fredda e accanita di tutte le gelosie; ma il povero Giulio s'accorgeva di restar soperchiato, e credeva ricattarsi coll'accrescere veleno al proprio rancore. Il leoncino di Zante non degnava neppur d'uno sguardo codesta pulce che gli pizzicava l'orecchio, o se gli dava qualche zaffata era piú per noia che per altro. In fondo in fondo egli aveva una buona dose di presunzione e non so se la gloria del cantor dei Sepolcri abbia mai uguagliato i desiderii e le speranze dell'autor di Tieste. Allora meglio che un letterato egli era il piú strano e comico esemplare di cittadino che si potesse vedere; un vero orsacchiotto repubblicano ringhioso e intrattabile; un modello di virtù civica che volentieri si sarebbe esposto all'ammirazione universale; ma ammirava sé sinceramente come poi disprezzò gli altri, e quel gran principio dell'eguaglianza lo aveva preso sul serio, tantoché avrebbe scritto a tu per tu una lettera di consiglio all'Imperator delle Russie e si sarebbe stizzito che le imperiali orecchie non lo ascoltassero. Del resto sperava molto, come forse sperò sempre ad onta delle sue tirate lugubri e de' suoi periodi disperati; giacché temperamenti uguali al suo, tanto rigogliosi di passione e di vita, non si rassegnano cosí facilmente né all'apatia né alla morte. Per essi la lotta è un bisogno; e senza speranza non può esservi lotta. - Giulio Del Ponte non fu il solo che si scotesse alla romana apostrofe del Foscolo; anche Lucilio la onorò d'un sorriso tra l'amichevole e il pietoso; ma non credette opportuno rispondere direttamente. - Chi di voi - soggiunse egli - chi di voi ha badato questa sera al Villetard mentr'io esponeva le sue condizioni all'ex-Procuratore? - Ci ho badato io - soggiunse un uomo alto e ben tarchiato che seppi esser lo Spada, quello che volean dare per compagno al Manin nel nuovo governo. - Egli mi avea viso di traditore! - Bravo cittadino Spada! - riprese Lucilio - soltanto egli crederà di esser niente piú che un buon servitore del proprio paese, un ministro accorto e fortunato. Già è qualche tempo che sulle bandiere di Francia la gloria ha preso il posto della libertà! - E che volete farci? - sclamò rozzamente lo Spada. - Nulla - continuò Lucilio - perché non ci possiamo nulla. Soltanto, per chi ancor nol sapesse, voglio dichiarare la mente nostra nell'operare questa rivoluzione prima che ce ne venga il comando formale da Milano. Gli è appunto che la diffidenza è un'ottima virtù sopratutto pei deboli, ma temo che non basti. Si vorrebbe che i Francesi fossero aiuto e non esecutori; ecco l'idea. Vorremmo mutarci da noi, non farci mutare da altri come gente che ha perduto la facoltà di moversi. I Francesi ci dovranno venire perché lo possono e lo vogliono; ma trovino almeno tutto fatto, e non ci si incastrino nei fianchi come padrini!... - Vengano i Francesi a risparmiarci la guerra civile, e le proscrizioni di Silla! - sclamò il Foscolo. Il Barzoni, che non aveva mai parlato, alzò il capo per fulminar d'una occhiata l'imprudente oratore. - Ben detto - riprese tuttavia Lucilio - ma dovevi dire: vengano a risparmiarci un altro secolo di torpore uguale ai decorsi e con diverse apparenze. Vengano a scuoterci, a spaventarci, a farci vergognare di noi, a sollecitare colla paura di lor tirannia lo svegliarsi operoso e sublime della nostra libertà... Ecco quello che dovevi aggiungere!... Se noi saremo tali da prenderli per emuli e non per padroni, lo sapremo di qui a qualche mese. Villetard ne dubita e ne teme, e ciò mi fa supporre che piú in alto di lui si desideri altrimenti! - Che importa questo? - lo interruppe Amilcare. - Noi rispettiamo le tue parole, cittadino Vianello, ma sentiamo i nostri polsi intolleranti di schiavitù, e ci ridiamo di Villetard e di chi sta sopra di lui, come ci ridiamo di San Marco, degli Schiavoni, e del procurator Pesaro! Lucilio stornò la mente da tali considerazioni forse troppo tristi o tardive per lui, e si volse a me con un fare quasi paterno. - Cittadino Altoviti - egli disse - vostro padre si è adoperato moltissimo a vantaggio della libertà; gli si deve una ricompensa ch'egli vuol cedere a noi. Non se gli avrebbe badato se la vostra indole e la vostra condotta non davano lusinga di veder continuati in voi gli esempi famigliari. Voi siete uno dei membri piú giovani del Maggior Consiglio, siete uno fra i pochi, anzi fra i pochissimi che voterete per la libertà non per codardia ma per altezza di animo. Vi notifico adunque che foste scelto per primo segretario del nuovo governo. Un mormorio di maraviglia dei giovani lí presenti accolse tali parole. - Sí - proseguí Lucilio - e chi ha speso qualche milione a Costantinopoli per volgere la Turchia a danno della Sacra Alleanza, chi ha sacrificato molti anni della propria vita a rannodare nel lontano Oriente le trame di quest'opera di redenzione che ci farà forse liberi e certo uomini, chi ha fatto questo pretenda altrettanto pel figliuol suo!... Lo dico io, lo posso dir io che all'indomani del trionfo tornerò nell'ospitale a salassare i miei malati! Un applauso unanime scoppiò da tutta la radunanza, e dieci paia di braccia si litigarono il dottor Vianello per istringerlo al cuore. Io scomparvi affatto in questa frenesia d'entusiasmo, e restai da un canto pensieroso, colla pietra di mulino sul petto del mio segretariato. Allora il discorrere diventò generale; si parlava della flotta, della Dalmazia, del modo piú sicuro per ottener l'adesione del general Bonaparte alla nuova forma di governo. Si buttò via molto fiato fino a mezzanotte quando lo Zorzi rientrò nella sala, col portamento autorevole d'un bottegaio che ha rovesciato un governo di tredici secoli. - E cosí? - gli domandarono tutti. - E cosí - rispose lo Zorzi - il Doge mi ha pregato di recarmi da Villetard per ottenere le sue condizioni in iscritto; non sapeva sua Serenità che noi le avevamo già in tasca. Domani adunque sarà proposta nel Maggior Consiglio la parte di adottar sul momento per la Repubblica di Venezia il sistema democratico del nuovo governo provvisorio da noi ideato. - Viva la libertà! - gridarono tutti. E fu un tal fremito di gioia e d'entusiasmo che io pure mi sentii scorrere per le vene come una striscia di fuoco. Se in quel momento mi avessero comandato di credere alla risurrezione di Roma coi Camilli e coi Manlii, non ci avrei trovato nulla di strano ad ubbidire. Indi a poco ci separammo, e benché l'ora fosse tardissima il galateo veneziano permise a me ed a Giulio di passare in casa della Contessa. Io era fuori di me addirittura senza saperne il perché: tale deve sentirsi un cavallo generoso al sonar della tromba. Giulio all'incontro pareva malcontento della parte troppo modesta da lui sostenuta nell'adunanza di quella sera; e sí che doveva essere avvezzo a tali combriccole, perché tanto egli che Foscolo erano stati imputati di immischiarsi in tali faccende, e la madre di quest'ultimo dicevasi averlo consigliato a perire piuttosto che svelare alcuno de' suoi compagni. Cosí tornavano allora di moda le madri spartane. Il fatto sta che la Pisana in quella sera non ebbe occhi che per me, ma io era troppo addentro nel pensiero del nuovo governo, del Maggior Consiglio della dimane e dei pronostici di mio padre per fermarmi in quelle amorosità. La guardava sí, ma come un'attenta scoltatrice delle mie declamazioni, e questo mio contegno non le garbava punto. Quanto a Giulio al vederlo cosí uggioso appena lo sopportava, e le sue affaticate galanterie non ottenevano il premio della quarta parte di ciò che gli costavano. Ben è vero che la Contessa ne lo rimunerava con un subisso d'interrogazioni sulle novelle della giornata, ma il letteratuncolo non la intendeva a quel modo, e si arrischiava piú volentieri alla taccia d'ingrato che al martirio della noia. L'accorta vecchia, mano a mano che il mal tempo cresceva, andava raccogliendo le vele, e ormai era ridotta a parole una mezza sanculotta. Di dentro poi Dio sa quanto odio e quanta bile covasse! - Cosa dice, signor Giulio! Verranno questi Francesi?... Si casseranno i crediti ipotecati sopra le rendite feudali?... E i patrizi che sieno sicuri d'una pensione o d'una carica? E san Marco che sia conservato sugli stendardi? Giulio sospirava, sbadigliava, digrignava, si storceva, ma l'inesorabile Contessa voleva pur cavarne qualche risposta, e credo ch'egli con maggior buona grazia si sarebbe lasciato cavar un dente. Io intanto non poteva resistere al piacere di pavoneggiarmi dinanzi alla Pisana colle mie future splendidezze, e lasciava travedere che nel nuovo governo ci sarebbe stato un bel seggio anche per me. - Davvero Carlino? - mi chiese cheta cheta la donzella. - Ma non siamo intesi che dobbiate metter sul trono l'eguaglianza? Io alzai le spalle dispettosamente. Andate dunque a filosofeggiare con donne! Non so peraltro se tacqui per disdegno o per non saper cosa rispondere. Il fatto sta che per quella sera l'ambizione scavalcò affatto l'amore, e che mi partii dalla Pisana che non avrei nemmen saputo dire di qual colore avesse gli occhi. Salutai Giulio soprappensiero in Frezzeria, e m'avviai soletto e ballonzolando d'impazienza per la Riva degli Schiavoni. Mi ricorderò sempre di quella sera memorabile dell'undici maggio!... Era una sera cosí bella cosí tiepida e serena che parea fatta pei colloqui d'amore per le solinghe fantasie per le allegre serenate e nulla piú. Invece fra tanta calma di cielo e di terra, in un incanto sí poetico di vita e di primavera una gran repubblica si sfasciava, come un corpo marcio di scorbuto; moriva una gran regina di quattordici secoli, senza lagrime, senza dignità, senza funerali. I suoi figliuoli o dormivano indifferenti o tremavano di paura; essa, ombra vergognosa, vagolava pel Canal Grande in un fantastico bucintoro, e a poco a poco l'onda si alzava e bucintoro e fantasma scomparivano in quel liquido sepolcro. Fosse stato almeno cosí!... Invece quella morta larva rimase esposta per alcuni mesi, tronca e sfigurata, alle contumelie del mondo; il mare, l'antico sposo, rifiutò le sue ceneri; e un caporale di Francia le sperperò ai quattro venti, dono fatale a chi osava raccoglierle! Ci fu un momento ch'io alzai involontariamente gli occhi sul Palazzo Ducale e vidi la luna che abbelliva d'una vernice di poesia le sue lunghe logge e i bizzarri finestroni. Mi pareva che migliaia di teste coperte dell'antico cappuccio marinaresco o della guerresca celata sporgessero per l'ultima volta da quei mille trafori i loro vacui sguardi di fantasma; poi un sibilo d'aria veniva pel mare che somigliava un lamento. Vi assicuro che tremai; e sí ch'io odiava l'aristocrazia e sperava dal suo sterminio il trionfo della libertà e della giustizia. Non c'è caso; vedere le grandi cose adombrarsi nel passato e scomparire per sempre è una grave e inesprimibile mestizia. Ma quanto piú son grandi queste cose umane, tanto piú esse resiston anche colle compagini fiacche e inanimate all'alito distruttore del tempo; finché sopraggiunge quel piccolo urto che polverizza il cadavere, e gli toglie le apparenze e perfin la memoria della vita. Chi s'accorse della caduta dell'Impero d'Occidente con Romolo Augustolo? - Egli era caduto coll'abdicazione di Diocleziano. - Chi notò nel 1806 la fine del Sacro Romano Impero di Germania? - Egli era scomparso dalla vista dei popoli coll'abdicazione di Carlo V. - Chi pianse all'ingresso dei Francesi in Venezia la rovina d'una grande repubblica, erede della civiltà e della sapienza romana, e mediatrice della cristianità per tutto il Medio Evo? - Essa si era tolta volontariamente all'attenzione del mondo dopo l'abdicazione di Foscari. Le abdicazioni segnano il tracollo degli stati; perché il pilota né abbandona né è costretto ad abbandonare il timone d'una nave che sia guernita d'ogni sua manovra e di ciurme esperte e disciplinate. Le disperazioni, gli abbattimenti, l'indifferenza, la sfiducia precedono di poco lo sfasciarsi e il naufragio. Io volsi dunque gli occhi al Palazzo Ducale e tremai. Perché non distruggere quella mole superba e misteriosa, allora che l'ultimo spirito che la animava si perdeva per l'aria?... In quei marmi rigidi eterni, io presentiva piú che una memoria un rimorso. E intanto vedeva piú in giù sulla riva i fedeli Schiavoni che mesti e silenziosi s'imbarcavano; forse le loro lagrime consolarono sole la moribonda deità di Venezia. Allora mi sorse nell'anima una paura piú distinta. Quella nuova libertà quella felice eguaglianza quella imparziale giustizia coi Francesi per casa cominciò ad andarmi un po' di traverso. Avea ben avvisato Lucilio di operare la rivoluzione prima che Bonaparte ce ne mandasse da Milano l'ordine e le istruzioni; ma ciò non toglieva che i Francesi sarebbero venuti da Mestre: e una volta venuti, chi sa!... Fui pronto ad evocare la magnanima superbia d'Amilcare per liberarmi da queste paure. "Oh bella!" pensai "siam poi uomini come gli altri; e questo nuovo fuoco di libertà che ci anima sarà all'uopo fecondo di prodigi. Di piú l'Europa non potrà esserci ingrata; il suo proprio interesse non gliel consente. Colla costanza con la buona volontà torneremo ad esser noi: e gli aiuti non devono mancare o da poggia o da orza!...". Con tali conforti tornai verso casa ove mio padre mi significò che era molto contento del posto a me riserbato nella futura Municipalità; e che badassi a condurmi bene e ad assecondare i suoi consigli, se voleva andare piú in su. Non mi ricordo cosa gli risposi; so che andai a letto e che non chiusi occhio fino alla mattina. Potevano esser le otto e tre quarti quando sonò la campana del Maggior Consiglio, ed io m'avviai verso la Scala dei Giganti. Per quanto avessero fretta i signori nobili di commettere il gran matricidio, le delizie del letto non consentirono che si anticipasse piú d'un quarto d'ora sul solito orario. I comparsi furono cinquecento trentasette; numero illegale giacché per inviolabile statuto ogni deliberazione che non si fosse discussa in un'adunanza di almeno seicento membri si considerava illegittima e nulla. La maggior parte tremava di paura e d'impazienza; avevano fretta di sbrigarsi, di tornare a casa, di svestir quella toga, omai troppo pericolosa insegna d'un impero decaduto. Alcuni ostentavano sicurezza e gioia; erano i traditori; altri sfavillavano d'un vero contento, d'un orgoglio bello e generoso pel sacrifizio che cassandoli dal Libro d'Oro li rendeva liberi e cittadini. Fra questi io ed Agostino Frumier sedevamo stringendoci per mano. In un canto della sala venti patrizi al piú stavano ravvolti nelle loro toghe rigidi e silenziosi. Alcuni vecchioni venerandi che non comparivano da piú anni al Consiglio e vi venivano quella mattina ad onorare la patria del loro ultimo e impotente suffragio; qualche giovinetto fra loro, qualche uomo onesto che s'inspirava dai magnanimi sentimenti dell'avo del suocero del padre. Mi stupii non poco di vedere in mezzo a questi il senatore Frumier e il suo figlio primogenito Alfonso; giacché li sapeva devoti a San Marco, ma non tanto coraggiosamente, come mi fu veduto allora. Stavano uniti e quasi stretti a crocchio fra loro; guardavano i compagni non colla burbanza dello sprezzo né col livore dell'odio, ma colla fermezza e la mansuetudine del martirio. Benedetta la religione della patria e del giuramento! Là essa risplendeva d'un ultimo raggio senza speranza e tuttavia ripieno di fede e di maestà. Non erano gli aristocratici, non erano i tiranni; né gli inquisitori; erano i nipoti dei Zeno e dei Dandolo che ricordavano per l'ultima volta alle aule regali le glorie e le virtù degli avi. Li guardai allora stupito ed ostile; li ricordo ora meravigliato e commosso; almeno io posso ridere in faccia alle storie bugiarde, e non evocare dall'ultimo Maggior Consiglio di Venezia una maledizione all'umana natura. In tutta la sala era un sussurrio, un fremito indistinto; solo in quel canto oscuro e riposto regnavano la mestizia e il silenzio. Fuori il popolo tumultuava; le navi che tornavano dal disarmamento dell'estuario, alcuni ultimi drappelli di Schiavoni che s'imbarcavano, le guardie che contro ogni costume custodivano gli anditi del Palazzo Ducale, tutti presagi funesti. Oh è ben duro il sonno della morte, se non si svegliarono allora, se non uscirono dai loro sepolcri gli eroi, i dogi, i capitani dell'antica Repubblica!... Il Doge s'alzò in piedi pallido e tremante, dinanzi alla sovranità del Maggior Consiglio di cui egli era il rappresentante, e alla quale osava proporre una viltà senza esempio. Egli aveva letto le condizioni proposte dal Villetard per farsi incontro ai desiderii del Direttorio francese, e placar meglio i furori del general Bonaparte. Le approvava per ignoranza, le sosteneva per dappocaggine, e non sapeva che il Villetard, traditore per forza, aveva promesso quello che nessuno aveva in animo di mantenere: Bonaparte meno di tutti gli altri. Lodovico Manin balbettò alcune parole sulla necessità di accettare quelle condizioni, sulla resistenza inutile, anzi impossibile, sulla magnanimità del general Bonaparte, sulle lusinghe che si avevano di fortuna migliore per mezzo delle consigliate riforme. Infine propose sfacciatamente l'abolizione delle vecchie forme di governo e lo stabilimento della democrazia. Per la metà di un tale delitto Marin Faliero era morto sul patibolo; Lodovico Manin seguitava a disonorare coi suoi balbettamenti sé, il Maggior Consiglio, la patria, e non vi fu mano d'uomo che osasse strappargli dalle spalle il manto ducale, e stritolare la sua testa codarda su quel pavimento dove avevano piegato il capo i ministri dei re e i legati dei pontefici! - Io stesso ne ebbi pietà; io che nell'avvilimento e nella paura d'un doge non vedeva altro allora che il trionfo della libertà e dell'eguaglianza. Tutto ad un tratto rimbombano alcune scariche di moschetteria: il Doge si ferma costernato e vuol discendere i gradini del trono; una folla di patrizi spaventata se gli accalca intorno gridando: - Alla parte, ai voti! - Il popolo urla di fuori; di dentro crescono la confusione e lo sgomento. Sono gli Schiavoni ribelli! (gli ultimi partivano allora e salutavano con quegli spari l'ingrata Venezia). Sono i sedici mila congiurati (i sogni di Lucilio). È il popolo che vuole sbramarsi nel sangue dei nobili! (il popolo nonché preferire l'obbedienza a que' nobili, alla piú dura servitù che lo minacciava, amava anzi quell'obbedienza e non voleva dimenticarla). Insomma fra le grida, gli urti, la fretta, la paura, si venne al suffragio. Cinquecento dodici voti approvarono la parte non ancor letta, che conteneva l'abdicazione della nobiltà, e lo stabilimento d'un Governo Provvisorio Democratico, sempreché s'incontrassero con esso i desiderii del general Bonaparte. Del non aspettarsi da Milano i supremi voleri del medesimo e il trattato che si stava stipulando, davasi per motivo l'urgenza dell'interno pericolo. Venti soli voti si opposero a questo vile precipizio; cinque ne furono di non sinceri. Lo spettacolo di quella deliberazione mi rimarrà sempre vivo nella memoria: molte fisonomie, che vidi allora in quella torma di pecori avvilita tremante vergognosa, le veggo anche ora dopo sessant'anni con profondo avvilimento. Ancora ricordo le sembianze cadaveriche sformate di alcuni, l'aspetto smarrito e come ubbriaco di altri, e l'angosciosa fretta dei molti che si sarebbero, cred'io, gettati dalle finestre per abbandonare piú presto la scena della loro viltà. Il Doge corse alle sue stanze svestendosi per via delle sue insegne, e ordinando che si togliessero dalle pareti gli apparamenti ducali; molti si raccoglievano intorno a lui, quasi a scordare il proprio vitupero nello spettacolo d'un vitupero maggiore. Chi usciva in Piazza aveva cura prima di gettare la perrucca e la toga patrizia. Noi soli, pochi e illusi adoratori della libertà in quel pecorame di servi (eravamo cinque o sei), corsimo alle finestre e alla scala gridando: - Viva la libertà! - Ma quel grido santo e sincero fu profanato poco stante dalle bocche di quelli che ci videro una caparra di salute. Paurosi e traditori si mescolarono con noi; il romore il gridio cresceva sempre; io credetti che un puro e generoso entusiasmo trasformasse quei mezzi uomini in eroi, e mi precipitai nella Piazza, gettando in aria la mia perrucca e urlando a perdifiato: - Viva la libertà! - Il general Salimbeni, appostato con qualche altro cospiratore, s'era già messo a strepitare in mezzo al popolo eccitandolo al tripudio e al tumulto. Ma la turba gli si scagliò contro furibonda, e lo costrinse a gridare: - Viva San Marco! - Quelle nuove grida soffocarono le prime. Molti, massime i lontani, credettero che la vecchia Repubblica fosse uscita salva dal terribile cimento della votazione. - Viva la Repubblica! Viva San Marco! - fu una sola voce in tutta la piazza gremita di gente; le bandiere furono inalberate sulle tre antenne; l'immagine dell'Evangelista fu portata in trionfo; e un'onda minacciosa di popolo corse alle case di quei patrizi che erano in voce d'aver congiurato per la chiamata dei Francesi. In mezzo alla folla, incerto confuso diviso dai compagni, m'incontrai in mio padre e in Lucilio forse meno confusi ma piú avviliti di me. Essi mi presero fra loro e mi trascinarono verso la Frezzeria. Quei pochi patrizi che aveano votato per l'indipendenza e la stabilità della patria ci passarono rasente colle loro perrucche, colle loro toghe strascicanti. Il popolo faceva largo senza improperi ma senza plauso. Lucilio mi strinse il braccio. - Li vedi? - mi bisbigliò all'orecchio - il popolo grida: "Viva San Marco!" e non ha poi il coraggio di portar in trionfo, e di crear doge uno di questi ultimi e degni padroni che gli restano!... Servi, servi, eternamente servi! Mio padre non si perdeva in sofisticherie; egli affrettava il passo come meglio poteva, e gli tardava l'ora di trovarsi nella sua camera per meditare al sicuro il pro' ed il contro. Un proclama della nuova Municipalità che dipingeva la vile condiscendenza dei patrizi come un libero e spontaneo sacrifizio alla sapienza dei tempi, alla giustizia e al bene di tutti rimise la tranquillità nel buon popolo veneziano. Come il dente d'un topo basta per far calare a fondo una nave tarlata, cosí l'intrigo di un segretariuccio parigino, di quattro o cinque traditori, e d'alcuni repubblicani avea bastato per rovesciare quell'edifizio politico che aveva resistito a Solimano II e alla lega di Cambrai. Rivolgimenti senza grandezza perché senza scopo; ai quali dovrebbero chiedere lume d'esperienza i caporioni di partito, quando la fortuna consegna alle loro mani le sorti della patria. Quattro giorni dopo barche veneziane condussero a Venezia truppe francesi: e una città difesa pochi giorni prima da undicimila Schiavoni, da ottocento pezzi d'artiglieria, e da duecento legni armati si consegnò spoglia, volontaria incatenata alla soldatesca balía di quattromila venturieri capitanati da Baraguay d'Hilliers. La Municipalità fece codazzo a costoro fra il silenzio e il disprezzo della folla. Io pure come segretario ebbi la mia parte di quei taciti insulti; ma l'entusiasmo della Pisana, e le esortazioni di mio padre mi animavano a tutto sopportare per amore della libertà. Compativa agli ignoranti né credeva di compatire ai miseri. Il mio coraggio fu debolmente smosso dalle risposte venuteci dalle provincie di terraferma al nostro invito di accedere al nuovo governo. I podestà tentennavano, i generali francesi si beffavano di noi. Venezia rimase sola colla sua libertà di falso conio. - L'Istria e la Dalmazia venivano intanto occupate dall'Austria, giusta la facoltà concessa dai segreti preliminari di Leoben. Anche questo non mi andava a versi. La Francia con flotte veneziane s'impadroniva de' nostri possedimenti nell'Albania e nell'Ionio; minaccia di peggiori oltracontanze. Povero segretario io non aveva testa bastevole per accordare tutte queste contraddizioni e farmene un criterio. Sospirava, lavorava, e aspettava di meglio. Intanto gioverà notare il peccato per cui cadde Venezia inonorata e incompianta dopo quattordici secoli di vita meritoria e gloriosa. Nessuno, credo io, avvisò fino ad ora o formulò a dovere la causa della sua rovina. Venezia non era piú che una città e voleva essere un popolo. I popoli soli nella storia moderna vivono, combattono, e se cadono, cadono forti e onorati, perché certi di risorgere. CAPITOLO DECIMOSECONDO Nel quale, dopo un patetico addio alla spensierata giovinezza, si comincia a vivere ed a pensare sul serio: ma pur troppo non ebbi il vento in poppa. Fin d'allora era pericoloso fidarsi alle promesse degli ospiti che volevano farla da padroni: ma gli ospiti, se non altro furono benemeriti di averci dato la sveglia. Nel frattempo la Clara si fa monaca, la Pisana si marita con S.E. Navagero, ed io seguito a scriver protocolli. Venezia cade la seconda volta in punizione della prima, e i patrioti si ricoverano sbuffando nella Cisalpina. Io resto, a quanto sembra, per far compagnia a mio padre. Addio, fresca e spensierata giovinezza, eterna beatitudine dei vecchi numi d'Olimpo, e dono celeste ma caduco a noi mortali! Addio rugiadose aurore, sfavillanti di sorrisi e di promesse, annuvolate soltanto dai bei colori delle illusioni! Addio tramonti sereni, contemplati oziosamente dal margine ombroso del ruscello, o dal balcone fiorito dell'amante! Addio vergine luna, ispiratrice della vaga melanconia e dei poetici amori, tu che semplice scherzi col capo ricciutello dei bambini, e vezzeggi innamorata le pensose pupille dei giovani! Passa l'alba della vita come l'alba d'un giorno; e le notturne lagrime del cielo si convertono nell'immensa natura in umori turbolenti e vitali. Non piú ozio, ma lavoro; non piú bellezza, ma attività; non piú immaginazione e pace, ma verità e battaglia. Il sole ci risveglia ai gravi pensieri, alle opere affaticate, alle lunghe e vane speranze; egli s'asconde la sera lasciandoci un breve e desiderato premio d'obblio. La luna ascende allora la curva stellata del cielo, e diffonde sulle notti insonni un velo azzurrino e vaporoso, tessuto di luce di mestizia di rimembranze e di sconforto. Sopraggiungono gli anni sempre piú torvi ed accigliati, come padroni malcontenti dei servi; sembrano vecchi cadenti all'aspetto, e piú son canute le fronti, piú le orme loro trapassano rapide e leggiere. È il passo dell'ombra che diventa gigante nell'appressarsi al tramonto. - Addio atrii lucenti, giardini incantati, preludi armoniosi della vita!... Addio verdi campagne, piene di erranti sentieri, di pose meditabonde, di bellezze infinite, e di luce, e di libertà, e di canto d'augelli! Addio primo nido dell'infanzia, case vaste ed operose, grandi a noi fanciulli, come il mondo agli uomini, dove ci fu diletto il lavoro degli altri, dove l'angelo custode vegliava i nostri sonni consolandoli di mille visioni incantevoli! Eravamo contenti senza fatica, felici senza saperlo; e il cipiglio del maestro, o i rimbrotti dell'aia erano le sole rughe che portasse in fronte il loro destino! L'universo finiva al muricciuolo del cortile; là dentro se non era la pienezza di ogni beatitudine, almeno i desiderii si moderavano, e l'ingiustizia prendeva un contegno cosí fanciullesco, che il giorno dopo se ne rideva come d'una burla. I vecchi servitori, il prete grave e sereno, i parenti arcigni e misteriosi, le fantesche volubili e ciarliere, i rissosi compagni, le fanciullette vivaci, petulanti, e lusinghiere ci passavano dinanzi come le apparizioni d'una lanterna magica. Si avea paura dei gatti che ruzzavano sotto la credenza, si accarezzava vicino al fuoco il vecchio cane da caccia, e si ammirava il cocchiere quando stregghiava i cavalli senza timore di calci. Per me gli è vero ci fu anche lo spiedo da girare; ma perdono anche allo spiedo, e torrei volentieri di girarlo ancora per riavere l'innocente felicità d'una di quelle sere beate, fra le ginocchia di Martino, o accanto alla culla della Pisana. Ombre dilette e melanconiche delle persone che amai, voi vivete ancora in me: fedeli alla vecchiaia voi non fuggite né il suo seno gelato né il suo rigido aspetto; vi veggo sempre vagolare a me dintorno come in una nube di pensiero e d'affetto; e scomparir poi lontano lontano nell'iride variopinta della mia giovinezza. Il tempo non è tempo che per chi ha denari a frutto: esso per me non fu mai altro che memoria desiderio amore speranza. La gioventù rimase viva alla mente dell'uomo; e il vecchio raccolse senza maledizione l'esperienza della virilità. Oh come mai avrà a finire in nulla un tesoro di affetti e di pensieri che sempre s'accumula e cresce?... L'intelligenza è un mare di cui noi siamo i rivoli e i fiumi. Oceano senza fondo e senza confine della divinità, io affido senza paura ai tuoi memori flutti questa mia vita omai stanca di correre. Il tempo non è tempo ma eternità, per chi si sente immortale. E cosí ho scritto un degno epitaffio su quegli anni deliziosi da me vissuti nel mondo vecchio; nel mondo della cipria, dei buli e delle giurisdizioni feudali. Ne uscii segretario d'un governo democratico che non aveva nulla da governare; coi capelli cimati alla Bruto, il cappello rotondo colle ali rialzate ai lati, gli spallacci del giubbone rigonfi come due mortadelle di Bologna, i calzoni lunghi, e stivali e tacchi cosí prepotenti che mi si udiva venire dall'un capo all'altro delle Procuratie. - Figuratevi che salto dagli scarpini morbidetti e scivolanti dei vecchi nobiluomini! Fu la piú gran rivoluzione che accadesse per allora a Venezia. Del resto l'acqua andava per la china secondo il solito, salvoché i signori francesi si scervellavano ogni giorno per trovar una nuova arte da piluccarci meglio. Erano begli ingegni e ce la trovavano a meraviglia. I quadri, le medaglie, i codici, le statue, i quattro cavalli di san Marco viaggiavano verso Parigi: consoliamoci che la scienza non avesse ancor inventato il modo di smuovere gli edifici e trasportar le torri e le cupole: Venezia ne sarebbe rimasta qual fu al tempo del primo successore di Attila. Bergamo e Crema s'erano già occupate definitivamente per riquadrare la Cisalpina; dalle altre provincie si vollero radunar a Bassano deputati che giudicassero sul partito da prendersi. Berthier, destreggiatore, presiedeva per attraversare ogni utile deliberazione; io scriveva a Bassano i desiderii dei Municipali, e ne riceveva le risposte. Il dottor Lucilio, che senza parerlo seguitava ad esser l'anima del nuovo governo, non voleva che si abbandonasse quell'ultima àncora di salute, e destreggiava e si ostinava anche lui. Sembrava che si fosse prossimi ad un accordo di comune gradimento quando il furbo Berthier dichiarò a precipizio che l'accordo era impossibile, e buona notte! Venezia restò colle sue ostriche, e le provincie coi loro presidenti, coi loro generali francesi. Victor a Padova gracchiava impudentemente che non si badasse ai Veneziani, razza putrida e incorreggibile d'aristocratici. Bernadotte, piú sincero, proibiva che da Udine si mandassero deputati alla commediola di Bassano. I tempi erano cosí tristi che la crudeltà era poco men che pietosa, e certo piú meritoria dell'ipocrisia. Nondimeno io tirava innanzi colla benda agli occhi e colla penna in mano, credendo di correre incontro ai tempi di Camillo o di Cincinnato. Mio padre squassava il capo; io non gli badava per nulla, e credeva forse che la volontà o la presunzione d'alcune teste calde avrebbe bastato a slattare quella libertà bambina e già peggio che decrepita. Una sera io vado in cerca della Contessa di Fratta alla solita casa, e mi dicono che essa ha sloggiato e che l'è ita a stare sulle Zattere all'altro capo della città. Trotto fino colà, mi arrampico per una scala di legno malconcia e tarlata e guadagno finalmente un appartamento umido oscuro e quasi sprovvisto di suppellettili. Non poteva tornare in me dalla maraviglia. Nell'anticamera mi viene incontro la Pisana col lume; lo stupore cresce, e la seguo quasi trasognato fino alla camera di ricevimento. Mio Dio, qual compassione!... Trovai la Contessa accasciata in un seggiolone di vecchio marrocchino nero tutto spelato; una lucernetta ad olio agonizzava sopra un tavolino appoggiatosi al muro per non cadere. Del resto una vera camera da affittare, senza mobilie, senza cortine, col pavimento di assicelle sconnesse, e il solaio di travi malamente incalcinati. Le pareti nude e lebbrose, le porte e le finestre tanto ben riparate che la fiamma miserabile della lucerna stava sempre per ispegnersi. Accanto alla Contessa un vecchietto slavato, bianco, paffutello sedeva sopra una scranna di paglia; egli portava l'elegante arnese dei patrizi, ma una tossicina ostinatella e grassiccia contrastava alquanto colla gioventù di quell'acconciatura. La Contessa lesse sulle mie sembianze la maraviglia e il rammarico; laonde si compose alla sua piú bella cera d'allegria per darmi una smentita. - Vedi, Carlino? - mi diss'ella con un brio piuttosto forzato, - Vedi, Carlino, se sono una madre di famiglia ben avveduta? La rivoluzione ci ha rovinati, ed io mi rassegno a ristringermi a sparagnare per queste care viscere di figliuoli!... - E in ciò dire guardava la Pisana, che le si era seduta a fianco rimpetto al nobiluomo, e teneva gli occhi sul petto e le mani nelle tasche del grembiale. - Ti presento mio cugino, il nobiluomo Mauro Navagero - continuò ella - un cugino generoso e disposto a stringere vieppiù con noi i vincoli della parentela. In poche parole fino da questa mattina egli è il promesso sposo della nostra Pisana! Io credo che vidi in quell'istante tutte le stelle del firmamento come se un macigno piombatomi addosso m'avesse schiacciato il petto: indi, a quel balenio di stelle successe una cecità d'alcuni secondi, e poi tornai ad ascoltare e a guardare senzaché potessi raccapezzarci nulla di quelle facce che aveva intorno e del ronzio che mi sussurrava nelle orecchie. M'immagino che la Contessa si sarà dilungata a magnificarmi il decoro di quel parentado; certo che il nobiluomo Navagero per la sua tosse, e la Pisana per la confusione, non aveano tempo da perdere in chiacchiere. Confesso che l'amore della libertà, l'ambizione e tutti gli altri grilli, ficcatimi in corpo dalla generosità della stessa mia indole e dai raggiri di mio padre, fuggirono via, come cani scottati da un rovescio d'acqua bollente. La Pisana mi rimase in mente sola e regina; mi pentii, mi compunsi, mi disperai di averla trascurata per tutto quel tempo, e m'accorsi che io era troppo debole o viziato per trovare la felicità nelle grandi astrazioni. Benedetto quello stato civile dove gli affetti privati sono scala alle virtù civili; e dove l'educazione morale e domestica prepara nell'uomo il cittadino e l'eroe! Ma io era nato da un'altra fungaia; i miei affetti contrastavano pur troppo fra loro, come i costumi del secolo passato colle aspirazioni del presente. Malanno che si perpetua nella gioventù d'adesso, e di cui si piangono i guasti, senza pensare o senza poter provvedere al rimedio. Quando osai rivolgere gli occhi alla fanciulla sentii come un impedimento che me li faceva stornare; erano gli sguardi freddi e permalosi del frollo fidanzato che erravano dal volto della Pisana al mio coll'inquietudine dell'avaro. Vi sono certe occhiate che si sentono prima di vederle; quelle di Sua Eccellenza Navagero ferivano direttamente l'anima senza incommodare il nervo ottico. Però mi incommodavano tutto quanto, per modo che dovetti ricorrere per ultimo e disperato rifugio al viso raggruzzolito della Contessa. Costei appariva cosí raggiante di contentezza che ne arrabbiai a tre tanti e finii col perder la bussola affatto. Uno sprovveduto che appicca lite in un crocchio dove tutti gli stanno contro, sarebbe in una condizione migliore assai della mia d'allora. La Pisana col suo riserbo quasi beffardo mi inveleniva peggio degli altri. Stava per alzarmi, per scappar via disperato a sfogare dovechessia il mio accoramento, quando entrò a saltacchioni il mio signor padre. Egli era piú vispo, piú strano del consueto; e pareva a notizia di tutto ciò che aveva tanto sorpreso e sconsolato me, poiché si congratulò della buona fortuna col Navagero, e volse alla sposina uno di que' suoi occhietti che parlavano meglio d'una lingua qualunque. Cosa volete? quel vedere anche mio padre schierarsi fra i miei nemici, a papparsi come tanta manna la mia disgrazia, mi diede un furor tale che non pensai piú ad andarmene, e sentii nell'animo qualche cosa di simile all'eroismo d'Orazio solo contro Toscana tutta. Mi rassettai sulla mia seggiola sfidando orgogliosamente il risolino della Contessa, l'indifferenza della Pisana, la gelosia del Navagero, e la crudeltà di mio padre. Quando poi convenne alzarsi per partire, m'avvidi troppo tardi che le ginocchia mi reggevano appena, e chi ci avesse osservato camminare, me, mio padre, e il nobiluomo Navagero, ci avrebbe scambiati per tre felicissimi ubbriachi in grado diverso. Non poteva dar retta ai discorsi che mi facevano, e per la prima volta mi ficcai in letto senza pensare al corno dorato del futuro doge democratico di Venezia. Mille disegni varii, bizzarri, spaventevoli mi improvvisavano nel cervello tali arabeschi che non arrivava a tenerci dietro. Sfidare a stocco e spada il Navagero, infilzarlo come un ranocchio, indi intimare alla Pisana la mia solenne maledizione e gettarmi nel canale per la comoda via della finestra; ovvero dopo ammazzato colui prender fra le braccia costei, trafugarla sopra uno stambecco di Smirne, e menarla meco alla vita del deserto, fra le rovine di Palmira o sulle sabbie dell'Arabia Petrea, ecco i miei voli pindarici meno arrisicati. Del resto poetava senza numeri senza accenti senza rime: non pensava né al difficile né all'impossibile, e avessi avuto in istalla un ippogrifo e nelle tasche i tesori di Creso, non avrei edificato castelli in aria con maggior libertà e magnificenza. Cosí sognando m'addormentai, e sognai poscia dormendo, e svegliatomi di buon mattino rappiccai il filo ai sogni del giorno prima. Amilcare mi domandò ragione di quella mia continua fantasticaggine, ed io fuori a contargliene piú forse che non avrebbe voluto. - Vergogna! un segretario della Municipalità perdersi in cotali giullerie! Oh non arrossiva di esser geloso di un vecchio aristocratico bavoso e slombato; e di sdilinquire scioccamente per una vanerella che pur di maritarsi avrebbe sposato un satiro?... Questo già si vedeva apertamente; e il bel contratto che sarebbe stato il mio di sostenere una tal parte!... Meglio attendere a mostrarsi uomo, darsi tutto alla patria, al culto della libertà, allora appunto che ci stava addosso tanto bisogno! Amilcare parlava col cuore e mi persuase; non valeva proprio la pena di inasinire dietro la Pisana; invece le cure del governo esigevano tutto il mio tempo, tutta la mia premura. Feci forza a me stesso; perdonai la vita al Navagero, e quella scena ch'io aveva immaginata di rappresentarla alla Pisana prima di annegarmi o di partire per l'Arabia, la mutai in una tacita apostrofe: - "Sta' pure, spergiura! Sei indegna di me!" - Che io avessi diritto di pronunciare una tale sentenza, ne dubito alquanto. Primo punto la ragazza nulla mi aveva giurato, e in secondo luogo la mia pietosa cessione in favore di Giulio Del Ponte e la successiva trascuraggine potevano averle dato a credere che mi fosse uscita dal cuore ogni smania di farla mia. Invece io so benissimo che mai non ne ho smaniato tanto come allora; ma la bizzarria e l'incredibilità del mio temperamento mi obbligava appunto a non tenerle nascoste le sue intime transazioni. Il fatto sta peraltro, che decisi di romperla colla ferma convinzione di esser io la vittima: e questo mi autorizzava a farle ancora il patito piú che non me lo consentissero i miei intendimenti eroici e la pazienza del Navagero. Il conte Rinaldo, che rade volte compariva nella camera di sua madre, usciva in qualche moto di stizza a vedermi tortoreggiare dinanzi a sua sorella. Anch'egli, poveretto, dava addosso al cane con tutti gli altri; ed io non mi convertiva d'un punto, persuaso persuasissimo di essere tutto nella mia segreteria, e di non pensare alla Pisana, né al suo matrimonio. Gli affari della casa di Fratta s'imbrogliavano peggio che mai. La signora Contessa giocava sempre accanitamente, e quando non c'erano denari ne cercava al Monte di Pietà. La filosofia del Contino e la spensieratezza della Pisana non se ne incaricavano punto; e credo che Sua Eccellenza Navagero fosse destinato secondo essi a raccomodare tutti quegli sdrucii. Quello che mi maravigliava assaissimo si era la dimestichezza che continuava fra la Contessa e mio padre, benché questi non avesse allentato d'un punto le cordicelle della sua borsa e avesse attraversato con mille modi il disegno che covava la Contessa di un buon matrimonio fra me e la Pisana. Io aveva capito cosí in ombra che a mio padre non garbavano questi progetti, e che egli senza parlarmene indovinava la mia propensione e studiavasi di sviarla. Ma come aveva poi fatto a contrastare le mire della Contessa serbandosele in grazia lo stesso? Ecco quello che m'insegnai di chiarire; e scopersi bel bello che egli era stato il sensale dello sposalizio col cugino Navagero, e che la mia sfortuna io la doveva soprattutto a lui. Quanto a me, egli, il vecchio negoziante, aveva delle alte idee; una donzella ricchissima della famiglia Contarini gli sarebbe piaciuta per nuora, e non mancava di darmi qualche colpetto di tanto in tanto perché io la distinguessi fra le molte ragazze, le quali (bando alla superbia) non avrebbero sdegnato a quel tempo di unire il mio al loro nome. Tutti gli attori hanno sulle scene del mondo la loro beneficiata; e allora toccava a me. Il cittadino Carletto Altoviti, ex-gentiluomo di Torcello, segretario della Municipalità, prediletto del dottor Lucilio, e celebre in Piazza San Marco pei suoi begli abiti, per la sua disinvoltura, e sopratutto pei milioni del signor padre, non era un uomo da buttarlo in un canto. Io peraltro, raumiliato nella mia boria dalla ribellione della Pisana, non mi gonfiava piú per cotali meriti; e in onta alle esortazioni di Amilcare non sapeva piú sostenere il mio volo nel cielo sublime della libertà e della gloria. Quel cielo cominciava ad oscurarsi a minacciare tutto all'intorno grossi temporali. Mi fosse anche crollata la terra sotto i piedi, non ci mancava altro! Tuttavia siccome era uomo di cuore ed onorato, non trasandava le mie occupazioni al Palazzo Municipale. Soltanto mi piaceva piú di rodermi di rabbia al fianco della Pisana che fiutare in quel palazzo la futura aura dogale pronosticatami da mio padre. In quel torno, quando le faccende di Venezia s'erano già acconciate alla servitù francese, e alla vaga aspettazione d'un avvenire che appariva sempre piú triste, il dottor Lucilio comparve in casa della Contessa di Fratta. Costei temeva già da un mese quella visita e non avea piú il coraggio di rifiutarla. Il dottore sedette adunque dinanzi alla Contessa con quel suo solito fare né umile né arrogante, e le chiese nei debiti modi la mano della Clara. La Contessa finse una gran sorpresa e di essere scandolezzata da una tale domanda; rispose che la sua figliuola era prossima a pronunciar i voti e non intendeva per nulla avventurarsi ai pericoli del mondo, da lei con tanta prudenza schivati; accennò da ultimo, ai diritti anteriori del signor Partistagno il quale seguitava sempre ad empire bestialmente Venezia delle sue lamentazioni sul sacrifizio imposto alla Clara, e certo non avrebbe consentito che ella uscisse di convento per isposarsi ad un altro. Lucilio rimbeccò netto e tondo che la Clara s'era promessa a lui prima che a nessuno, che i voti non erano ancor pronunciati, che le leggi democratiche non impedivano omai la loro unione per nessun conto, che la Clara aveva toccato la maggiore età, e che in quanto al Partistagno, egli se ne rideva come de' suoi sussurri che divertivano da un anno i crocchi d'ogni ceto. La Contessa soggiunse colle labbra strette e con un sorriso maligno che, giacché aveva messo in campo l'età omai adulta della Clara, poteva rivolgersi direttamente a lei, e che si congratulava di vederlo cosí fermo ne' suoi propositi, benché forse un po' tardivo a decidersi, e che gli augurava del resto che tutto andasse a seconda de' suoi desiderii. - Signora Contessa - conchiuse Lucilio - io son fermo com'ella dice ne' miei propositi, e lo fui sempre da molti anni a questa parte, benché volessi piuttosto in grazia loro capovolgere il mondo che violare una convenienza od implorare a mani giunte un favore. Ora che le circostanze ci hanno messo del pari, non esito a chiedere quello che altri è pronto a concedermi. Io sono ben fortunato che ella non voglia opporsi colla materna autorità alle piú soavi ed ostinate speranze. - S'accomodi, s'accomodi pure! - aggiunse in fretta la Contessa. Pareva che cosí parlasse per paura di Lucilio, ma forse ella pensava alla madre Redenta e derogava fiduciosamente a lei quello scabroso incarico di difendere l'anima della Clara contro gli artigli del diavolo. La reverenda madre stava alle vedette da un pezzo; e il dottor Lucilio nell'accomiatarsi dalla Contessa non credette forse di esser ancora al bel principio dell'impresa. Tuttavia che fosse molto sicuro non lo vorrei affermare. Egli avea procrastinato di giorno in giorno per veder prima assicurato a Venezia il trionfo del suo partito e delle opinioni democratiche. Allora, forse prima d'ogni altro, fiutava il vento contrario; e superbo in volto ma disperato nell'animo s'affrettava a giovarsi di quegli ultimi favori della fortuna, per soddisfare il voto supremo del suo cuore. Vedeva capitombolare que' bei castelli in aria di libertà politica, di gloria, e di pubblica prosperità, e sperava salvarsi, aggrappandosi con un'àncora alla felicità domestica. Con tali pensieri pel capo s'avviò al convento di Santa Teresa, annunciò alla portinaia il proprio nome, e chiese di avere in parlatorio la contessina Clara di Fratta. La portinaia scomparve nel monastero e tornò indi a poco a riferire che la nobile donzella desiderava sapere la cagione della sua visita, che ella avrebbe cercato di soddisfarlo senza distogliersi dal raccoglimento claustrale. Lucilio trabalzò di sorpresa e di rabbia; ma vide sotto questa risposta una gherminella fratesca, e tornò a ripetere alla portinaia che un suo colloquio colla signorina Clara era necessario, indispensabile; e che la signorina doveva ben saperlo anche lei, e che nessuno al mondo poteva negargli il diritto di reclamarlo. Allora la conversa rientrò ancora; e tornò dopo pochi istanti a dire con faccia arcigna che la donzella sarebbe discesa indi a poco in compagnia della madre compagna. Questa madre compagna non andava giù pel gozzo a Lucilio, ma egli non era uomo da prendersi soggezione d'una monaca, e aspettò un po' irrequieto, misurando a gran passi il pavimento marmoreo, rosso e bianco del parlatorio. Passeggiava a quel modo da lunga pezza quando entrarono la madre Redenta e la Clara: quella col collo torto cogli occhi bassi colle mani incrocicchiate sullo stomaco, e i mustacchietti del labbro superiore piú irti del solito: questa invece calma e serena come sempre; ma la sua bellezza erasi illanguidita pel chiuso del monastero, e l'anima ne traluceva piú pura e ardente che mai, come stella da una nebbia che va diradando. Erano molti anni che i due amanti non si vedevano cosí dappresso; pure non diedero segno di gran turbamento; la loro forza, il loro amore stavano cosí profondi nel cuore, che alle sembianze non ne giungeva che un riflesso fioco e lontano. La madre Redenta cercava fra le folte siepaie delle sue ciglia un traforo per cui spiare senz'essere osservata; le sue orecchie vigilavano cosí spalancate che avrebbero sentito volare una mosca all'altro capo della stanza. - Clara - cominciò a dire Lucilio con voce forse piú commossa ch'ei non voleva - Clara, io vengo dopo un lunghissimo tempo a ricordarvi quello che mi avete promesso; credo che anche per voi come per me questi lunghi anni non saranno stati che un sol giorno di aspettazione. Ora nessun ostacolo si oppone ai desiderii del cuor nostro; non piú coll'impazienza e colla sbadataggine della giovinezza, ma col senno afforzato, e col proposito immutabile dell'età matura, io domando che mi ripetiate con una parola la promessa di felicità che m'avete fatta al cospetto del cielo. Né volontà di parenti né tirannia di leggi né convenienze sociali impediscono piú la vostra libertà o la mia delicatezza. Io vi offro un cuore, pieno di un solo affetto, acceso tutto d'una fiamma che non morrà mai piú, e provato e riprovato dal lavoro dalla pazienza dalla sventura. Clara, guardatemi in volto. Quando è che sarete mia?... La donzella tremò da capo a piedi, ma fu un attimo; ella appoggiò sul petto una mano che contrastava pallidissima colla nera tonaca delle novizie, e alzò nel volto di Lucilio uno sguardo lungo e misterioso che pareva cercasse traverso ad ogni cosa le speranze del cielo. - Lucilio - rispose ella premendo alquanto quella mano sul cuore - io ho giurato innanzi a Dio di amarvi, ho giurato nel mio cuore di farvi felice per quanto starà in me. È vero: me ne sovvengo sempre, e mi adopero sempre perché le mie promesse abbiano quel maggiore effetto che Dio loro consente. - Come sarebbe a dire? - sclamò ansiosamente Lucilio. La madre Redenta s'arrischiò a sollevare le palpebre, per metter fuori due occhi cosí spaventati come se appunto l'avesse veduto le corna di Berlicche. Ma il calmo aspetto della Clara rimise piú tranquilli quegli sguardi di dietro le solite feritoie. - Vi dirò tutto - soggiungeva intanto la donzella - vi dirò tutto, Lucilio, e voi giudicherete. Io son entrata in questo luogo di pace per fidare l'anima mia a Dio e alla sua Provvidenza; vi ho trovato affetti pensieri e conforti che mi fanno omai guardare con ribrezzo al resto del mondo... Oh no, no Lucilio! Non vi sdegnate! Le anime nostre non erano fatte per trovare la felicità in questo secolo di vizio e di perdizione. Rassegnamoci e la troveremo lassù! - Che dite mai? quali parole pronunciate ora, che mi straziano il cuore ed escono dalle vostre labbra colla soavità d'una melodia? Clara, per carità tornate in voi!... Pensate a me!... Guardatemi in volto!... Ve lo ripeto con le mani in croce: pensate a me! - Oh ci penso! ci penso anche troppo, Lucilio; perché son troppo impigliata nelle cose mondane per sollevarmi pura e semplice a Dio!... Ma che volete, Lucilio che volete da me?... La Repubblica nostra è caduta in balía di uomini stranieri senza religione e senza fede. Non v'è piú bene non v'è piú speranza, altro che nel cielo per le anime timorate di Dio. Perché fidarsi, Lucilio, alle lusinghe di quaggiù?... Perché stabilire una famiglia in questa società che non ha piú rispetto a Dio ed alla Chiesa?... Perché?... - Basta, basta, Clara!... Non prendetevi scherno del mio dolore, della mia rabbia! Pensate a quello che dite, Clara; pensate che voi dovete render conto dell'anima mia a quel Dio che adorate e che intendete servir meglio consumando un sí atroce delitto. La Repubblica è caduta?... la religione è in pericolo?... Ma che ha a far tutto ciò con le promesse ch'io ebbi da voi?... Clara, pensate che il primo precetto e il piú sublime del Vangelo vi comanda di amare il vostro prossimo. Ora, come prossimo, nulla piú che come prossimo, io vi domando che vi ricordiate dei vostri giuramenti e che non vi facciate un merito presso a Dio di essere spergiura!... Dio abborre e condanna gli spergiuri; Dio rifiuta i sacrifizi offerti a prezzo delle lagrime e del sangue altrui!... Se volete sacrificarvi, or bene sacrificatevi a me!... Se non come felicità accettatemi come martirio!... La madre Redenta tossí romorosamente per guastare l'effetto di queste parole recitate da Lucilio con un furor tale di disperazione e di preghiera che spezzava l'anima. Ma la Clara si volse a lei rassicurandola con un gesto, indi levato uno sguardo al cielo non temé di avvicinarsi a Lucilio e di mettergli castamente una mano sulla spalla. Il povero sapiente indovinò tutto da quello sguardo, da quell'atto, e sentí col cuore lacerato di non poter seguire in cielo quell'anima che gli sfuggiva, beata nei proprii dolori. - Ma perché, perché mai, o Clara? - proseguí egli senza pur aspettare ch'essa gli dichiarasse il senso terribile di quei movimenti. - Perché volete uccidermi mentre potreste risuscitarmi?... Perché vi dimenticate dell'amore santo eterno indissolubile che m'avete giurato? - Oh quest'amore, piú santo piú eterno piú indissolubile di prima ve lo giuro anche adesso! - rispose la donzella. - Soltanto le nostre nozze siano in cielo poiché sulla terra Iddio le proibisce ai suoi fedeli!... Ve lo giuro, Lucilio! Io vi amo sempre, io non amo che voi!... Quest'amore ho potuto purificarlo santificarlo, ma non potrei strapparmelo dalle viscere senza morire! Da ciò appunto vedete se la mia vocazione è vera e tenace. Vi amerò sempre, vivrò sempre con voi in comunione di preghiere e di spirito. Ma di piú, Lucilio, voi non avete diritto di chiedermi... Di piú io non potrei concedervi perché Dio me lo proibisce! - Dio adunque vi comanda di uccidermi! - esclamò con un urlo Lucilio. La madre Redenta gli corse dappresso a raccomandargli la temperanza perché le suore stavano allora in meditazione e potevano aver molestia da quelle vociate. La Clara abbassò gli occhi; pianse la poveretta; ma né si piegò né si scosse dal suo fermo proposito. Le torture ch'ella provava erano immense; ma la suora compagna avea contato bene sulle astuzie adoperate per affatturarla in quel modo. Omai l'anima della Clara abitava in cielo, e le cose di quaggiù non le vedeva che da quelle altezze infinite. Avrebbe scontato colla propria morte un peccato veniale di Lucilio, ma l'avrebbe anche ucciso per assicurargli la salute eterna. Infatti ella tramortí e tremò tutta, ma si strinse piú vicina a lui, e riavendosi subitamente soggiunse: - Lucilio, mi amate? Or bene fuggitemi!... Ci incontreremo, siatene certo, in luogo migliore di questo... Io pregherò per voi, pregherò per voi nei cilici e nel digiuno... - Bestemmia! - gridò l'altro allora. - Voi pregare per me?... Il carnefice che intercede per la vittima!... Dio avrà orrore di tali preghiere! - Lucilio! - soggiunse modestamente la Clara. - Tutti siamo peccatori, ma quando... La madre Redenta interruppe queste parole con una opportuna gomitata. - Umiltà, umiltà, figliuola! - brontolò essa. - Non vi bisogna parlare né insegnare altrui quando non ne sia mestieri strettamente. Lucilio sbalestrò alla vecchia un'occhiata quale ne suol dardeggiare il leone tra le sbarre della sua gabbia. - No, no - soggiunse egli amaramente. - Insegnatemi anzi, ché son molto novizio in quest'arte, e morrò certo di crepacuore prima d'averla imparata!... - Ed io, credete ch'io brami e voglia vivere un pezzo? - soggiunse mestamente la Clara. - Sappiate che nessuna grazia domando alla Madonna con tanta insistenza con tanto fervore quanto questa di morir fra breve e di salire in cielo a intercedere per voi!... - Ma io, io sdegno le vostre preghiere! - scoppiò rugghiando Lucilio. - Io voglio voi! voglio la mia felicità, il ben mio!... - Calmatevi! abbiate compassione di me!... Nel mondo non v'è piú bene, lo so pur troppo!... Sapete che corre già la voce dell'abolizione di tutti gli Ordini religiosi, e della demolizione dei conventi!... - Sí sí; e questa voce si avvererà!... Ve lo giuro io che si avvererà. Io stesso farò sí che di questi sepolcri di viventi non resti piú pietra sopra pietra!... - Tacete, Lucilio, per carità tacete! - riprese la Clara guardando affannosamente la madre compagna che si dimenava forse con segreta compiacenza sulla sua seggiola. - Convertitevi al timore di Dio e alla fede vera fuor della quale non v'è salute!... Non commettete questi peccati di eresia che vi fanno colpevole mortalmente dinanzi a Dio! Non oltraggiate la santità di quelle anime che sposano su questa terra il loro Creatore per renderlo piú clemente verso i loro fratelli d'esilio!... - Anime ipocrite, anime false e corrotte - esclamò digrignando Lucilio - le quali adoperano per accalappiare per domare altre anime semplici e deboli!... - No, signor dottore carissimo; non voglia calunniarci cosí alla cieca - entrò a dire con voce secca e nasale la madre compagna. - Queste anime ipocrite che sacrificano la vita intiera per afforzare e per salvare le deboli, sono le sole che difendano omai la fede e i buoni costumi contro le perversità mondane. È merito loro se molte anime deboli diventano cosí forti e sublimi da appoggiare ogni speranza in Dio, e da riguardar le parole d'un semplice voto come una barriera insuperabile che le divide per sempre dal consorzio dei tristi e degli increduli. Gli è vero - soggiunse ella chinando il capo - che restiamo congiunte ad essi col vincolo spirituale dell'orazione, la quale, vogliamo sperarlo, gioverà a salvarne qualcuno dagli artigli infernali. - Oh presto presto i tristi e gli increduli sciorranno i vostri voti! - sclamò Lucilio con voce tonante. - La società è opera di Dio e chi si ritragge da essa ha il rimorso del delitto o la codardia dello spavento, o la dappocaggine dell'inerzia nell'animo!... - In quanto a voi (e si volgeva specialmente alla Clara), in quanto a voi che avete pervertito la coscienza vostra disumanandola, quanto a voi che salite al cielo calpestando il cadavere d'uno che vi ama, che non vede, che non vive, che non pensa che per voi, oh abbiatevi sul capo l'ira e la maledizione... - Basta Lucilio! - sclamò la donzella con piglio solenne. - Volete saper tutto? Or bene ve lo dirò!... I voti ch'io pronuncerò domenica solennemente dinanzi all'altare di Dio, li ho già espressi col cuore dinanzi al medesimo Dio in quella notte fatale che i nemici della religione e di Venezia entrarono in questa città. Fummo otto ad offerire la nostra libertà la nostra vita per l'allontanamento di quel flagello, e se quegli infami quegli scellerati saranno costretti ad abbandonare la preda sí vilmente guadagnata, Dio avrà forse benignamente riguardato il nostro sacrifizio!... La madre Redenta ghignò sotto la cuffia, Lucilio dimise un poco del suo furore e mosse alcun passo verso l'uscio: indi tornò presso la Clara quasi gli fosse impossibile di abbandonarla a quel modo. - Clara - riprese egli - io non vi pregherò piú; lo veggo, sarebbe inutile. Ma vi darò lo spettacolo di tanta infelicità che i rimorsi vi perseguiteranno fin nel silenzio e nella pace del chiostro. Oh voi non sapete, non avete mai saputo quanto vi amassi!... Non avete misurato gli abissi profondi ed infiammati dell'anima mia tutti pieni di voi: non avete dimenticato voi stessa, come io dimenticava affatto me, per vivere sempre in voi. I sacrifizi ve li imponete con mille sottigliezze mentali, non li accettate dalla santa spontaneità dell'affetto e del sentimento!... Clara, io vi lascio a Dio, ma Dio vi vorrà egli?... L'adulterio è egli permesso da quei santi comandamenti che sono il sublime compendio dei nostri doveri? Non so se cosí parlando Lucilio intendesse di capitolare o di tentare un ultimo colpo. Del resto fra lui e la Clara combattevano come due schermitori fuori di misura, contendevano come due litiganti ognuno de' quali adoperava una lingua sconosciuta all'altro. La madre Redenta trionfava sotto la sua cuffia di quel potente e instancabile macchinatore che, si può dire, aveva dato l'ultimo crollo ad un governo di quattordici secoli, e mutato faccia ad una bella parte di mondo. Perché mai godeva ella di adoperare cosí?... Prima di tutto perché non v'ha orgoglio che superi l'orgoglio degli umili; indi perché si vendicava sugli altri della infelicità propria, e da ultimo perché voleva mantenere alla Contessa ciò che le aveva promesso. Dopo tanti anni di lento lavorio ammirava allora nella costanza della Clara l'opera propria, e non avrebbe dato quei momenti per l'abbazia piú cospicua dell'Ordine. Quanto a Lucilio, dopo tanti anni di fatica, di perseveranza e di sicurezza, dopo aver superato ogni impedimento, e atterrato ogni ostacolo, vedersi respinto senza remissione dallo scrupolo divoto d'una donzella, e non poter conquidere un'anima dov'egli sapeva di regnar ancora, era per lui un delirio che vinceva la stessa immaginazione!... Con ogni sforzo di mente e di cuore era giunto là dove era impossibile l'avanzare e il retrocedere: era giunto a diffidare di sé, dopo una sí lunga sequela di continui trionfi. La fiducia avuta per l'addietro aggiungeva alla sconfitta una vera disperazione. Tuttavia non credo ch'egli si desse per vinto: giacché egli era di quella tempra che cede solamente alla frattura della morte. Ma l'amore diventò in lui rabbia, odio, furore: e in quelle ultime parole rivolte amaramente alla Clara la sola superbia lottava forse ancora. L'amore s'era sprofondato dentro l'anima sua ad attizzarvi un incendio di tutte quelle passioni che prima servivano a lui ubbidienti e quasi ragionevoli. La donzella nulla rispose agli insulti ch'egli le scagliava; ma quel silenzio esprimeva piú cose d'un lungo discorso, e Lucilio tornò a saltargli contro con un impeto di rimbrotti e d'imprecazioni, come il toro furibondo, che impedito di uscir dall'arena, si spacca il cranio contro lo steccato. Infuriò a sua posta con grande scandalo della madre Redenta, e molta compassione della Clara: indi la volontà riebbe il freno di quelle furie scomposte, e fu tanto forte e orgogliosa da persuaderlo ad andarsene, lasciando per ultimo saluto alla donzella uno sguardo di pietà insieme e di sfida. Lo ripeto ancora che la ferita dell'orgoglio fu in lui forse piú profonda che quella dell'amore; infatti anche in quei terribili momenti egli ebbe campo a pensare di ritirarsi coll'onor delle armi. Io sarei morto ingenuamente di crepacuore; egli si sforzò a vivere per persuadere se stesso che delle proprie passioni della propria vita egli era sempre il solo padrone. Fosse poi vero non potrei assicurarlo. Anzi io mi ricordo averlo veduto a quei giorni; e benché fossi anche troppo occupato de' casi miei, pure non mi sfuggí affatto una tal quale costernazione ch'egli si studiava indarno di celare sotto la solita austera imperturbabilità. A poco a poco peraltro vinse l'uomo vecchio; egli si rizzò ancora, l'orgoglioso gigante, dalla sua breve sconfitta; le sventure della patria lo trovarono forte invincibile a sopportarle; forse tanto piú forte ed invincibile quanto era piú disperato di sé. La Clara pronunciò solennemente i suoi voti, e Lucilio serbò tutta per sé l'angoscia e la rabbia per questa perdita irrimediabile. La Pisana si sposò poco dopo al nobiluomo Navagero: e Giulio Del Ponte li seguí all'altare col sorriso della speranza sul volto. Egli non l'amava come l'amava io. Io solo adunque rimasi a fare spettacolo per ogni luogo del mio furore del mio accoramento. Non potea darmi pace, non potea pensar al futuro senza rabbrividire; eppur non osava neppur allora nei delirii del dolore maledire alla Pisana; e tutte le mie maledizioni le serbava per la Contessa che aveva avvilito la propria figlia in un matrimonio mostruoso per godere l'abbondanza e le comodità di casa Navagero. Seppi poi di piú, che anche le astuzie adoperate per imbigottire la Clara dipendevano da una questione di quattrini. La vecchia non avea pagato al convento che metà della dote e promesso il resto ed assicuratolo sopra le sue gioie: ma lo scrigno era vuoto, le gioie brillavano al Monte di Pietà, ed essa temeva sul serio che la Clara maritandosi le avrebbe chiesto conto di ogni suo avere. Ecco molti guai dovuti alla smania troppo furiosa d'una dama per la bassetta e pel faraone. Il conte Rinaldo si era salvato da quella rovina e dal disonorevole patrocinio del cognato accettando un posto oscurissimo nella Ragioneria del governo. Un ducato d'argento al giorno e la Biblioteca Marciana lo assicuravano da tutti i bisogni della vita. Ma io lo vedeva anche lui camminare per via col capo e cogli occhi internati; scommetto che non era l'ultimo a sentire dolorosamente la viltà di quei costumi, di quei tempi. Lo confesso colla vergogna sul volto; era proprio viltà. Tutti sapevano ove si precipitava e ognuno faceva le viste di non saperlo per esser liberato dall'incommodo di disperarsene. Il solo Barzoni fra i letterati osò alzare la voce contro i Francesi con quel suo libro già in addietro accennato dei Romani in Grecia. Ma questa erudizione falsificata in libello, questa satira stiracchiata colle analogie è già indizio di temperamento fiacco, e di letteratura evirata. Fu un gran sussurro intorno a quel libro ed all'anonimo autore; ma lo leggevano a porte chiuse col solo testimonio della candela, pronti a gettarlo sul fuoco al minimo sussurro ed a proclamare il giorno dopo sui caffè che le depredazioni di Lucullo e l'astuta generosità di Flaminio non somigliavano per nulla al governo generoso e liberale di Bonaparte. Infatti egli ci spogliava della camicia per farne un presente alla libertà di Francia; i futuri servi dovevano restare ignudi come gli iloti di Sparta. Egli aveva già rimpastato intorno a Milano la Repubblica Cisalpina, minaccia piú che promessa alla sempre provvisoria Municipalità di Venezia. La liberazione del signor d'Entragues, ministro borbonico, vilmente consegnatogli dalla scaduta Signoria, lo aveva messo in voce di galantuomo presso gli emigrati; ne speravano un Monk; guardate che nasi! Invece i repubblicani incorreggibili, i demolitori della Bastiglia, gli adoratori degli alberi, i Bruti, i Curzi, i Timoleoni lo adocchiavano di sbieco, tacciandolo sottovoce di alterigia, di falsità, di tirannia. La Municipalità, che dopo lo scacco di Bassano si sentiva mancar sotto i piedi il terreno, ebbe l'ingenuo capriccio di chieder l'incorporamento degli Stati veneziani nella nuova Repubblica lombarda. Ma i governanti di questa risposero parole dure ed altiere; sarebbe un fratricidio, se la volontà sottintesa del Bonaparte non lo spiegasse per servilità. Ad ogni modo restino infamati per sempre i nomi di coloro che sottoscrissero un foglio dove si negava aiuto a una città sorella, sventurata e pericolante. Meglio annegare insieme che salvarsi senza stendere una mano al congiunto all'amico che implora pietosamente soccorso. Io per me sperava come gli altri nella venuta del Generale; sperava che i segni i monumenti della nostra grandezza passata lo avrebbero distolto dalla crudele e premeditata indifferenza ch'egli già cominciava a ostentare a nostro riguardo. Ma invece del Generale, trattenuto da rimorsi o da vergogna, non ci capitò che sua moglie, la bella Giuseppina. Essa sbarcò in Piazzetta con tutta la pompa d'una dogaressa; e ne aveva se non la maestà certo lo splendore in quelle sembianze di vera creola. Tutta Venezia fu a' suoi piedi; coloro che avevano accarezzato Haller, il banchiere, l'amico di Bonaparte, per ottenerne una prolungazione di agonia alla vecchia Repubblica, accarezzarono, adularono, venerarono allora la moglie del sensale dei popoli, perché non si uccidesse prima della nascita quell'aborto nuovo di libertà. Io pure mi pavoneggiai colla mia splendida tracolla di segretario nel corteggio dell'Aspasia parigina. Vidi la sua bella bocca sorridere alle gentilezze veneziane, udii la sua voce carezzevole bisbigliare il francese quasi come un dialetto italiano; io, che n'avea studiato un pochino in quei tempi di infranciosamento universale, balbettava a mia volta l'oui e il n'est pas con taluno degli aiutanti di campo che l'accompagnava. Infine fosse prestigio di bellezza, o apparenza di buona volontà, o tenacità di lusinghe, le speranze degli illusi ebbero qualche ristoro dalla visita di quella donna. Perfino mio padre non iscrollava piú il capo, e mi spingeva ad avanzarmi a farmi vedere nella prima fila degli adulatori. - Le donne, figliuol mio, le donne son tutto - mi diceva egli. - Chi sa? forse il cielo ce l'ha mandata: da picciol seme nascono le grandi piante; non mi stupirei di nulla. Invece il dottor Lucilio, che addomesticato col ministro di Francia fu ammesso piú d'ogni altro all'intrinsichezza della bella visitatrice, non partecipò, per quanto mi pare, a codesto invasamento generale. Egli studiò in Giuseppina non la donna ma la moglie; da questa indovinò il marito, e il pronostico che ne trasse per la nostra sorte che stava nelle sue mani non fu molto favorevole. Si confermò piucchemai nella sua profonda disperazione; e lo vidi a quei giorni piú tetro e misterioso del solito. Gli altri ballonzolavano tutti che parevano alla vigilia del millennio. Municipali, capi-popolo, ex-senatori, ex-nobili, dame, donzelle, abati e gondolieri s'affoltavano dietro la moglie del gran capitano. La bellezza può molto a Venezia; essa potrebbe tutto quando fosse avvivata internamente da qualche alto sentimento, e ce ne diedero tempi piú vicini una prova. Le donne fanno gli uomini, ma l'entusiasmo improvvisa le donne anche dove l'educazione non ha preparato che delle bambole. Piú volte facendo codazzo alla Beauharnais, o nelle sue anticamere, la Pisana e il suo frollo sposino mi passarono rasente il gomito. Io ne guizzava tutto, come se mi rovesciassero una catinella d'acqua sul dorso; ma mi sovveniva della mia dignità, delle raccomandazioni di mio padre e mi faceva pettoruto e disinvolto per attrar l'attenzione dell'ospite illustre. Essa infatti mi osservò, e la vidi chieder conto di me a Sua Eccellenza Cappello che le reggeva il braccio: si parlarono sottovoce, ella mi sorrise e mi porse la mano che baciai con molto rispetto. Cosí si trattavano allora le mogli dei liberatori, con bocca devota e ginocchi piegati. Gli è vero che quella mano era cosí paffutella cosí morbida e perfetta da far uscir di capo che la appartenesse ad una cittadina; molte imperatrici ne avrebbero desiderato un paio di simili, e Catterina II non le ebbe mai, per quanti saponi ed acque nanfe le componessero i suoi distillatori. Allora io diventai, dico dopo quel bacio, un personaggio di gran momento, e la Pisana mi onorò d'un'occhiata che non era certo indifferente. Sua Eccellenza Navagero mi guardò anch'esso con minore indifferenza della moglie, né ci voleva di piú per farmi smarrire affatto. In buon punto soccorse Giulio Del Ponte, che seguiva a quanto sembra la coppia fortunata, e mi volsi tutto confuso a parlare con lui. Non so di che discorressi, ma mi ricorda che cascammo alla Pisana ed al suo matrimonio. Giulio non era piú felice l'un per cento di quanto aveva sperato di poterlo diventare il giorno delle loro nozze; infatti lo adocchiai allora, e lo vidi incadaverito, come un amante in procinto di fallire. La malattia dell'animo lo aveva ripreso; e rodeva lentamente un corpo gracile di natura e già offeso da precedenti disgrazie. Però non lo compatii allora come per l'addietro: aveva capito di qual tempra fosse l'amor suo, e non lo reputava degno né di stima né di pietà. Io mi maraviglio ancora che colla maniera di mia educazione, avessi potuto serbare una tal rettitudine di giudizio nelle cose morali. Ma dubito ancora che l'avessi a danno degli altri, e che verso di me sarei stato di gran lunga piú indulgente. Comunque la sia non entrai a parte per quella volta dell'accoramento di Giulio, e lo lasciai smaniare a disperarsi a sua posta senza piangere: tanto piú che allora non poteva fargli cessione della Pisana, né cancellare a suo conforto quella larva incommodissima di marito. Infatti l'occhiuta e pettegola gelosia di costui era il primo tormento del povero Giulio; ma se ne aggiungeva uno di peggiore assai. - Vedi - mi bisbigliava egli all'orecchio con un rabbioso scricchiolio di denti - vedi quel lesto ufficialino che tien sempre dietro alla Pisana, e saltella dal fianco di lei a quello del marito, ed ora si avvicina alla bella Beauharnais e le fa riverenza e le stringe il dito mignolo con tanta leggiadria?... Or bene, quello è il cittadino Ascanio Minato, di Ajaccio, un mezzo italiano e mezzo francese, un compaesano di Bonaparte, aiutante di campo del generale Baraguay d'Hilliers e alloggiato per ordine della Municipalità nel palazzo Navagero... Come vedi è un bel giovine, un brunetto svelto e di alta corporatura, pieno di brio di superbia e di salute; coraggioso, dicono, come un disperato, e spadaccino piú di don Chisciotte... Per giunta poi ha l'assisa del soldato che alle donne piace piú della virtù. Il vecchio Navagero che non vuol per casa damerini e cascamorti di Venezia ha ben dovuto sopportar in pace questo intruso d'oltremare. Il poveretto ha paura, e per non incorrere nel sospetto d'aristocratico o di misogallo sarebbe anche capace di lasciarsi... Basta!... È l'eroismo della paura e gli sta bene a quel visetto decrepito e bambinesco, chiazzato di giallo e di rosso come l'erba pappagallo. La signorina diventa francese ogni giorno piú; già ella ne cinguetta mezzo dizionario come una parigina, e temo che le parole piú interessanti le abbia già fatte entrare nel dialogo. S'intende già che l'ufficiale còrso non si degna dell'italiano... Io non parlo che italiano!... Figurati!... Ma se n'accorgeranno, se n'accorgeranno di questi liberatori! Hanno cancellato il Pax tibi Marce dal libro del Leone per inscrivervi i Diritti dell'uomo. Peggio per noi che l'abbiamo voluto!... Peggio mille volte tanto per quelli che si rassegnano!... Oh la si vuol vedere bella!... Fin qui io lasciai correre senza argine quel fiume di eloquenza; ma quando egli si mise a far gazzarra d'una sí triste speranza, e a desiderar quasi da un pubblica e cosí grande sventura la vendetta d'un proprio torto affatto privato, allora mi sentii gonfiar entro un temporale di sdegno e scoppiai in un'apostrofe che lo fece restare come una statua. - E tu ti rassegneresti a vederla? - gli dissi io con uno stupore pieno di sprezzo negli occhi. Vi ripeto ch'egli rimase lí a modo d'una statua: salvoché respirava con tanta fatica che almeno le statue questa fatica non l'hanno. Pure un qualche cruccio lo provava anch'io per questo nuovo trascorso della Pisana ch'egli mi raccontava; e nullameno lo giuro che non mi rimase posto nel cuore per un tale rammarico, tanto mi aveva inorridito la cinica scappata di Giulio. Seguitai a rampognarlo a tempestarlo della sua sacrilega speranza; e gli dimostrai che non sono i piú codardi quelli che si rassegnano, appetto di coloro che mettono la loro soddisfazione nella viltà altrui e nella rovina della patria. M'infervorava tanto che rimasimo soli senza che me ne avvedessi: la comitiva avea seguito la Beauharnais nel Tesoro di San Marco, donde si doveva estrarre una magnifica collana di cammei per farlene presente. Quando ci avviammo per raggiungerli erano già usciti in Piazza e tornavano verso il Palazzo del governo. Voi non vi figurerete mai la mia grandissima sorpresa nel discernere fra la gente che corteggiava la francese, Raimondo Venchieredo; e misti colla folla, Leopardo Provedoni e sua moglie, che anch'essi si lasciavano menare dalla curiosità in quella processione. Per quel giorno la cerimonia era finita, onde io, abbandonando il Del Ponte alla sua stizza m'accostai a questi ultimi, colle festose accoglienze e con quei tanti oh di maraviglia e di piacere che si usano coi compaesani e coi vecchi amici in paese forestiero... La Doretta aveva gli occhi perduti dietro a Raimondo, che era scomparso nell'atrio del Palazzo coi cortigiani piú sfegatati; Leopardo mi strinse la mano e non ebbe coraggio di sorridermi. Peraltro condotta ch'egli ebbe la moglie a casa in due stanzette vicino al Ponte Storto, e rimasto solo con me, rimise un poco di quella sostenutezza e mi diede il perché e il percome di quella loro venuta a Venezia. Il vecchio signor di Venchieredo pareva fosse molto domestico a Milano del general Bonaparte; lo aveva seguito a Montebello in un segreto abboccamento coi ministri dell'Austria, e poi aveva fatto un gran correre da Milano a Gorizia, da Gorizia a Vienna, e da Vienna ancora a Milano per tornar poi a Vienna indi a poco. Reduce da quest'ultimo viaggio e ravviato per Lombardia avea fatto sosta a Venchieredo per veder il figliuolo, e gli avea comandato di recarsi tosto a Venezia, ove un prossimo rivolgimento di cose gli preparava grandi fortune. Il signor Raimondo non volendo separarsi dal suo segretario, Leopardo e la Doretta avean dovuto spiantar casa pur essi; e cosí si trovavano a Venezia. Ma questi non ne era punto contento e se non fossero state le preghiere della moglie si sarebbe fermato volentieri in Friuli. Il povero giovine in tali discorsi diventava di tutti i colori, e durava uno stento grandissimo a non iscoppiare. Io me n'accorsi, e ne lo sviai col domandargli novelle del paese nostro e de' miei amici e conoscenti. Cosí conversando e passeggiando per calli e per fondamenta egli si svagò dalla solita tetraggine, e quasi dimenticava le proprie sciagure: ma io soffriva per lui pensando al momento quando se ne sarebbe pur troppo risovvenuto. Intanto egli mi confermò la novella della tristissima piega che prendevano gli affari della famiglia di Fratta. Il Capitano e Monsignore non pensavano che a banchettare e ad attizzar il fuoco: ai vecchi servitori o morti o licenziati era sottentrata una mano di ladroncelli che mettevano a ruba quel poco che rimaneva. Non c'erano piú cazzeruole o tegami che bastassero pel pranzo di Monsignore. La Faustina s'era maritata con Gaetano, lo sbirro di Venchieredo, liberato da poco dalla galera; e partendo avea trafugato e venduto gran parte delle biancherie. Il Capitano e Monsignore litigavano oltreché per l'attizzatoio anche per la camicia: la signora Veronica li accomodava, strapazzandoli ambidue; e il piú buffo si era che al vecchio Sandracca saltava talvolta il ticchio della gelosia; e questo formava un terzo argomento di grandi contese fra lui ed il Canonico. Del resto Fulgenzio faceva alto e basso. Già subito dopo la mia partenza egli avea comperato un podere di casa Frumier vicino a Portovecchio; e poi lo veniva arrotondando col convertire in ipoteche i sussidii che anticipava alla famiglia dei padroni. Per esempio c'era il frumento in granaio e da Venezia gli domandavano denari; se il frumento andava a buon mercato, egli fingeva di comperarlo lui con quella somma che spediva a Venezia, e poi quando le derrate crescevano di prezzo egli ne guadagnava dalla vendita il suo bel salario. Se i grani calavano sempre, si scordava di quel finto contratto, e la somma della compera si scambiava in un mutuo, pel quale egli tratteneva il sette l'otto o il dodici per cento. Cosí conservava la pace della propria coscienza, accrescendo smoderatamente gli utili del proprio ministero. I suoi figliuoli non erano piú sagrestani o portinai; ma Domenico faceva pratica di notaio a Portogruaro, e Girolamo studiava teologia in seminario. In paese si prevedeva che una volta o l'altra Fulgenzio sarebbe divenuto il castellano di Fratta o poco meno. L'Andreini, a cui il conte Rinaldo avea commesso prima di partire una sorveglianza cosí all'ingrosso sulle faccende del castello, se la pigliava con tanto comodo, che quasi quasi pareva anche lui a parte della mangeria. Il Cappellano, poveretto, aveva paura perfino dell'ex-sagrestano e non ci guardava pel sottile: il piovano di Teglio, veduto di mal occhio nella parrocchia pel suo costume arcigno e tirato, aveva in casa sua troppe seccature per poter mettere il naso in quelle degli altri. Già la Diocesi dopo la venuta dei Francesi e la partenza del padre Pendola (costui secondo Leopardo doveva essere anch'egli a Venezia) tornava a dividersi e suddividersi in partiti ed in combriccole. Tanto piú credevano averne il diritto, che la concordia impiastricciata dalle mene furbesche del reverendo non era della miglior lega. - A Venezia il padre Pendola! - sclamai io come fra me. - Che cosa ci sia venuto a fare?... Non mi sembra né luogo né stagione per lui!... Leopardo sospirò sopra a queste mie parole, e soggiunse a voce sommessa che pur troppo i segni non mentiscono, e che soltanto le carogne attirano i corvi. Ciò dicendo eravamo giunti in Piazzetta ond'egli levando gli occhi scoperse quel miracoloso edifizio del Palazzo Ducale; e due lagrime gli corsero giù per le guance. - No, non pensiamo a ciò! - seguitò egli squassandomi il braccio con forza erculea. - Ci penseremo a suo tempo! - Indi riprese a darmi contezza delle cose di laggiù: come sua sorella Bradamante si era sposata a Donato di Fossalta, e Bruto suo fratello e Sandro il mugnaio, presi da furore eroico, s'erano assoldati in un reggimento francese. Questa novella mi sorprese non poco, ma in quanto a Sandro ne pronosticava bene e pensava che avrebbe fatto buona figura, come poi i fatti non mi diedero torto. Bruto, secondo me, si scalmanava troppo per riuscire un soldato perfetto; a menar le mani sarebbe andato di lena, ma quanto al voltare a destra e a sinistra ne sperava poco assai. Leopardo mi toccò del gran cordoglio provato da suo padre per quella determinazione; il povero vecchio aveva perduto la memoria e le gambe, e le faccende del Comune volgevano a caso come Dio voleva. Già del resto l'egual guazzabuglio c'era in tutto; e quell'interregno di ogni governo, quell'intralciarsi quel contrastarsi di tre o quattro giurisdizioni, impotenti le une per vecchiaia e per debolezza, tiranniche le altre per l'indole loro arbitraria e militare, opprimeva la gente per modo che pregavano concordemente perché venisse un padrone solo a cacciar via quei tre o quattro che li angariavano senza esser capaci o interessati a difenderli. Municipalità cittadine, congregazioni comunali e foresi, tirannia feudale, governo militare francese, non si sapeva dove dar il capo per ottenere un briciolo di giustizia. Perciò anche in quel continuo affaccendarsi di reggitori la giustizia privata reputava necessario l'intervenire; le violenze, le risse, gli ammazzamenti erano giornalieri; la forca lavorava a doppio, e i coltelli avevano il loro bel che fare lo stesso. Solamente dove risiedeva un quartiere generale duravano perpetue le feste e il buon umore; colà gli ufficiali facevano scialo delle cose rapite nel contado e nei paesi minori; il popolaccio gavazzava nell'abbondanza d'ogni ben di Dio, e le signore civettavano per vezzo di moda coi lindi francesini. Qual maggior comodità di diventar patrioti e liberali, facendo all'amore?... Succedeva dappertutto come a Venezia: si guardavano in cagnesco alle prime per finire coll'abbracciarsi da ottimi amici. I vizii comuni sono mezzani ad ogni viltà: e vi furono molte che senza avere il temperamento subitaneo e il marito decrepito della Pisana, s'aggiustarono come lei con qualche tenentino di linea per fuggir la mattana di quel tempo provvisorio. Lo so che erano difetti e vigliaccherie ereditate dai padri e dai nonni; ma non bisogna poi passarle buone perché le sono ereditate; s'eredita anche la scrofola che non è poi una giuggiola da tenersela cara. Quanto alla democrazia e al culto della ragione erano piucché altro pretesti cacciati innanzi dalla paura e dalla vanità; infatti chi ballò allora intorno all'albero della libertà, ballò anche al seguente carnevale nelle sale del Ridotto in barba al trattato di Campoformio, e s'insudiciò piú tardi i ginocchi dinanzi al nume di Austerlitz. Credo che festa popolare piú funebre e grottesca di quella nella quale si piantò in piazza San Marco l'albero della libertà non la si possa vedere al mondo. Dietro a quattro briachi, a venti pazzerelle che saltavano, si sentivano strascicate sul lastrico le sciabole francesi; e i Municipali (io in mezzo a loro) stavano ritti e silenziosi sulla loro loggia, come quei vecchi cadaveri appena disotterrati che aspettano un solo buffo d'aria per cadere in polvere. Leopardo mi accompagnò a quella festa, e si morsicava le labbra come un arrabbiato. In una loggia rimpetto a noi sua moglie sedeva vicino a Raimondo, mettendo in mostra tutte le smorfie veneziane che aveva saputo aggiungere alle sue in una settimana di tirocinio. Passavano i giorni tristi monotoni soffocanti. Mio padre era tornato grullo come un turco; egli non parlava che colla sua serva a sgrugnate e a monosillabi; sbatteva la saccoccia delle doble, e non mi seccava piú coi panegirici della Contarini. I Frumier stavano imbucati nel loro palazzo quasi per paura di qualche aria pestilenziale; soltanto Agostino compariva qualche volta al caffè delle Rive per recitare altamente il suo credo giacobinesco. Egli era fra quelli che credevano alla durata del dominio francese; e speravano racquistare per amore o per forza un grado almeno della perduta importanza. Lucilio passava come un'ombra da casa a casa: si vedeva il medico che non tien piú conto né della propria vita né dell'altrui, e attende a guarire piú per abitudine che per convinzione di operar cosí qualche bene a vantaggio dell'umanità. Leopardo diventava sempre piú cupo e taciturno; l'ozio finiva di consumargli lo spirito; egli non faceva pompa dei proprii dolori, ma si accontentava di morire oncia ad oncia. Raimondo e la Doretta non gli badavano punto; diventavano sfrontati a segno da recitare in sua presenza qualche scenetta di gelosia. Egli si cacciava allora la mano nel petto e la traeva colle unghie lorde di sangue; tuttavia le rughe marmoree della sua bella fronte coperta di nuvole non si risentivano guari di nulla. Unico ristoro gli era il versar nel mio seno non i suoi dolori ma le fatali rimembranze della perduta felicità. Allora rompeva per breve tempo il suo silenzio da certosino; le sue parole somigliavano un canto su quelle labbra pure e fervorose; ricordava con dolore infinito, con amara voluttà, senz'ombra di odio e di rancore. Quello invece che smaniava daddovero e sempre era Giulio Del Ponte. In lui era risuscitata con maggior violenza quella malattia che l'avea menato in fil di morte al tempo delle civetterie della Pisana col Venchieredo. Stavolta peraltro egli pareva piú debole, piú affranto, e il suo competitore a tre doppi piú bello, piú spensierato, piú certo della vittoria. Io non andava mai in casa Navagero, perché ne avrei avuto troppo grave angoscia, ma me ne dava novelle Agostino Frumier. Quello sciagurato di Giulio si ostinava indarno a posseder un cuore che gli sfuggiva sempre piú. Ricominciava la lotta del cadavere col vivo; lotta spaventevole che prolunga i dolori e lo spavento dell'agonia senza dare né il desiderio né la pazienza della morte. Il suo volto, scarnato dall'etisia, contraffatto dal dolore e dalla rabbia, metteva raccapriccio: lo spirito gli si torceva impotente e furioso in un perpetuo giro di pensieri truci ed orribili; se mai si sforzava di mostrar qualche brio, i suoi occhi il sorriso la voce si contrapponevano alle parole. Il fiato gli mancava, il discorso gli si ingarbugliava per l'idea dolorosa e inesorabile che lo preoccupava. La stizza di non poter essere piacevole lo guastava peggio che mai, e gli spremeva dalla fronte il vero sudore della morte. Il gaio officiale còrso si prendeva beffe di quello spettro che si frammischiava coi suoi ossi sporgenti coi capelli irti e le mani tremolanti alla loro allegria. La Pisana non si accorgeva di lui, o accorgendosene lo trovava cosí brutto e ingrugnito che le scappava ogni volta di guardarlo due volte. Esso le avea piaciuto per la sua vivacità e la magia de' modi, e la copia e l'incanto della parola; svanito tutto ciò, non discerneva piú il Giulio d'altri tempi. Fosse anche restato tal quale, gli è assai dubbio se il bel officiale non le lo avrebbe fatto dimenticare; ad ogni modo non lo curava piú, e non lo amava per nulla; forse anco non lo avea amato, e da ultimo non voglio ficcarmi addentro in tante conghietture, perché, tra la materia cosí arcana e confusa com'è l'amore, e il temperamento precipitoso variabile indefinito della Pisana, non ci caverei un pronostico da far onore al lunario. Giulio scappava alle volte colle mani alle tempie, e i furori della gelosia e dell'orgoglio offeso nel cuore. Cercava fra le ombre della notte, sulle fondamenta piú lontane e spopolate, quella pace che gli fuggiva dinanzi come la nebbia a chi sale una montagna. Là, sotto il pallido sguardo della luna, al fresco ventolio dell'aura marina, al lontano mormorare dell'Adriatico, un ultimo sforzo di poesia lo faceva risorgere da quel profondo abbattimento. Pareva che i fantasmi rinatigli d'improvviso in capo lo sospingessero a una corsa sfrenata, a un'ultima baldoria di vita e di gioventù. Gli pareva allora di essere o un genio che ha creato un poema come l'Iliade, o un generale che ha vinto una battaglia, o un santo che ha calpestato il mondo e si sente degno del cielo. Amore gloria ricchezza felicità, tutto era poco per lui. Reputava spregevoli e basse queste fortune terrene e passeggere, si sentiva maggiore di esse, e capace di guardarle come il pascolo di esseri mézzi e striscianti. Ergeva alteramente il capo, fissava il cielo quasi da eguale a eguale, e diceva fra sé: "Tutto che io voglia fare lo farò! Quest'anima mia chiude tanta potenza da sollevare il mondo: il punto di leva io l'avrei insegnato ad Archimede: è la fortezza dell'animo!" - Misere illusioni! Provatevi a toccarne una sola ed essa vi svanirà fra le dita come l'ala d'una farfalla. Ognuno, almeno una volta in sua vita, ha creduto facile l'impossibile, e onnipotente la propria debolezza. Ma quando, ricredendoci da questa opinione giovanile, qualche cosa di forte qualche cosa di sano ci resta, la vita serba ancora per noi un'ora di riposo se non di gioia. La vera disperazione ci atterra allora soltanto che, tornati alla coscienza della nostra inezia, non troviamo nessun punto ove appoggiare la speranza, nessuna nuvola da appendervi l'orgoglio. Allora lo smarrimento dello spirito ci fa traballare come ubbriachi e cader supini per non piú rialzarci a mezzo il cammino della vita. Non piú labbra che ci sorridono, non piú occhi che ci invitano, e profumo di rose e varietà di prospetti e barbaglio di luce che ne persuada di andar avanti. Il buio dinanzi, ai lati, sul capo; di dietro la memoria inesorabile che, colle immagini dei mali crescenti sempre e dei beni per sempre fuggiti, ci toglie la forza della volontà e la potenza del moto. Tale Giulio restava dopo quei notturni delirii d'impotente poesia: tanto piú misero e abbietto, quanto meglio sentiva la vanità di quella sognata grandezza. Come Nerone cred'io egli avrebbe tagliato la testa al genere umano per ottenere dalla Pisana non un sorriso d'amore ma un'occhiata di desiderio, e vedere frementi le labbra e sconfitta l'arrogante sicurezza di quel rivale abborrito. Mettere a sí alto prezzo una semplice occhiata, egli che pochi momenti prima si dava ad intendere d'aver sotto i piedi ogni cosa del mondo! - Quale avvilimento! E non poter nemmeno ricorrere per ultimo scampo all'idea della morte!... No, non lo poteva!... Una morte gloriosa compianta lagrimata gli avrebbe sorriso come un'amica; ma allora il trionfo del còrso e l'indifferenza della Pisana lo perseguitavano perfin nel sepolcro. Ben s'arrende alla morte chi sa di poter vivere, ma egli, senza osar confessarlo a se stesso, fiutava con raccapriccio nelle sue carni scalducciate ed inferme l'odore dei vermi. Egli lottava disperato nel mare della vita, ma le forze gli mancavano, l'acqua gli saliva al petto alla gola; già ne avea piene le fauci, già la mente si scombuiava nell'abisso del nulla e dell'obblio, dove non piú superbia non piú speranza; il nulla, il nulla, eternamente il nulla. Si scoteva dal sogno affannoso con un ribrezzo che somigliava viltà; sentiva di aver paura, e la paura gli cresceva dalla propria dappocaggine. "Oh la vita, la vita! datemi ancora un anno, un mese, un giorno solo della mia vita piena confidente rigogliosa d'un tempo! Tanto che possa rinfiammare un lampo d'amore, bearmi di piacere e d'orgoglio e morire invidiato sopra un letto di rose! Datemi un giorno solo del mio bollor giovanile, perché possa scrivere a caratteri di fuoco una maledizione che abbruci gli occhi di quelli che oseranno leggerla, e rimanga terribilmente famosa fra i posteri, come il Mane Tecel Fares del convito di Baldassare! Ch'io muoia; sí ma che possa coll'ultimo grido dell'anima lacerata sgominare per sempre gli impudenti tripudii di coloro che non ebbero una lagrima pei miei dolori!... Se mi è vietata la felicità d'amore, la coppa felice degli Dei, mi rimanga almeno l'immortalità di Erostrato, e la superbia dei demonii!...". Cosí farneticava lo sciagurato stringendo la penna con mano convulsa, e cercando disperatamente nella tetra fantasia quelle parole tremende, infernali, che dovevano prolungare nella posterità la sua vita di martirio e vendicarlo delle angosce sofferte. Da un turbine vorticoso di idee monche e cozzanti, d'immagini camaleontiche, di passioni mute e furenti non uscivano che due pensieri dozzinali e quasi codardi: la rabbia della felicità altrui, e l'orrore della morte! - Almeno avesse egli potuto imprimere a tali pensieri quell'impronta straziante di verità nella quale l'uomo si specchia rabbrividito, e non può a meno d'ammirare il lugubre profeta che lo satolla d'orrore e di disperazione!... Ma neppur questo gli veniva concesso dalla continua instabilità della paura. Le forze dell'anima vanno tutte raccolte per creare alla verità un'immagine vera e sublime; egli invece si scioglieva in fantasticherie senza colore e senza fine. Non era la meditazione del sapiente, ma il vaneggiamento del malato. La mistione chimica soverchiava il lavoro spirituale, supremo castigo dell'orgoglio pigmeo! "Ah dover morire cosí, vedendo spegnersi ad una ad una le stelle della propria mente! sentendo sciogliersi atomo per atomo la materia che ci compone, e attirare abbrutita con sé quell'anima sfolgorante e serena che poco prima spaziava nell'aria e s'ergeva fino al cielo! Dover morire come il topo del granaio e la rana della palude, senza lasciare un'orma profonda incancellabile del proprio passaggio!... Morire a ventott'anni, assetato di vita, avido di speranza, delirante di superbia, e sazio solo d'affanno e d'avvilimento! Senza un sogno, senza un fede, senza un bacio abbandonare la vita; sempre col solo spavento, colla sola rabbia dinanzi agli occhi, di doverla abbandonare!... Perché fummo generati? Perché ci educarono e ci avvezzarono a vivere, quasiché durassimo eterni?... Perché la prima parola che vi insegnò la balia non fu morte? Perché non ci abituarono lungamente a fissar il volto, a interrogare con ardito animo questa nemica ignorata e nascosta, che ci assale poi d'improvviso, e ci insegna che la nostra virtù non fu altro che viltà? Dove sono i conforti della sapienza, le illusioni della gloria, le consolazioni degli affetti? - Tutto si getta d'in sulla nave per rifuggire al naufragio; e quando il flutto vorace si spalanca per ingoiarla, rimane solamente sulla piú alta antenna nudo e disperato il nocchiero. Son vani gli sforzi e le lagrime; vane le preghiere o le bestemmie. La necessità è ineluttabile e il confuso fragore dell'onde attuta tre passi lontano le grida del furente e i gemiti del pauroso. Di sotto sta il nulla, tutto intorno l'obblio, di sopra il mistero. - Che mi dice il filosofo?... Dimentica, dimentica! Ma come dimenticare? La mia mente non ha piú che quest'idea sola, i miei nervi non ripercotono al cervello che una sola immagine; le altre idee, le altre immagini son morte per me. Io sono entrato piú che mezzo nel gran regno delle ombre; il resto vi entrerà fra poco. L'amore degli uomini, la religione della libertà e della giustizia sparirono dall'anima mia, come fantasmi ideati per ingannare i fantasmi. Crollato il fondamento, come reggerà la parete?... Che v'ha di saldo nell'uomo, se l'uomo appunto svanisce come il vapore del mattino? Sfreddato il calore del sentimento, le parole suonano sulle labbra come il vento in una fessura: vanità, tutto vanità!... ". Eppure, ad onta di questi scorati soliloquii, egli riprendeva la penna per iscrivere qualche inno patriottico, qualche filippica repubblicana che consolasse d'un'aureola di gloria il suo prossimo tramonto. Si vergognava poi di quanto avea scritto e lo buttava sul fuoco. Quando mal si può esprimere quello che piú ci occupa l'animo, peggio poi si tenta d'interpretare sentimenti annebbiati e lontani. Giulio pensava troppo a sé e si rinserrava troppo nella considerazione del proprio destino, per poter comprendere degnamente le speranze e gli affetti dell'umanità intera. Cotali cose egli le aveva non dirò imparate, ma trovate sui libri; gli si erano appiccicate al cervello come fantasticaggini di moda e nulla piú. Figuratevi se in tanta stretta di passioni proprie ed urgenti poteva ritrarre di colà quell'entusiasmo pieno e sincero che solo incalorisce le opere d'arte!... L'erudite declamazioni di Barzoni e la greca pedanteria del giovane Foscolo da lui sí crudamente satireggiate covavano piú fuoco di tutti i suoi pensieri politici, imbrodolati di Rousseau e di Voltaire, ma privi d'ogni suggello di persuasione. Egli se n'accorgeva, e stritolava la penna coi denti, e si gettava sfinito sul letto. Una tosse profonda e ostinata affaticava le sue lunghe notti, mentre egli inondato di sudore, dolente sopra ogni fianco, e col volto sbigottito dalla paura si palpava il petto, e sollevava stentatamente i polmoni sfibrati, per pur persuadersi che la morte gli stava ancora da lunge. In quei momenti Ascanio e la Pisana, affacciati ad un balcone che dava sul Canalazzo, cinguettavano d'amore con tutte quelle tenerezze del vocabolario francese, mentre Sua Eccellenza Navagero sgomentito degli occhiacci dell'ufficiale sonnecchiava o fingeva di sonnecchiare sopra una poltrona. Io che non ardiva penetrare in quella casa, passava poi nel Canalazzo colla mia gondola a notte profonda; e vedeva profilarsi nel quadro illuminato della finestra le figure dei due amanti. Povero Giulio! Povero Carlino! La Provvidenza, a guardar le cose in monte, governa tutto con giustizia. Non vi sono due esseri felici, che non si oppongano loro, come ombre di un dipinto, due sventurati. Peraltro se la mia disgrazia era forse minore, ognuno mi consentirà ch'io la meritava assai meno di Giulio. La sventura vendica tutto ma non santifica nulla, men che meno poi la superbia, l'invidia e la libidine. Se egli volle consumarsi in queste tre brutte passioni, fu sua la colpa; e noi lo compiangeremo, ben lontani dal glorificarlo. La croce era un patibolo, e il solo Cristo ha potuto cambiarla in un altare. L'estate volgeva al suo termine. Già i fieri Bocchesi di Perasto avevano arso piangendo l'ultimo stendardo di San Marco. La Repubblica di Venezia era morta, e un ultimo suo spirito vagolava ancora nei remoti orizzonti della vita sulle marine di Levante. Vidiman, il governatore di Corfù, fratello al piú saggio, al piú generoso dei Municipali, spirava l'anima nel dolore alle continue vessazioni dei Francesi, sbarcati colà a guisa di padroni. Le popolazioni, stomacate della veneziana debolezza, sdegnavano di servire ai servi; meglio addirittura i Francesi o qualunque altro che la floscia inettitudine di cento patrizi. Ciò che molti secoli addietro si rispettava per la forza, poi si venerava per la prudenza, indi si tollerava per abitudine, allora cadeva nel disprezzo che conséguita sempre all'ossequio goduto lungamente a torto. Nella Municipalità la stessa disperazione d'ogni consiglio ingenerava la discordia: Dandolo e Giuliani predicavano la repubblica universale, quest'ultimo senza alcun riguardo dei sospettosi alleati. Vidiman consigliava la moderazione, perché la storia gli insegnava che se v'è salute pei governi nuovi, essa dipende dalla prudenza e dalla lentezza delle mutazioni. Strepitavano fra loro in quella sala del Gran Consiglio, ove la schietta parola d'un patrizio avea deciso altre volte delle sorti d'Italia. Il sommo impiccio era per me che doveva dar forma di protocolli a interminabili chiacchierate, a vicendevoli rimbrotti senza scopo e senza dignità. Finalmente la gran notizia che serpeggiava negli animi in forma di paura, scoppiò dalle labbra in suono di vera e certa disperazione. La Francia consentiva pel trattato di Campoformio che gli Imperiali occupassero Venezia e gli Stati di Levante e di terraferma fino all'Adige. Per sé teneva i Paesi Bassi austriaci, e per la Repubblica Cisalpina le provincie della Lombardia veneta. Il patto e le parole erano degne di chi le scriveva. Venezia si destò raccapricciando dalla sua letargia, come quei moribondi che rinvengono la chiarezza della mente all'estremo momento dell'agonia. I municipali mandarono ambascerie al Direttorio, a Bonaparte, perché fosse loro permesso di difendersi. Questa frase corrispondeva appuntino all'altra del trattato suddetto, nel quale si consentiva l'occupazione di Venezia. Domandar al carnefice un'arma per difendersi contro di lui, è invero un'ingenuità fuori d'ogni credenza! Ma i Municipali sapevano la propria impotenza e non altro cercavano che illudersi fino all'estremo. Bonaparte cacciò in prigione gli inviati; quelli di Parigi credo non giungessero neppur in tempo da recitare la loro commedia. Una bella mattina il Villetard, lagrimoso coccodrillo, capitò ad annunziare in piena adunanza che Venezia doveva sacrificarsi al bene di tutta Europa, che gli piangeva il cuore di tale necessità, ma che dovevano subirla con grande animo; che la Repubblica Cisalpina offeriva patria, cittadinanza e perfino il luogo ad una nuova Venezia per quanti fra essi rifuggivano dalla nuova servitù: e che i danari dell'erario e la vendita dei pubblici averi servirebbe a confortare il loro esiglio di qualche agiatezza. La superba indole italiana si rilevò subitamente a quest'ultima proposta. Deboli, discordi, creduli, ciarlieri, inetti sí; venali non mai! Tutta l'adunanza diede in un grido d'indignazione; si rifiutarono le indegne offerte, si rifiutò di approvare quanto la Repubblica francese aveva sí facilmente e barbaramente consentito, si decise di rimettere nel popolo la somma delle cose, dimandando a lui la scelta fra servitù e libertà. Il popolo votò frequente, raccolto, silenzioso; e il voto fu per la libertà; indi la Municipalità si disciolse, e molti partirono per l'esiglio, donde alcuni, Vidiman fra gli altri, non tornarono mai piú. Villetard ne scrisse a Milano, e Bonaparte rispose altero schernitore ma furibondo. Lasciarsi schiacciare ma non obbedire è ancora un delitto pei tiranni. Serrurier entrò a quei giorni, vero beccamorti della Repubblica. Disalberò le navi, mandò a Tolone cannoni, gomene, fregate e vascelli, diede un'ultima mano al saccheggio della cassa pubblica, delle chiese e delle gallerie, raschiò le dorature di Bucintoro, fece baldoria del resto, e si assicurò per sempre dal rimorso di aver lasciato pei nuovi padroni il valsente vivo d'un quattrino. Questo fu il rispetto all'alleanza giurata, alla protezione promessa, ai sacrifici imposti e vilmente forse, piú che generosamente, consentiti. Cosí adoperarono coloro verso Venezia che avea difeso per tanti secoli tutta la cristianità dalla barbarie mussulmana. Ma quei maiali non leggevano storie; preparavano orrendi capitoli alle storie future. La sera stessa che i Municipali deposero la propria autorità, quanti eravamo rimasti amici della libertà, e nemici coraggiosi del tradimento, convenimmo alla solita casa dietro il ponte dell'Arsenale. Il numero era piú scarso del solito: altri si schivavano per paura, molti eran già partiti con diversi propositi. L'adunanza fu piú per confortarsi a vicenda e per istringerci la mano che per deliberare. Agostino Frumier non comparve, benché sottovoce me ne avesse dato promessa un'ora prima; mancava il Barzoni che dopo un pubblico alterco con Villetard, s'era imbarcato per Malta proponendosi di pubblicar colà un giornale antifrancese: non vidi Giulio Del Ponte e ne sospettai il perché. Lucilio passeggiava come il solito su e giù per la sala col volto imperturbato e la tempesta nel cuore: Amilcare gridava gesticolava contro il Direttorio, contro Bonaparte, contro tutti; egli diceva che bisognava vivere per vendicarci; Ugo Foscolo sedeva da un canto colle prime parole del suo Jacopo Ortis scolpite sulla fronte. Io per me non so cosa avessi nell'anima, o mostrassi nel volto. Mi sentiva nullo affatto, come chi soffre senza comprendere. Udii la maggior parte essere propensa a cercare ricovero nel territorio della Cisalpina, ove sarebbe sempre durata qualche speranza per Venezia; anch'io trovava giusto un tale partito, come quello che rendeva onorevole e attivo l'esiglio, menandolo in paese fraterno e già quasi italiano. La permalosa alterigia di taluno che sdegnava affidarsi ad una ospitalità offerta in nome di Francia, e dalla Francia stessa guarentita, sconveniva troppo a quei momenti necessitosi e supremi. Ci demmo la posta per Milano dove o nel governo o nell'esercito o colla parola o colla penna o colla mano si sperava di potersi adoperare per la salute comune. S'avvicendavano cosí frequenti i trabalzi e i rivolgimenti di fortuna in quel tempo che la speranza si ravvivava dalla stessa disperazione, piú fiduciosa piú intemperante che mai. Ad ogni modo si voleva dare un esempio della costanza e della dignità veneziana contro quelle terribili accuse che i fatti ci scagliavano. Ora l'uno ora l'altro partiva per dar qualche ordine alle cose sue, e metter insieme qualche roba prima di avviarsi all'esiglio. Chi correva a baciare la madre, chi la sorella o l'amante; chi si stringeva al cuore i bambini innocenti, chi consumava dolorosamente quell'ultima notte contemplando dalla Riva di Piazzetta il Palazzo Ducale, le cupole di San Marco, le Procuratie, queste sembianze venerabili e contaminate dell'antica regina dei mari. Le lagrime scorrevano da quelle ciglia devote, e furono le ultime liberamente sparse, gloriosamente commemorate. Io era restato solo col dottor Lucilio perché non aveva la forza di muovermi, quando salí per la scala un rumore frettoloso di passi, e Giulio Del Ponte coi colori della morte sul volto si precipitò nella stanza. Il dottore, che avea parlato pochissimo fino allora, gli si volse contro con molta veemenza a domandargli cosa avesse e perché tanto s'era attardato. Giulio non rispose nulla, aveva gli occhi smarriti, la lingua aderente al palato e pareva incapace di capire quanto gli dicevano. Lucilio rabbuffò con una mano i suoi neri capelli tra i quali traluceva già qualche filo d'argento, strinse il braccio del giovane e lo trasse a forza in cospetto della lucerna. - Giulio, te lo dirò cos'hai; - diss'egli con voce sommessa ma ricisa, - tu muori per un dolor tuo, quando non è lecito morire che pel dolore di tutti!... Tu ti arrendi vilmente alla tisi che ti consuma quando dovresti salire con animo forte al martirio!... Io son medico, Giulio; non voglio ingannarti. Una passione mista di rabbia d'orgoglio d'ambizione ti divora lentamente; il suo morso avvelenato è incurabile. Soccomberai senza dubbio. Ma credi tu che l'anima non possa sollevarsi sulle malattie del corpo, e prescrivere a se stessa un fine grande, glorioso?... Giulio si sfregolava smarrito gli occhi, le guance, la fronte. Tremava da capo a piedi, tossiva di tratto in tratto e non poteva articolar parola. - Credi tu - riprese Lucilio - credi tu che sotto questa mia scorza dura e ghiacciata non si celino tali tormenti che mi farebbero preferire l'inferno, nonché il sepolcro, alla fatica di vivere? Or bene; io non voglio morire piangendo me, compassionando a me, badando solo a me, come il pecoro sgozzato!... Quando le membra saranno consunte, l'anima fuggirà da esse libera forte beata piucchemai!... Giulio, lascia morire il tuo corpo, ma difendi contro la viltà, contro l'abbiezione un'intelligenza immortale!... Io guardava meravigliando il gruppo di quelle due figure, l'una delle quali pareva infondere all'altra il coraggio e la vita. Alle parole, al contatto del dottore, Giulio si drizzava della persona e si rianimava negli occhi; la vergogna gli ottenebrava nobilmente la fronte, ma l'anima ridestata a un grande sentimento coloriva i segni della prossima morte d'un sublime splendore. Non tossiva, non tremava piú; il sudore dell'entusiasmo succedeva a quello della malattia; la sua bocca balbettava ancora parole tronche e confuse, ma solo per impazienza di pentimento e di generosità. Fu un vero miracolo. - Avete ragione - rispose egli alla fine con voce calma e profonda. - Fui un vile finora; non lo sarò piú. Morire debbo certamente, ma morrò da forte e dallo sfacelo del corpo andrà salva l'anima mia!... Vi ringrazio Lucilio!... Venni qui a caso per abitudine per disperazione; venni desolato avvilito infermo; partirò con voi, sicuro dignitoso e guarito! Dite dove s'ha da andare, io son pronto!... - Partiremo domattina per Milano; - riprese Lucilio - là vi sarà un fucile per ciascuno di noi; ad un soldato non si domanda se è malato o sano, ma se ha forza d'animo e di volontà!... Giulio, te lo accerto, non morrai tremando di paura e desiderando la vita. Abbandoneremo insieme questo secolo di illusioni e di vigliaccherie per ricoverarci contenti in seno dell'eternità!... - Oh io pure - esclamai - io pure partirò con voi!... - Strinsi la mano al dottore, e buttai le braccia al collo di Giulio come ad un fratello. Era cosí sorpreso e commosso che nessuna sorte vedeva migliore di quella di morire con tali compagni. - No, tu non devi partire per ora; - soggiunse dolcemente Lucilio - tuo padre ha altri disegni; ti consulterai con essolui, ché ne hai stretto dovere. Quanto al mio, ricevetti oggi stesso l'annunzio della sua morte. Vedete bene che son solo oggimai; nudo affatto di quegli affetti che racchiudono una gran parte di nostra vita fra le pareti domestiche. Per me gli orizzonti si allargano sempre piú; dall'Alpi alla Sicilia, è tutta una casa. L'abito con un solo sentimento che non morrà mai neppure colla mia morte. Una memoria del monastero di Santa Teresa attraversò come un lampo gli occhi di Lucilio mentre proferiva queste parole; ma non commosse punto il suono tranquillo della sua voce, né lasciò orma alcuna sulle sembianze di melanconia o di sconforto. Ogni affanno scompariva in quella superba sicurezza d'uno spirito che sente in sé qualche parte d'eterno. Ci separammo allora; i commiati severi senza rimpianti senza lagrime. Negli ultimi nostri discorsi non trovarono posto i nomi della Clara e della Pisana. E sí che a tutti e tre, anche a Lucilio, ne sono certo, un amore sventuratissimo dilaniava le viscere. Essi n'andarono verso l'ospitale, divisando mettersi in viaggio il mattino all'alba; io mi avviai curvo e frettoloso in cerca di mio padre. Non sapeva quali fossero i suoi disegni, perché Lucilio non aveva voluto dirmene di piú, e mi tardava l'ora di conoscerli per iscaricarmi poi dei miei dolori privati in qualche grande e non inutile sacrifizio, come il povero Giulio me ne dava l'esempio. CAPITOLO DECIMOTERZO Un Jacopo Ortis e un Machiavelli veneziano. Finalmente imparo a conoscere mia madre vent'anni dopo la sua morte. Venezia fra due storie. Una famiglia greca a San Zaccaria. Mio padre a Costantinopoli. Spiro ed Aglaura Apostulos. In casa non trovai mio padre; e la vecchia fantesca maomettana si espresse con tanti segni e gesti negativi che io mi persuasi la mi volesse dire che non sapeva nemmeno quando sarebbe tornato. Divisava fra me di aspettarlo, quand'ella mi consegnò un polizzino facendomi motto a cenni che era cosa di gran premura. Credeva quasi fosse una memorietta di mio padre, ma vidi invece che era scritto da Leopardo. "Non ci sei in casa" diceva egli "perciò ti lascio queste due righe. Ho bisogno di te tosto per un servigio che di qui a tre ore non mi potresti piú rendere". E non c'erano altri schiarimenti. Faccio intendere alla meglio alla vecchia mora che sarei di ritorno fra breve, piglio il cappello e via a precipizio fino al Ponte Storto. Cosa volete? Quel biglietto non diceva nulla, io avea lasciato la mattina stessa Leopardo grave e taciturno come il solito, ma sano e ragionevole. Pure il cuore mi annunciava disgrazie, e avrei voluto aver l'ali ai piedi per giungere piú presto. L'uscio di casa era aperto, un lumicino giaceva per terra a piedi della scala, penetrai nella stanza di Leopardo e lo trovai seduto in una poltrona colla consueta gravità sul volto, ma soffuso d'una maggior pallidezza. Guardava fiso fiso la lucerna, ma al mio entrare volse gli occhi in me, e senza parlare mosse un gesto di saluto. "Grazie" pareva dirmi "sei venuto ancora a tempo!". Io mi sgomentii di quella attitudine, di quel silenzio, e gli chiesi con premurosa inquietudine cosa l'avesse per stare a quel modo, e in qual cosa mai potessi aiutarlo. - Nulla; - mi rispose egli socchiudendo a stento le labbra, come uno che parla e sta per addormentarsi - voglio che tu mi faccia compagnia; scusami se non parlerò troppo, ma ho qualche doloruccio di stomaco. - Mio Dio, chiamiamo dunque un medico! - io sclamai. Sapeva che Leopardo non soleva lamentarsi per poco, e quella chiamata notturna mi diceva i suoi timori. - Il medico! - riprese egli con un sorriso mestissimo. - Sappi, Carlino, che un'ora fa io mi son preso in corpo due grani di sublimato corrosivo!... Io misi uno strido di raccapriccio, ma egli si turò le orecchie soggiungendo: - Zitto, zitto, Carlino! Mia moglie è di là che dorme nella seconda camera!... Sarebbe un peccato incommodarla tanto piú che l'è incinta, e questo suo nuovo stato le mette malumore. - Ma no, per carità, Leopardo! lasciami andare! - (egli mi stringeva il polso con tutta la forza che aveva). - Forse siamo ancora in tempo: un buon emetico, un rimedio eroico, che so io... lasciami, lasciami... - Carlino, tutto è inutile... Il solo bene che accetterò da te sarà, come dissi, un'ultima ora di compagnia. Rassegnati, giacché mi vedi piú ancora che rassegnato volonteroso d'andarmene; l'emetico ed il dottore verrebbero tardi d'una buona mezz'ora; io ho studiato da una settimana quel capitolo di tossicologia che mi abbisognava. Vedi? sono ai secondi sintomi!... Mi sento schizzar gli occhi dalla testa... Purché questo prete di cui andò in cerca la portinaia capiti presto... Io son cristiano e voglio morire con tutte le regole. - Ma no, Leopardo, te ne scongiuro!... lasciami tentare se non altro! È impossibile che ti lasci morire a questo modo!... - Lo voglio, Carlino, lo voglio; se mi sei amico devi accontentarmi d'una grazia. Siedi vicino a me, e finiamo conversando come Socrate. Io conobbi che non c'era nulla da sperare da una sí tremenda tranquillità; sedetti vicino a lui deplorando quella triste aberrazione che perdeva cosí miseramente uno degli animi piú forti che io m'avessi mai conosciuto. Quell'accorgimento di mandare pel prete accusava assoluto disordine di cervello in un suicida; perché egli non dovea ignorare che l'azione da lui commessa si riguardava dalla religione come un grave e mortale peccato. Sembrò ch'egli indovinasse tali pensieri perché si accinse a ribatterli senzaché io mi prendessi la briga di esprimerli. - N'è vero, Carlino, che ti sorprende questa mia smania di aver un confessore? Cosa vuoi?... Per una fortunata combinazione mi dimenticai da molti mesi che Dio proibisce il suicidio; or ora me ne sovvenne, ed è proprio vero che la vicinanza della morte aiuta mirabilmente la memoria. Ma è troppo tardi per fortuna!... È troppo tardi: il Signore mi punirà di questa lunga distrazione, ma spero che non vorrà essere troppo severo verso di me, e che me la caverò con una passata di purgatorio. Ho sofferto tanto, Carlino, ho sofferto tanto in questa vita!... - Oh maledizione, maledizione sul capo di coloro che ti spinsero ad una fine cosí sciagurata!... Leopardo, io ti vendicherò: ti giuro che ti vendicherò! - Zitto, zitto, amico mio; non destare mia moglie che dorme. Io ti esorto intanto a perdonare come perdono io. Ti nomino anzi legatario perpetuo delle mie perdonanze, acciocché nessuno abbia male dalla mia morte; e ti raccomando di non far sapere ch'io me l'ho procurata. Sarebbe grave scandalo, e altri potrebbero averne dispiacere o rimorso. Dirai che fu un aneurisma, un colpo fulminante, che so io?... Già me l'intenderò meglio col prete; e cosí spero di morir in pace lasciando dopo di me la pace. - Oh Leopardo, Leopardo! un'anima come la tua morire a questo modo! Con tanta bontà con tanta forza e costanza che avevi!... - Hai ragione; due anni fa neppur io mi sarei immaginato questa corbelleria. Ma ora l'ho fatta e non c'è che dire. I dolori gli avvilimenti i disinganni si accumulano qui dentro - (e si toccava il petto) - finché un bel giorno il vaso trabocca e addio giudizio! bisogna ch'io m'esprima cosí per iscusarmi con Dio. Io vidi allora o meglio indovinai le lunghe torture di quel povero cuore tanto onesto e sincero; le angosce di quell'indole aperta e leale sí indegnamente tradita; la delicatezza di quell'anima eroica deliberata di non veder nulla, e di morire senza lasciare ai suoi assassini neppur la punizione del rimorso. Non mossi parola di ciò rispettando la maravigliosa discretezza del moribondo. Leopardo riprese a parlare con voce piú profonda e affaticata: le membra gli si irrigidivano e le carni prendevano a poco a poco un colore cinereo. - Vedi amico? fino a ieri ci pensava, ma mi difendeva valorosamente. Aveva una patria da amare e sperava quandocchesia di servirla, e di scordare il resto. Ora anche quell'illusione è svanita... fu proprio il colpo che mi decise! - Oh no, Leopardo, tutto non è svanito!... Se è cosí, guarisci, torna a vivere con noi: porteremo la patria nel cuore dovunque andremo, ne insegneremo, ne propagheremo la santa religione. Siamo giovani; tempi migliori ci arrideranno, lasciami... Io m'era alzato in piedi, egli mi teneva fermo pel braccio con forza convulsiva, e dovetti sedere ancora. Un sorriso vago e melanconico errava su quel volto già quasi disfatto dalla morte: mai la bellezza dell'anima non ebbe piú pieno trionfo su quella del corpo. Questa era sparita affatto, quella spirava ancora con ogni suo splendore da quella faccia incadaverita. - Rimani, ti dico; - soggiunse egli con uno sforzo compassionevole - ad ogni modo sarebbe troppo tardi. Serba, amico mio, la tua candida fede; questo ti raccomando, perch'ella è se non altro incentivo potente ad imprese belle ed onorate... Quanto a me, me ne vado senza rincrescimento... Son certo che avrei aspettato indarno. Era stanco, stanco, stanco!... Ciò dicendo le sue membra si sciolsero, e la testa cadutagli penzolone mi si appoggiò sopra una spalla. Io allora feci per muovermi e per dimandar soccorso, ma egli si riebbe quel tanto da accorgersi delle mie intenzioni, e da proibirmelo. - Non hai capito?... - mormorò fiocamente. - Voglio te solo... ed il prete!... Io lo compresi pur troppo, e volsi uno sguardo pieno di odio e di ribrezzo alla porta, dietro la quale la Doretta dormiva placidi i suoi sonni. Indi passai un braccio sotto il collo di Leopardo, e vedendo che in quella posizione sembravano diminuire gli spasimi, mi sforzai di tenerlo sollevato a quel modo. Il peso mi cresceva sulle braccia, e tremava tutto non so bene se di fatica o di dolore, quando rientrò la portinaia col prete. Avendo picchiato indarno alla porta del parroco, essa ne aveva condotto uno nel quale per sorte si era abbattuta. Colui, renitente dapprincipio, si era deciso a seguirla udendo che si trattava d'un colpo fulminante, come appunto Leopardo avea definito alla portinaia il suo male. Ma qual non fu il mio stupore quando levando gli occhi in quel sacerdote riconobbi il padre Pendola!... Anche lui, il buon padre, diede un guizzo certo non minore del mio, e cosí rimasimo un istante, che la sorpresa ci vietava ogni altro movimento. Leopardo a quel silenzio alzò faticosamente uno sguardo e, appena fisatolo in volto a quel prete, saltò in piedi come morsicato nel cuore da un serpente. Il padre si tirò indietro due passi, e la portinaia per la paura si lasciò cader il lume di mano. - Non lo voglio! ch'egli vada via, che se ne vada tosto! - gridava Leopardo dibattendosi fra le mie braccia come un ossesso. Il reverendo aveva una voglia grandissima di accettare il consiglio; ma lo trattenne la vergogna della portinaia, e volle alla peggio salvare l'onore dell'abito. Questo gli riuscí piú facile di quanto temeva, perché Leopardo s'era tosto acchetato da quella furia subitanea, e tornava già quieto come un agnellino. Il buon padre se gli avvicinò delicatamente con un sorriso angelico, e prese a confortargli l'anima con una vocerellina che partiva proprio dal cuore. - Padre reverendo, la prego di andar via! - gli bisbigliò nell'orecchio Leopardo con voce cupa e minacciosa. - Ma figliuolo dilettissimo, pensate all'anima, pensate che avete ancora pochi momenti, e che io, quantunque indegno ministro del Signore, posso... - Meglio nessuno che lei, padre - lo interruppe ricisamente Leopardo. La portinaia, pochissimo contenta di quello spettacolo, era tornata pe' fatti suoi, onde il prudentissimo padre non giudicò opportuno l'insistere. Ci diede la sua santa benedizione e se n'andò per dove era venuto. Leopardo lo fermò sull'uscio con una chiamata. - Dal limitare del sepolcro un ultimo ricordo, padre, un ultimo ricordo spirituale a lei che suole raccomandar l'anima agli altri. Ella vede come io muoio: tranquillo, ilare, sereno!... Or bene, per morire cosí bisogna vivere come ho vissuto io. Ella, vede, bramerà invano una tale fortuna; si ricorderà di me in sul gran punto, e passerà nell'altro mondo tremante spaventato, come chi si sente nelle polpe le unghiate del diavolo! Buona notte, padre; sull'alba io dormirò piú tranquillo di lei. Il padre Pendola se l'avea già battuta facendo un gesto di raccapriccio e di compassione; scommetto che giù per la scala aggiunse molti altri gesti di sommo piacere per averla scapolata cosí a buon mercato. Leopardo non pensò piú a lui e mi pregò immantinente ch'io n'andassi per un altro confessore. Infatti lo affidai per poco alla portinaia, e uscii e scampanellai tanto all'uscio del parroco che mi venne fatto di stanarlo di letto e di condurlo dal moribondo. Questi durante la mia assenza avea peggiorato tanto che vedendolo in altro luogo avrei stentato a riconoscerlo. Pure l'arrivo del parroco lo confortò alquanto e per poco li lasciai soli; e rientrando lo trovai bensí alle prese coll'ultima stretta dell'agonia, ma ancor piú calmo e sereno del solito. - Dunque, figliuolo mio, siete proprio pentito del gravissimo peccato che avete commesso? - gli ripeté il confessore. - Consentite con me che avete disperato della Provvidenza, che avete voluto distruggere a forza l'opera di Dio, che ad una creatura non è concesso l'erigersi a giudice delle disposizioni divine? - Sí, sí, padre - rispose Leopardo con un lieve sapore d'ironia ch'egli non poté reprimere, e ch'io solo forse distinsi, poiché egli stesso il moribondo non se n'accorgeva. - E avete fatto quant'era in poter vostro per impedire gli effetti del vostro delitto? - domandò ancora il parroco. - Bisogna rassegnarsi... - soggiunse con un filo di voce l'agonizzante - non era piú tempo... Padre, due grani di sublimato sono uno speditivo troppo potente!... - Bene, l'assoluzione ch'io v'ho impartito ve la confermi Iddio. - E si diede a recitare le preci degli agonizzanti. Allora le vene del moribondo cominciarono a inturgidire, le sue membra storcersi, le labbra a disseccarsi; gli occhi gli si stravolgevano orribilmente, e tuttavia lo spirito regnava forte imperterrito su quella tempesta di morte che gli si agitava sotto. Parevano due esseri diversi, l'uno dei quali contemplasse i patimenti dell'altro colla impassibilità d'un inquisitore. Il parroco gli amministrò allora gli ultimi sacramenti, e Leopardo si compose alla aspettazione della morte colla grave pietà d'un vero cristiano. La quiete era tornata in tutta la sua persona; la quiete solenne che precede la morte: io potei ammirare quanto opera di grande la religione in un animo alto e virile; ed ebbi allora invidia per la prima volta di quelle sublimi convinzioni a me vietate per sempre. La morte della vecchia Contessa di Fratta me le aveva messe in discredito; quella di Leopardo me le rese ancora venerabili e sublimi. Gli è vero che la tempra di questo era tale, da far buona prova di sé colla fede e senza. Indi a poco egli sofferse un nuovo assalto di dolori acutissimi, ma fu l'ultimo; il respiro divenne sempre piú fievole e frequente, gli occhi si socchiusero quasi alla contemplazione d'una visione incantevole, la sua mano si sollevava talvolta come per accarezzare taluno di quegli angeli che venivano incontro all'anima sua. Erano i fantasmi dorati della giovinezza che gli vagolavano dinanzi nel confuso crepuscolo del delirio; erano le sue speranze piú belle, i piú splendidi sogni che prendevano forme visibili e sembianze di realtà agli occhi del moribondo; era la ricompensa d'una vita virtuosa ed illibata o il presentimento del paradiso. A tratti egli s'affisava sorridendo in me e dava indizio di ravvisarmi; mi prendeva la mano fra le sue per avvicinarsela al cuore; a quel cuore che non batteva quasi piú, eppure era cosí riboccante ancora di valore e d'affetto! Vi fu un momento ch'egli fece per alzarsi e mi sembrò quasi di vederlo sospeso da terra in un atteggiamento mirabile d'ispirazione e di profezia. Egli pronunciò fieramente il nome di Venezia; indi ricadde come stanco per tornare alle sue fantasie. Quando fu presso al gran punto lo vidi aprire le labbra a un sorriso, quale da un pezzo non brillava piú su quel volto robusto e maestoso; si mise la mano in seno e ne trasse uno scapolare su cui affisse a piú riprese le labbra. Ogni bacio era piú lento e meno vibrato; se ne staccò sorridente per esalar l'anima a Dio, e il suo ultimo respiro gli uscí cosí pieno cosí sonoro dal petto, che parve significare: "Eccomi finalmente libero e felice!" - Quella reliquia cui aveva consacrato l'estremo alito di vita, cadde nella mia mano all'allentarsi della sua: io la ricevetti come un pegno, come una sacra eredità, e m'inginocchiai dinanzi a quel morto come al cospetto di Dio. Mai non mi venne veduta poi morte simile a quella; il parroco asperse d'acqua benedetta il cadavere e si partí asciugandosi gli occhi, e assicurandomi che gli verrebbe data sepoltura sacra per quanto forse i canoni lo vietassero. Ma la santità di quel passaggio comandava che non si badasse cosí strettamente alle regole. Allora rimasto solo io diedi uno sfogo al mio dolore: baciai e ribaciai quel santo volto di martire, lo cospersi di pianto, lo contemplai a lungo quasi innamorato della pace sovrumana che spirava. Appresi maggior virtù da un'ora di colloquio con un morto, che da tutta la mia convivenza coi vivi. La lucerna era agli ultimi crepiti; il primo luccichio del giorno traspariva dalle persiane, quando mi venne a mente che si stava a me di dar annunzio alla Doretta della morte del marito. Questo pensiero mi fece rabbrividire. Tuttavia mi accingeva a bussare alla porta quando udii avvicinarsi dietro ad essa un fruscio di passi; l'uscio s'aperse pian piano e mi comparve dinanzi la figura un po' pallida e sospettosa di Raimondo Venchieredo. Diedi un tal grido che destò tutti gli echi della casa e mi slanciai ad abbracciare Leopardo come per proteggerlo o consolarlo di quel postumo insulto. Raimondo alle prime non ci capí nulla, balbettò non so quali parole di gondola e di Fusina, e si affrettava ad andarsene. Seppi in seguito che egli aveva mandato Leopardo a Fusina coll'ordine di fermarvisi tutto il giorno appresso ad aspettar suo padre che doveva arrivare colà e di consegnargli un piego rilevantissimo. Leopardo era partito infatti sull'Avemaria, ma accortosi a mezzo il viaggio d'aver dimenticato la lettera, era tornato per prenderla verso le tre ore di notte. Allora avea veduto Raimondo entrar furtivo in sua casa e nella stanza della Doretta; il resto ognuno se lo può immaginare. È vero peraltro che il sublimato egli lo avea provveduto presso uno speziale fin dalla mattina, dopo aver assistito all'adunanza dei Municipali nella quale il Villetard avea pronunciato sentenza di morte contro Venezia. Sembra che l'ultimo vitupero dell'onor suo non abbia fatto altro che precipitare una deliberazione già maturata e presa per molti motivi. La lettera diretta al Venchieredo e di pugno del padre Pendola fu trovata nel cassetto della tavola dinanzi a lui. Tuttociò io non sapeva allora, ma indovinai qualche cosa di simile. Laonde non soffersi che Raimondo si salvasse a quel modo senza conoscer almeno l'orrenda tragedia di cui egli era la causa. Gli corsi dietro fin sulla soglia, lo abbrancai per le spalle, e lo trassi genuflesso e tremante dinanzi il cadavere di Leopardo. - Guarda - gli dissi - traditore! Guarda!... Egli guardò spaventato e s'accorse solamente allora della lividezza mortale che copriva quelle spoglie inanimate. Accorgersene, e metter un grido piú acuto piú straziante del mio, e cader riverso come colpito dal fulmine fu tutto ad un punto. Quel secondo grido chiamò nella stanza la portinaia, la Doretta e quanta gente abitava la casa. Raimondo s'era riavuto ma si reggeva in piedi a stento, la Doretta si strappava i capelli, e non so ben dire se strillasse o piangesse; gli altri guardavano spaventati quel lugubre spettacolo, e si chiedevano l'un l'altro sotto voce com'era stato. Mentire toccò a me, e non mi fu grave, perché pensava cosí di adempiere scrupolosamente i desiderii dell'amico. Ma non potei far a meno che nell'ascrivere quella morte ad un colpo fulminante la mia voce non parlasse altrimenti. Raimondo e la Doretta mi intesero, e sopportarono dinanzi al mio sguardo inesorabile la vergogna dei rei. Io partii da quella casa, ove divisava di tornare il giorno appresso per accompagnare l'amico alla sua ultima dimora; qual fosse l'animo, quali i miei pensieri non voglio confessarlo ora. Guardava talvolta con inesprimibile avidità l'acqua torbida e profonda dei canali; ma mio padre mi aspettava ed altri martiri mi invitavano per la via di Milano alle dure espiazioni dell'esiglio. Mio padre m'attendeva infatti da un'ora e si spazientiva di non vedermi tornare. Mi scusai raccontandogli l'atrocissimo caso, ed egli mi tagliò le parole in bocca sclamando: - Matto, matto! La vita è un tesoro; bisogna impiegarlo bene sino all'ultimo soldo! - Rimasi nauseato alquanto di una tale pacatezza, e non ebbi voglia alcuna di farmi incontro ai suoi desiderii, come me ne aveano persuaso la sera prima le monche confidenze di Lucilio. Egli invece senzaché io m'incommodassi entrò subito in argomento. - Carlino - mi chiese - dimmi la verità, quanti danari all'anno ti bisognano per vivere? - Son nato con un buon paio di braccia; - gli risposi freddamente - mi aiuterò!... - Matto, matto anche tu! - rispose egli - anch'io son nato colle braccia e le ho fatte lavorare a meraviglia; ma perciò non rifiutai mai un buon aiuto dell'amicizia. Pigliala come vuoi, io sono tuo padre; e ho diritto di consigliarti e al caso anche di comandarti. Non guardarmi cosí altero!... Non ci è bisogno!... Ti compatisco; sei giovane, hai perduto la testa. Anch'io stetti tutto ieri che non sapeva se fossi vivo o morto, anch'io ho sofferto, vedi, piú di uomo al mondo vedendo rovesciarsi tutte le mie speranze per opera di quelli stessi cui le aveva affidate da compiere! Anch'io ho pianto, sí ho pianto di rabbia trovandomi schernito beffeggiato e pagato di sette anni di servizi e di sacrifizi coll'ingratitudine e col tradimento... Ma oggi; oggi me ne rido!... Ho un gran pensiero in capo; questo mi occuperà per mesi forse, per anni molti; spero di riuscir meglio che al primo esperimento e ci rivedremo. Un uomo, vedi, è un assai debole animale, un futuro parente del nulla; ma non è nulla!... e finché non è nulla può essere il primo anello d'una catena da cui dipenda il tutto... Bada a me, Carlino!... Io son tuo padre, io ti stimo e ti voglio bene assai; tu devi accettare i consigli della mia esperienza; devi serbarti per quel futuro che io m'adoprerò di preparare a te ed alla patria. Pensa che non sei solo, che hai amici e parenti profughi, impotenti, bisognosi; ti sarà gradito talvolta aver un pane da spartir con loro. Qui in questo taccuino sono parecchi milioni ch'io consacro ad un grande tentativo di giustizia e di vendetta; erano destinati a te, ora non lo sono piú. Vedi che parlo aperto e sincero!... Usami dunque l'egual confidenza, dimmi quanto ti bisogna per vivere un anno comodamente. Io mi piegai sotto la stringente logica paterna e soggiunsi che trecento ducati mi sarebbero stati piú che sufficienti. - Bravo, figliuol mio! - ripigliò mio padre. - Sei un gran galantuomo. Eccoti una credenziale appunto di settemila ducati sopra la casa Apostulos in San Zaccaria; la quale tu consegnerai oggi stesso al rappresentante della casa. Troverai ottima gente, generosa e leale: un vecchio ch'è la perla dei mercanti onesti e che sarà per te un altro me stesso: un giovine appena reduce dalla Grecia che ne compera venti dei nostri veneziani; una giovinetta che tu amerai come una sorella; una mamma che ti amerà come mamma. Fidati ad essi: per mezzo loro avrai mie novelle poiché conto imbarcarmi prima di mezzodí, e non voglio vedere le nefandità di questo giorno. La casa ch'io comperai per duemila ducati ti resta in proprietà; ne ho già steso la donazione. Nello scrittoio troverai alcune carte che appartenevano a tua madre. Sono la sua eredità e la viene a te di diritto. Quanto alla tua sorte futura non ti do consigli, perché non ne abbisogni. Altri s'affida ancora alle speranze francesi ed emigra nella Cisalpina. Guarda il fatto tuo; e pensa sempre a Venezia; non lasciarti abbagliare né da fortuna né da ricchezze né da gloria. La gloria c'è quando si ha una patria; stima la fortuna e le ricchezze quando siano assicurate dalla libertà e dalla giustizia. - Non temete, padre mio - soggiunsi piuttosto commosso da queste raccomandazioni che per essere espresse a sbalzi e con un gergo piú moresco che veneziano non erano meno generose. - Penserò sempre a Venezia!... Ma perché non potrei partire con voi, ed esser partecipe dei vostri disegni, compagno delle vostre fatiche? - Ti dirò, figliuol mio: tu non sei abbastanza turco per approvare tutti i miei mezzi; io sono come un chirurgo che mentre opera non vuole intorno a sé donnicciuole che frignino. Non dico per insultarti; ma te lo ripeto, non sei abbastanza turco: questo può ridondare ad onor tuo; per me ci perderei la libertà d'azione che sola dà fretta alle cose di questo mondo. E un uomo di sessant'anni, Carlino, ha fretta ha fretta assai! D'altronde in questi paesi non c'è abbondanza di giovani robusti e ben pensanti come tu sei: va bene che restiate qui, se si ha da imparare a far da noi. Già in un cantone o nell'altro la matassa si deve imbrogliare. Ad Ancona, a Napoli, bollono che è una meraviglia: quando l'incendio si fosse dilatato, chi lo appiccò potrebbe restarne arso; allora toccherà a voi, cioè a noi. Per questo ti dico di rimanere, e di lasciar me solo dove la vecchiaia può riescire meglio della gioventù, ed il danaro aver ragione sopra le forze del corpo e la gagliardia dell'animo. - Padre mio! che volete che vi dica?... Resterò!... Ma si potrebbe almen sapere dove n'andate? - In Oriente vado, in Oriente a intendermela coi Turchi, giacché qui non ebbi voce da farmi capire. Fra poco, se anche non udrai parlare di me, udrai parlare dei Turchi. Di' pur allora ch'io vi ebbi le mani in pasta. Di piú non ti posso dire, perché sono ancora fantasmi di progetti. Mio padre doveva uscire per prender l'ora dal capitano della tartana che salpava pel Levante. Io lo accompagnai, e non altro potei rilevare, senonché egli andava difilato a Costantinopoli ove poteva fermarsi e molto e poco secondo le circostanze. Certo i suoi pensieri non erano né piccoli né vili perché ingrandivano la sua persona e le davano una sembianza di autorità insolita fino allora. Aveva la solita berretta, le solite brache all'armena, ma un fuoco affatto nuovo gli lampeggiava dalle ciglia canute. Verso le nove salí sulla nave colla fida fantesca e un piccolo baule; non mise un sospiro, non lasciò saluti per nessuno, riprese volontario la strada dell'esiglio colla baldanza del giovine che avesse dinanzi agli occhi la certezza d'un vicino trionfo. Mi baciò cosí come all'indomani ci dovessimo rivedere, mi raccomandò la visita all'Apostulos; e poi egli scese sotto coperta, io tornai nella gondola che ci aveva condotti a bordo. Oh come mi trovai solo misero abbandonato al ritoccare il lastrico della Piazzetta!... L'anima mia corse con un sospiro alla Pisana; ma la fermai a mezza strada col pensiero di Giulio e dell'ufficial còrso. Mi rimisi allora a piangere la morte di Leopardo, e ad onorare la sua memoria di quei postumi compianti che formano l'elogio funebre d'un amico. Piansi e farneticai un pezzo, finché per distrarmi pensai alla credenziale, e mi volsi a San Zaccaria per abboccarmi col negoziante greco. Trovai un mustacchione grigio di pochissime parole, che onorò la firma di mio padre, e mi chiese senz'altro in qual modo bramassi esser pagato. Gli risposi che desiderava solo gli interessi d'anno in anno e che il capitale lo lascerei volentieri in mani cosí sicure. Il vecchio allora diede una specie di grugnito, e comparve un giovine al quale consegnò il foglio, aggiungendo in greco qualche parola che non potei capire. Mi disse poi che quello era suo figlio e che n'andassi pure con lui alla cassa, ove mi sarebbe contata la somma secondo il mio piacimento. Quanto era ruvido e brontolone il vecchio negoziante, altrettanto suo figlio Spiridione piaceva per le sue maniere amabili e compite. Grande e svelto di statura, con un profilo greco moderno arditissimo, un colore piucché olivastro, e due occhi fulminei, egli mi entrò in grazia al primo aspetto. Intravvidi una grand'anima sotto quelle sembianze, e secondo la mia usanza l'amai addirittura. Egli mi snocciolò trecento cinquanta ducati nuovi fiammanti, mi chiese scusa sorridendo delle burbere accoglienze di suo padre, e soggiunse che non me ne spaventassi perché egli gli aveva parlato di me quella stessa mattina con tutto il favore, e che sarei il benvenuto nella loro casa, ove avrei ritrovato la confidenza e la pace della famiglia. Io lo ringraziai di sí benevoli sentimenti soggiungendo che questo sarebbe stato il mio piú soave piacere, ove un qualche caso straordinario mi avesse fermato a Venezia. Cosí ci separammo, a quanto parve, amici in fin d'allora con tutta l'anima. Pranzai quel giorno, v'immaginerete con quanta voglia, in una bettolaccia, ove facchini e gondolieri litigavano sullo sgombero dei Francesi e l'entrata dei Tedeschi. Ebbi campo di compiangere profondamente la sorte d'un popolo che da quattordici secoli di libertà non avea tratto né un lume di criterio né la coscienza del proprio essere. Ciò avveniva forse perché quella non era libertà vera; e avvezzi all'oligarchia non vedevano motivo da schifare l'arbitrio soldatesco e l'impero di fuori. Per loro era tutto uno; tutto servire; discutevano sull'umor del padrone e sul salario, e null'altro. Qualche voce meno interessata stonava troppo in quel concerto, e avevano perfin paura di ascoltarla, tanto li aveva usati bene l'Inquisizione di Stato. Quand'io penso alla Venezia d'allora, mi maraviglio che una sola generazione abbia potuto mutarla di tanto, e benedico o le insperate consolazioni della Provvidenza, o i misteriosi e subitanei ripieghi dell'umana natura. Passato per casa mia me ne cacciò tosto la mestizia e la paura della solitudine; mi ricordo che piansi a dirotto trovando sul tappeto la pipa di mio padre ancor piena di cenere. Pensai che tutto finiva cosí; e mi entrò in cuore un involontario sospetto che quello fosse un pronostico. In tali disposizioni d'animo il povero Leopardo mi attirava a sé con forza irresistibile; infatti il resto della giornata lo passai vicino al letto dove i pietosi vicini lo avevano adagiato. La portinaia mi disse che la vedova di quel signore se n'era ita colle sue robe lasciando otto ducati per le spese del funerale; e l'avea detto prima di partire, che non le reggeva il cuore di restar un'ora di piú sotto lo stesso tetto colle spoglie inanimate di colui che tanto ell'aveva amato. - Peraltro - soggiunse la portinaia - la signora parve arrabbiatissima perché non venne a levarla quel bel cavaliere che era qui questa mattina, e si stizzí anche non poco colla mia ragazzina, perché lasciò cadere per terra una sua cuffia. Dica lei, se questi sono segni di gran dolore! Io non risposi verbo, pregai la donna che non si incommodasse per cagion mia, e siccome la persisteva nelle sue chiacchiere, nelle sue induzioni, mi voltai senza cerimonie dalla banda del morto. Allora essa mi lasciò solo, ed io potei sprofondarmi a mio grado nell'oscuro abisso delle mie meditazioni. Dice bene il mementòmo del primo giorno di quaresima; tutti si torna cenere. Piccoli e grandi, buoni e cattivi, ignoranti e sapienti, tutti ci somigliamo, cosí nella fine come nel principio. Questo è il giudizio degli occhi; ma la mente? - La mente è troppo ardita, troppo superba e insaziabile per accontentarsi delle ragioni che si palpano. Le stupende e sublimi azioni inspirate dal Vangelo non sono elleno figlie legittime dei pensieri della dottrina dell'anima di Cristo? Ecco una divinità, un'eternità in noi che non finisce nella cenere. Quel muto e freddo Leopardo non viveva egli in me, non riscaldava ancora il cuor mio colla bollente memoria dell'indole sua nobile e poderosa? - Ecco una vita spirituale che trapassa di essere in essere, e non vede limiti al suo futuro. I filosofi trovano conforti piú saldi piú pieni; io m'appago di questi, e mi basta il credere che il bene non è male, né la mia vita un momentaneo buco nell'acqua. Allora con questi melanconici conforti per capo, trassi di tasca quello scapolare ch'era caduto il dí prima dalla mano del moribondo nella mia, e da un fesso chiuso con un bottoncino trassi un'immagine della Madonna e alcuni pochi fiori appassiti. Fu come un largo orizzonte che mi si scoperse lontano lontano pieno di poesia, d'amore e di gioventù; tra quell'orizzonte e me vaneggiava allora l'abisso della morte, ma la mente lo varcava senza ribrezzo. I fantasmi non sono paurosi a chi ama per sempre. Ricordai le belle e semplici parole di Leopardo; rividi la fontana di Venchieredo, e la leggiadra ninfa che vi bagnava l'un piede increspando coll'altro il sommo dell'acque; udii l'usignuolo intonar un preludio, e un concento d'amore sorgere da due anime, come da due strumenti di cui l'uno ripete in sé i suoni dell'altro. Vidi uno splendore di felicità e di speranza diffondersi sotto quel fitto fogliame d'ontani e di salici... Indi gli sguardi tornarono da quei remoti prospetti fantastici alle cose reali che mi stavano dintorno: rimirai con un tremito quel cadavere che mi dormiva appresso. Ecco un'altra felicità, ahi quanto diversa!... Dopo la luce le tenebre, dopo la speranza l'obblio, dopo il tutto il nulla; ma fra nulla e tutto, fra obblio e speranza, fra tenebre e luce quanta vicenda di cose, quanto fragore di tempeste, e sguiscio di fulmini! Si armi di costanza e di rassegnazione il piloto per trovare un porto in quel pelago vorticoso e sconvolto; alzi sempre gli occhi al cielo, ed anche traverso nuvole e al velo luttuoso della procella traveda sempre colla mente lo splendor delle stelle. Passano le navi, ora calme e leggiere come cigni sull'onda d'un lago, or risospinte ed agitate come stormo di pellicani tra il contrario azzuffarsi dei venti; sorgono i flutti minacciosi al cielo, si sprofondano quasi a squarciare le viscere della terra, e si stendono poi graziosi e tremolanti all'occhio del sole, come serico manto sulle spalle d'una regina. L'aria si annebbia greve e cinerea; s'empie di nubi, di burrasche, di tuoni, nera come l'immagine del nulla nella notte profonda, grigia come la chioma scapigliata delle streghe nel trasparente biancheggiar del mattino. Indi la brezza profumata spazza via come larve sognate quelle apparizioni spaventose; il cielo s'incurva azzurro calmo e sereno, e non ricorda e non teme piú l'assalto dei mostri aereiformi. Ma cento milioni di miglia sopra quelle effimere battaglie, le stelle siedono eterne sui loro troni di luce; l'occhio le perde di vista talvolta e il cuore ne indovina sempre i raggi benigni, e ne sente e ne raccoglie l'arcano calore. O vita, o mistero, o mare senza sponde, o deserto popolato da oasi fuggitive, e da carovane che viaggiano sempre, che non giungono mai! Per consolarmi di te bisogna che io slanci il pensiero fuori di te; veggo le stelle ingrandirsi agli occhi delle generazioni venture; veggo il piccolo e modesto seme delle mie speranze, covato con tanta costanza, fecondato da tanto sangue da tante lagrime crescere in pianta gigantesca, empir l'aria de' suoi rami, e proteggere della sua ombra la famiglia meno infelice de' miei figliuoli! Oh non vivrò io sempre in te, anima immensa, intelligenza completa dell'umanità! - Cosí pensa il giovane sul sepolcro dell'amico; cosí si conforta la vecchiaia nel baldanzoso aspetto dei giovani. La giustizia, l'onore, la patria vivono nel mio cuore, e non morranno mai. La stanchezza mi vinse, dormii alcune ore sullo stesso letto dove dormiva per sempre Leopardo; e il mio sonno fu profondo e tranquillo come sul seno della madre. La morte veduta cosí davvicino in simili sembianze nulla aveva d'orribile, o di schifoso; sembrava un'amica fredda e severa bensí, ma eternamente fedele. Mi destai per porgere gli estremi uffici all'amico, deporlo nel suo ultimo letto, e accompagnarlo per le acque silenziose all'isola di San Michele. Io invidio ai morti veneziani questo postumo viaggio; se un lontano sentore di vita rimane in essi, come pensa l'americano Pöe, deve giungere ben soave ai loro sensi assopiti il dolce molleggiar della gondola. In quel lido angusto e deserto, popolato soltanto da croci e da uccelli marini, poche palate di terra mi divisero per sempre da quelle spoglie dilette. Non piansi, tanto era impietrato di dentro come l'Ugolino di Dante; tornai colla stessa gondola che avea condotto la bara, e il vivo che tornava non era allora piú vivo del morto ch'era rimasto. Rientrato in Venezia osservai un andirivieni di curiosità fra la gente del volgo, e un movimento maggiore del consueto nella guarnigione francese. Udii da taluno che erano giunti i Commissari imperiali per disporre le cerimonie della consegna; li avevano veduti entrare al Palazzo del Governo e il popolo s'affollava per vederli ripassare. Non so per qual ragione mi fermai, ma credo che cercassi alla peggio un nuovo dolore che mi distraesse dal mio sbalordimento. Indi a poco i Commissari uscirono in fatti con grande scalpore di sciabole e pompa di piume. Ridevano e parlavano forte cogli ufficiali francesi che li accompagnavano; cosí scherzando e ridendo s'imbarcarono in una peota fatta loro addobbare suntuosamente da Serrurier per ricondurli al campo. Uno solo si divise dai compagni per restare a Venezia; ed era nientemeno che il signore di Venchieredo. Mezz'ora dopo lo vidi ripassare in Piazza a braccetto del padre Pendola, ma non aveva piú né sciabola né piume, vestiva un abito nero alla francese. Raimondo e il Partistagno ch'io vedeva allora a Venezia per la prima volta, li seguivano con un'aria di trionfo; l'accostarsi di quest'ultimo a simil razza di gente mi spiacque non poco; non tanto per lui quanto perché era indizio del gran frutto che i furbi saprebbero trarre dalla pieghevole natura degli ignoranti. La lama non pensa, ma è tuttavia strumento micidiale in un pugno ben sperimentato. Finii collo scappare a casa, perché sentiva di non poter reggere piú a lungo; e vi confesso che in quel momento era inetto affatto a qualunque forte deliberazione. Per quanto avessi udito bisbigliare di arresti, di condanne e di proscrizioni, non mi poteva decidere a movermi di colà. Era caduto in quello spensierato abbattimento nel quale ci mancano i nervi e la volontà per saltare dalla finestra; ma un fulmine che ci colpisse, o una trave caduta giù pel capo, parrebbe un regalo del cielo. Allora soltanto mi risovvenne di quelle carte appartenenti a mia madre le quali io doveva trovare nello scrittoio; misera eredità d'una sventurata ad un orfano piú sventurato ancora. Apersi trepidando il cassetto; e slegata una vecchia busta di cartone, mi misi a rovistare alcuni fogli polverosi e giallognoli che vi si contenevano. Scorsi prima alcune lettere amorose piú o meno invenezianate e cosperse di errori ortografici. Erano d'un nobiluomo forse morto da gran tempo e seppellito coi fantasmi de' suoi amori; non appariva il nome, ma la nobiltà del suo casato era accertata da molti passi sparsi qua e là in quella lunga corrispondenza. Potrei darne qualche saggio per mostrar la maniera con cui si faceva all'amore colle zitelle alla metà del secolo passato. Pare che le quistioni importanti non si trattassero in iscritto; invece l'amante si dava gran cura di metter in mostra le proprie belle qualità, e di descrivere le impressioni avute dalle buone grazie della bella in varie circostanze. Il frasario non era troppo squisito; ma quanto mancava di squisitezza si compensava coll'ardenza; sopra tutto poi si diffondeva un incanto di buona fede, di calma, di bontà, che adesso è relegato nelle letterine che i collegiali scrivono ai parenti per le feste di Natale. Tuttavia, potete crederlo, che quella lettura non si affaceva molto in quel giorno con quell'umore. Passai oltre. Altre lettere di maestre e d'amiche di convento, piú scipite delle prime. Andai innanzi ancora. Successe il completo epistolario erotico di mio padre. C'era del balzano assai; ma egli pareva innamorato quanto mai lo può essere uomo al mondo; e l'ultimo suo biglietto stabiliva il giorno e l'ora di quella fuga, che avea condotto i miei genitori a concepirmi in Levante. Come corollario a quelle lettere, trovai un libricciuolo di memorie tutte di pugno di mia madre, datate da molte città del Levante e dell'Asia Minore. Lí cominciava la storia. La felicità di mia madre avea durato fino a metà del tragitto. Le burrasche e il mal di mare pel resto del viaggio, la miseria e gli alterchi nei primi loro pellegrinaggi, in seguito le malattie gli strapazzi e perfino la fame le avevano smorzato d'assai quel primo incendio d'amore. Tuttavia non si stancava dal seguir suo marito, dal sopportare pazientemente le sue stranezze la sua indifferenza, e sopratutto le sue gelosie che parevano assai strane. Egli restava assente delle settimane intiere dai luoghi ove collocava la moglie, e questa rimaneva affidata a qualche povera famiglia di turchi, ove le conveniva fare da fantesca e da guattera per guadagnarsi il vitto. Mio padre girava intanto per gli harem e pei chioschi dei ricchi mussulmani commerciando di spilloni, di specchietti e d'altri ninnoli ch'ei sapeva vendere a prezzi incredibili; cosí almeno affermava mia madre ridotta allo stremo di tutto. Un bel giorno sembrava che le gelosie ricominciassero piú violente che mai a proposito della sua gravidanza. L'accusato era un brioso fellah delle vicinanze; mia madre scriveva roba di fuoco intorno a questa ingiustizia del marito; sembra ch'ella sospettasse in lui un sistema premeditato per annoiarla di quella vita, per finirla affatto o per isforzarla a fuggire. Allora la sua superbia cominciò a raddrizzarsi: da quei lamenti da quelle disperazioni tornava a trapelare la nobildonna offesa nell'onore; l'animo suo s'esasperava sempre piú in quelle noterelle buttate giù sulla carta giorno per giorno con mano rabbiosa; finalmente si giungeva ad una pagina vuota dove null'altro era scritto senonché queste parole: "Ho deciso!" Cosí terminavano quelle memorie; ma le completava una lettera scritta da essa medesima a mio padre, dappoiché la ebbe deciso. Non posso far a meno di riportar quelle poche righe le quali serviranno a profilar meglio l'indole di mia madre. Ahimè! perché non posso io parlarne piú a lungo?... Perché l'amore di figlio non ebbe egli nella mia vita che un barlume lontano di confuse memorie, ove posarsi? Tale è la sorte degli orfani. Ad ottant'anni dura ancora il rammarico di non poter contemplare nel memore pensiero l'immagine della madre. Le labbra che non ricordano il sapore de' suoi baci inaridiscono piú presto al fiato maligno dell'aria mondana. "Marito mio! (cosí cominciava la scritta ov'ella prendea commiato da mio padre per sempre) Io volli amarvi, io volli fidarmi a voi, io volli seguirvi fino in capo al mondo contro l'opinione de' miei parenti i quali mi vi dipingevano come un birbante senza cuore, e senza cervello. Ho avuto ragione o torto? Lo saprà la vostra coscienza. Io per me so che non debbo sopportare piú a lungo sospetti che mi disonorano, e che la creatura di cui ho già fecondo il grembo non deve imporsi per forza ad un padre che la rifiuta. Io fui una donna frivola, e vanitosa; l'amor vostro mi fece pagar cari questi miei difetti. Io mi rassegno di buon grado a farne una piú ampia penitenza. In tutta me non ho che venti ducati; farò il possibile di tornare a Venezia ove troverò per giunta la vergogna e il disprezzo. Ma consegnata la mia creatura ai suoi parenti che non avranno cuore di respingerla, Dio faccia pure di me quello che vuole! Voi starete assente otto giorni ancora; tornando non mi troverete piú. Di questo sono sicura. Ogni altra cosa sta nelle mani di Dio!". La lettera portava la data di Bagdad. Da Bagdad a Venezia per quattromila miglia di deserto e di mare, in una stagione soffocante, con poca conoscenza della lingua, colla persona affranta dall'inedia e dalla passione rividi col pensiero la poveretta mia madre. Partiva con venti ducati in tasca dalla casa d'un marito sospettoso e brutale; s'avviava attraverso un viaggio pieno di pericoli e di fatiche alle repulse alla vergogna che l'attendevano nella sua patria. Moglie affettuosa e sacrificata sarebbe confusa colle donne da partito, e buon per lei se taluno fosse tanto generoso tra' suoi parenti da raccogliere d'in sul lastrico il suo figliuolino!... Ohimè! ed era per cagion mia che ella avea sofferto tanto vitupero, sfidato tanti patimenti! Sentiva quasi il rimorso d'esser nato; sentiva che una lunghissima vita tutta consacrata a consolare, a far beata quell'anima santa avrebbe appena bastato ad appagar il mio cuore; ed io non aveva né contemplato il suo volto, né sorriso ai suoi sguardi, né succhiato un gocciolo solo del suo latte!... L'aveva menata colla mia nascita sulla via della perdizione; là l'aveva abbandonata senza aiuto, senza conforto. Io detestava quasi mio padre; ringraziava Dio ch'egli fosse partito e che un grande spazio di tempo dovesse trascorrere tra la lettura di quei fogli e il primo istante che l'avrei riveduto! Altrimenti non prevedeva qual potesse essere la fine nella battaglia de' miei affetti. Qualche bestemmia qualche maledizione mi sarebbe sfuggita dalle labbra. Oh se piansi quel giorno!... Oh come colsi premuroso quello sfogo non solo concesso ma sacro e generoso dell'affetto filiale per alleggerire colle lagrime il peso infinito de' miei dolori!... Come si univano misteriosamente nell'angoscia che mi riboccava dal cuore in urli e in singhiozzi, e la patria venduta, e l'amico volontariamente morto, e l'amante infedele e spergiura, e l'ombra della madre impressa ancora il volto dei patimenti della sua vita!... Oh come mi scagliava furibondo e terribile contro coloro che avevano cercato d'infamare la memoria di questa benedetta e allontanarmi dal rispetto della buona anima sua con sacrileghe calunnie!... Sí, io voleva che fossero calunnie ad ogni costo: son sempre calunnie le accuse ai poveri morti, le accuse senza esame e senza pudore scagliate contro una tomba. Chi credeva vogliosamente, e aggravava pur anco le colpe di mia madre, sapeva egli i suoi sacrifizi, le torture, le lagrime, il lungo martirio che avea forse estenuato le sue forze, e travolta la ragione?... Io mi straziava il petto colle unghie, e mi strappava i capelli per non poter sorgere a vendetta di quei codardi improperi; il silenzio da me tenuto durante l'infanzia appetto a quei furtivi detrattori mi rimordeva come un delitto. Perché non m'era io alzato a svergognarli con tutto il coraggio dell'innocenza e la veemenza d'un figlio che si sente insultato nella memoria della madre? Perché i miei piccoli occhi non aveano lampeggiato di sdegno, e il cuore non avea rifuggito dall'accettare la compassione di coloro che mi faceano pagare a prezzo d'infamia un tozzo di pane ed un cantuccio d'ospitalità? - Mi salivano al volto le fiamme della vergogna; avrei dato tutto il mio sangue tutta la mia vita per riavere uno di quei giorni, e vendicarmi di una sí disonorevole servitù. Ma non era piú tempo. Mi avevano instillato, si può dire col latte, la pazienza, il timore e aggiungerei quasi l'impostura, i tre peccati capitali degli accattoni. Era cresciuto buono buono buono; il mio temperamento rammollito dalla soggezione non cercava che pretesti per piegarsi e padroni per obbedire. Allora conobbi tutti i pericoli di quel lasciarsi correre a seconda delle opinioni, e degli affetti altrui; mi proposi per la prima volta di esser io, null'altro che io. Ci son riuscito in un cotale proponimento? A volte sí, ma piú spesso anche no. La ragione non è lí sempre apparecchiata a tirare in senso contrario all'istinto; talvolta complice ignara, talaltra anche maliziosamente ella usa mettersi dal lato del piú forte: allora ci crediamo forti e commettiamo delle viltà, tanto piú spregevoli quanto piú ignorate e sicure dalla disistima del mondo. Non c'è scampo, o speranza. Nell'indole del fanciulletto sta racchiuso il compendio il tema della vita intera: onde io non mi stancherò mai di ripetere: "O anime rettrici dei popoli, o menti fiduciose nel futuro, o cuori accesi d'amore di fede di speranza, volgetevi all'innocenza, abbiate cura dei fanciulli!" - Lí stanno la fede, l'umanità, la patria. L'inventario dell'eredità materna era bell'e terminato. Ma tra l'ultima lettera di mia madre e il cartone della busta trovai un foglio con alcune righe scritte, a vederle, di fresco. Infatti portavano la data di due giorni prima, ed erano di mano di mio padre. Non vi posso nascondere che le guardai quasi con ribrezzo e pareva che m'abbruciassero le dita. Peraltro quando mi fui calmato lessi quanto segue: "Figliuolo mio. Tutto ciò che hai letto di tua madre io poteva celartelo per sempre; ringraziami di averla rialzata nella tua stima a scapito anche di quella che io avessi potuto inspirarti. Ho veduto che hai bisogno di conforto e ho voluto lasciartene uno a costo di pagarne salate le spese. Io ho sposato tua madre per amore; questo non posso negarlo; ma io credo che non fossi fatto per questa sorta di passioni, e cosí l'amore mi svampò troppo presto dal capo. La mia partenza pel Levante, le mie fatiche, i miei viaggi colà miravano a un altissimo scopo; in poche parole voleva far dei milioni, e lo scopo lo avrei raggiunto in seguito. Ti confesso che una moglie mi impicciava non poco. Mi si guastò l'umore; la crudeltà con cui io tiranneggiava me stesso riducendo i miei bisogni allo strettissimo necessario, fu creduta da essa una maniera trovata apposta per martoriarla. Le mie continue lontananze e le preoccupazioni di quel grande disegno che mi frullava sempre in capo davano motivo ad alterchi, a risse continue. Ella finí col trovarsi ottimamente in qualunque compagnia turca o rinnegata che non fosse la mia. Sovente tornando a casa io udiva le sue stridule risate veneziane che echeggiavano dietro le persiane; la mia presenza rimenava la stizza, le sgrugnate, le lagrime. Sopratutto al fianco di quel tal fellah mia moglie dimenticava assai facilmente il marito burbero e lontano. "Allora intervenne a me quello che spesso succede nei temperamenti né troppo generosi né abbastanza sinceri. Divenni geloso; ma forse in fondo in fondo mi accorgeva che la gelosia era un appiglio per dar tanta noia a mia moglie ch'ella fosse costretta ad abbandonarmi. Ti giuro ch'io aspettava con impazienza da parte sua una qualche scena di disperazione, e una domanda assoluta di tornare a Venezia. Ma era ben lontano dal temere una fuga. Ella era paurosa dilicata e piuttosto portata a parlare che a fare. La sua improvvisa partenza mi sorprese e mi accorò non poco; ma io era allora in Persia, non tornai che un mese dopo quando non m'era possibile neppur tentar di raggiungerla. Fitto piucchemai il capo nella mia impresa d'arricchire, tutti i pensieri che me ne stornavano li riguardava come tanti nemici; tu saprai già, oppure ti sarà facile comprendere quello stato dell'animo nostro nel quale si propende a creder vero ed ottimo ciò che piace; e a forza di abitudine lo si crede infatti. Per attutare i rimorsi che mi inquietavano, io mi persuasi che la mia gelosia non era senza un buon motivo, e che io non ci aveva colpa della gravidanza di mia moglie. M'accostumai sí bene a questa commoda opinione che non mi diedi piú pensiero né di essa né di ciò che fosse nato da lei. "Seppi che o bene o male l'era giunta a Venezia; e contento di ciò e d'esser finalmente libero da un legame che mi importunava, mi diedi a tutt'uomo e con maggior pertinacia ai miei negozi. Solo tornando in patria coi sognati milioni già coniati in bei zecchini e in grossi dobloni mediante la mia costanza, io ebbi il tempo di pescare per ozio nelle carte lasciatemi da tua madre. Una navigazione di quarantadue giorni mi diede commodità di meditarvi sopra a lungo. Perciò sbarcato a Venezia ti rividi con discreto piacere: e i sospetti concepiti intorno alla tua nascita s'andavano dileguando. Ma cosa vuoi? ci riesciva a stento. Sentiva di darmi la zappa sui piedi, e di fare come quei corbelli che dopo aver celato un delitto per vent'anni, corrono a confessarlo al giudice per farsi appiccare. Mi maraviglio e mi maraviglierò sempre che la mia morale levantina abbiami consentito questo dannoso pentimento. Gli è vero che coi Turchi e cogli Armeni io era avvezzo a trattare come colle bestie; e a mercanteggiarli ed assassinarli senza scrupolo; ma non aveva mai messo le unghie in carne cristiana, e tua madre, vivaddio! checché ne dica sua sorella contessa, era cristiana piú di alcuno fra noi. "Fors'anco l'interesse mi conduceva a ravvedermi di quegli ingiusti sospetti. La risurrezione di casa Altoviti s'era assorellata poco a poco nella mia mente alla risurrezione di Venezia; e sperai, come si dice, di prendere due colombi ad una fava. Io m'era adoperato assai a Costantinopoli per volgere i Turchi a romperla colla Sacra Alleanza e divertirne le forze dalla Germania e dall'Italia. Riuscito se non altro a tenerli in bilico, aveva qualche merito presso i Francesi, creduti allora cosí alla lontana i rinnovatori del mondo. Col favor dei Francesi, coll'aiuto dei cospiratori interni che facevano capo a me nelle loro mene d'Oriente, colla mia perspicacia, coi miei milioni sperava di adoperare in modo che un giorno o l'altro sarebbero state in mia balía le sorti della Repubblica. Ti spaventi? Eppure ci mancò poco; mancò solamente la Repubblica. Soltanto che io scopersi di essere un po' vecchio: e qui potrei farmi un merito!... Potrei dire che l'essermi confessato vecchio appena mi scontrai con te, fu un buon movimento dell'animo che m'induceva a rappezzare i torti commessi. Comunque la sia, lascio volentieri in ombra questi profondi motivi delle mie azioni che balenano appena in quel barlume di coscienza che m'è rimasto; e non mi faccio bello di virtù piuttosto dubbie che certe. Io ti vidi, ti abbracciai, ti tolsi per mio vero e legittimo figliuolo, ti amai col maggior cuore che aveva, e collocai in te ogni mia ambizione. La tua domestichezza aggiunse forza e dolcezza a tali sentimenti; e con questo che ora ti scrivo sembrami darti una prova che sono tuo padre davvero. "In procinto di tornare alla mia vita avventurosa e piena di pericoli per inseguir ancora quel fantasma che mi è sfuggito quando appunto credeva di averlo fra le braccia, sul momento di imbarcarmi per una spedizione che potrebbe finire colla morte, non volli tacere un ette di quanto riguarda i nostri legami di sangue. Ho una gran vendetta da compiere, e la tenterò con tutti quei mezzi che la fortuna mi consente: ma tu sei ancora a parte delle mie speranze, e compíto quel grande atto di giustizia, a te s'aspetterà di raccoglierne l'onore ed il frutto. Per questo volli che tu rimanessi, oltreché per le altre ragioni che ti espressi a voce. Bisogna che tu stia sotto gli occhi de' tuoi concittadini per accaparrartene l'affetto e la stima. Rimani, rimani, figliuol mio! Il fuoco della gioventù serpeggia nella gente da Venezia a Napoli; chi pensa di valersene per far carbone a proprio profitto, potrebbe da ultimo trovare un qualche intoppo. Cosí almeno io confido che sarà. Se a me stesse designarti un posto, sceglierei Ancona o Milano; ma tu sarai giudice migliore secondo le circostanze. Intanto hai saggiato a prova questi ciarloni francesi; volgi contro di essi le loro arti; usane a tuo vantaggio, com'essi abusarono di noi a lor solo giovamento. Pensa sempre a Venezia, pensa a Venezia, dove erano i Veneziani che comandavano. "Ora nulla ti è nascosto; puoi giudicarmi come meglio ti aggrada, perché se non ti ho fatto colla viva bocca questa confessione fu solamente a cagione dell'esser io il padre e tu il figliuolo. Non voleva difendermi, voleva raccontare: vedi anzi che ho filosofato piú del bisogno per chiarire la parte cosí ai buoni come ai cattivi sentimenti. Giudicami adunque, ma tien conto della mia sincerità, e non dimenticare che se tua madre fosse al mondo ella godrebbe di vederti amoroso ed indulgente figliuolo". Scorsa questa lunga lettera tanto diversa dalla consueta cupezza di mio padre, e nella quale l'indole di lui si scopriva intieramente colle sue buone doti, coi suoi molti difetti, e col singolare acume del suo ingegno, rimasi qualche tempo soprappensiero. Ebbi finalmente la buona ispirazione di sollevarmi anch'io all'altezza delle cose sante ed eterne; là trovai scolpito a caratteri indelebili quel comandamento che è proprio degno di Dio: Onora tuo padre e tua madre. Questo duplice affetto non può separarsi; e l'onorare mia madre implicava in sé di perdonare a colui, al quale certo ella avrebbe perdonato vedendolo compunto e pentito del suo tristo ed obliquo operare. Per giunta debbo io confessarlo?... Quel temperamento duro e selvaggio ma tenace ed intero di mio padre esercitava sul mio una certa violenza: i piccoli sono sempre disposti ad ammirare i grandi; quando poi li spinga il dovere, l'ammirazione loro trascende ogni misura. Pensai, pensai; e resi spontaneamente tutto il mio cuore a quel solo che me lo chiedeva col sacro diritto del sangue. Quali fossero quei nuovi disegni che lo richiamavano in Levante, non mi venne fatto neppure d'immaginarmeli. In complesso mi fidava di lui aspettandomi di vedere quandocchesia qualche cosa di grande; e benché egli rimanesse ingannato come noi dalle stesse illusioni, lo reputava tanto superiore per larghezza di vedute, e tenacia e forza di volontà che non avrei saputo figurarmelo illuso e sconfitto per la seconda volta. Allora era giovine; neppure il dolore mi rintuzzava la speranza, e questa si facea strada dovunque in mezzo agli sconforti ai timori alle angosce dell'animo. Cosí tornato alquanto in me da quell'utile esercizio interiore, desinai d'un pezzo di pane trovato sopra un armadio; e uscii a notte fatta per cercare di Agostino Frumier se era ancora a Venezia e concertarmi con lui sulla nostra partenza. La verità si era che una cura piú profonda e vergognosa di parlare in nome proprio metteva innanzi cotale pretesto di dilazione: tanto è vero che avviato a casa Frumier mi sviai senza avvedermene fino al Campo di Santa Maria Zobenigo dove sorgeva il palazzo Navagero. E là giunto me ne pentii, ma non potei fare che non mi fermassi a spiare tutte le finestre, e che non scendessi anche sul traghetto per guardare il palazzo dalla parte del Canal Grande. Le impannate erano chiuse dappertutto e non potei neppure indovinare se vi fosse lume o buio negli appartamenti. Mogio mogio colle orecchie basse mi volsi di malavoglia a casa Frumier, ove mi fu detto che sua Eccellenza Agostino era in campagna. La settimana prima un servo non si sarebbe arrischiato di pronunciare a voce alta quel titolo; ma la nobiltà tornava a far capolino; io non me ne incaricai gran fatto; solo mi dispiacque quel subitaneo girellismo, e in seguito ebbi poi tempo di avvezzarmi anche a questo. - In campagna! - io sclamai con una buona dose d'incredulità. - Sí, in campagna dalla banda di Treviso - rispose il servo - e lasciò detto che tornerà la settimana ventura. - E il nobiluomo Alfonso? - richiesi io. - L'è a letto da due ore. - E il signor Senatore?... - Dorme, dormono tutti!... - Buona notte! - io conclusi. E colla stessa parola misi in pace tutti i pensieri tutte le paure che mi venivano spunzecchiando pel capo. La parte migliore la piú civile ed assennata del patriziato veneziano avrebbe finto di dormire: gli altri!... Dio me ne liberi!... Non volli pensare a distribuir le parti. - Quello che è certo è che la settimana seguente, allo stabilirsi del governo imperiale in Venezia, Francesco Pesaro, l'incrollabile cittadino, l'innamorato degli Svizzeri, l'Attilio Regolo della scaduta Repubblica, riceveva i giuramenti. Lo noto qui, perché almeno i nomi non facciano velame alle cose. Seguitai intanto a passeggiare al chiaro di luna. Pattuglie d'arsenalotti, di guardie municipali e di soldati francesi s'incontravano gomito a gomito nelle calli, si schivavano come appestati e andavano pei fatti loro. Il fatto dei Francesi era d'imbarcare quanto piú potevano delle dovizie veneziane sul naviglio che dovea veleggiare verso Tolone. I capi per consolarci dicevano: - State quieti! È una mossa strategica! Torneremo presto! - Intanto per tutto quello che non poteva succedere ci conciavano di sorta che a pochi doveva rimanere il desiderio del loro ritorno. Il popolo tradito, ingiuriato, spogliato a man salva, s'intanava nelle case a piangere, nei templi a pregare, e dove prima pregavano Dio di tener lontano il diavolo, lo supplicavano allora di mandar al diavolo i Francesi. Gli animi volgari si piegano arrendevoli alla tolleranza del minor male; né bisogna aspettarsi di piú da chi sente prima di pensare. Dei beni perduti si sperava almeno di riacquistarne alcuno; la libertà è preziosa, ma pel popolo bracciante anche la sicurezza del lavoro, anche la pace e l'abbondanza non sono cose da buttarsi via. È un difetto grave negli uomini di pretendere le uguali opinioni da un grado diverso di coltura; come è errore massiccio e ruinoso nei politici appoggiare sopra questa manchevole pretensione le loro trame, i loro ordinamenti! Dai Frumier passai a cercare degli Apostulos, perché la solitudine mi spingeva sulla strada delle deliberazioni, ed io non aveva questa gran voglia di deliberare. Là io trovai abbastanza da perdere un paio d'ore; scommetto di piú che non mi sarei figurato giammai di perderle con tanto piacere. Il vecchio banchiere greco stava ancora nello studio; d'intorno ad una bragiera alla spagnuola sedeva la sua vecchia moglie, una vera figura matronale con un bel paio d'occhiali sul naso e il Leggendario dei santi aperto sui ginocchi; una vaga fanciulla vestita di bruni colori, tutta leggiadria, tutta greca dalle radici dei capelli fino ai petulanti coturni mainotti, e questa ricamava un paramento da altare; finalmente il simpatico Spiro che si guardava le unghie. Questi due ultimi balzarono in piedi alla mia venuta, e la vecchia mi guardò dignitosamente di sopra agli occhiali. Indi il giovane mi presentò secondo il convenevole alla signora madre e a sua sorella Aglaura, ed io entrai quarto nel colloquio. Una conversazione di Greci non ci starebbe senza quattro dita di pipa; a me ne offersero una che andava fuori della stanza, e siccome dopo il mio accasamento a Venezia ci avea studiato sopra anche a quest'arte importantissima del vivere moderno, cosí me la cavai senza sfigurare. Aveva però tutt'altra voglia che di fumo, e la distrazione mi mandò a traverso dei polmoni parecchie boccate. - Che vi pare di Venezia? cosa avete fatto di bello quest'oggi? - mi domandò Spiro per intavolar il discorso in qualche maniera. - Venezia mi pare un sepolcro dove ci frugano i becchini per ispogliare un cadavere - gli risposi io. E per dirgli quello che avea fatto, gli narrai d'un mio amico che era morto, e degli ultimi dolorosi uffici ch'io avea dovuto prestargli. - Ne ho udito parlare in Piazza - soggiunse Spiro - e lo dicevano avvelenato per disperazione patriottica. - Certo aveva animo da disperarsi cosí altamente - ripresi io senza assentire direttamente. - Ma credete voi che siano atti di vero coraggio questi? - mi richiese egli. - Non so - soggiunsi io. - Quelli che non si ammazzano dicono che non è coraggio; ma torna loro conto il dirlo; e d'altronde non hanno mai provato. Io per me credo che tanto a vivere fortemente, come a morire per propria volontà faccia d'uopo una bella armatura di coraggio. - Sarà anche coraggio - riprese Spiro - ma è un coraggio cieco e male avveduto. Per me il vero coraggio è quello che ragiona sull'utilità dei proprii sacrifizi. Per esempio non chiamo coraggio il cader d'una pietra dall'alto della montagna che poi si spacca in frantumi nel fondo della valle. È ubbidienza alle leggi fisiche, è necessità. - Sicché voi credete che chi si toglie di vita pieghi servilmente sotto la necessità fisica che lo abbatte? - Non so s'io creda questo, ma ritengo peraltro che non sia veramente forte e coraggioso quell'uomo che si uccide indarno oggi, mentre potrebbe sacrificarsi utilmente domani. Quando tutto il genere umano sia libero e felice, allora sarà incontrastabile eroismo il togliersi di vita. Potreste citarmi l'unico caso di Sardanapalo, ed anco vi risponderei che Camillo fu piú forte piú animoso di Sardanapalo. La vecchia aveva chiuso il Leggendario, e la bruna Aglaura ascoltava le parole di suo fratello guardandolo di sbieco e colla mano posata sul ricamo. Io adocchiava di sottecchi la giovinetta perché mi stuzzicava la curiosità quest'attitudine risoluta e sdegnosa; ma la mamma s'intromise allora a stornare il dialogo da quel soggetto di tragedia, e l'Aglaura tornò tranquillamente a passare e ripassare in un bel panno pavonazzo la sua agucchiata di seta. Parlammo allora delle novelle che andavano per le bocche di tutti, del prossimo sgombro dei Francesi, dell'ingresso in Venezia degli Imperiali, della pace gloriosamente sperata e dispoticamente imposta; insomma si parlò di tutto, e le due donne si mescolavano al discorso senza vanità e senza sciocchezze; proprio con quella discrezione ben avveduta che sanno tenere di rado le veneziane, peggio poi allora che adesso. L'Aglaura sembrava accanitissima contro i Francesi e non si lasciava scappar l'occasione di chiamarli assassini, spergiuri, e mercanti di carne umana. Ma seppi in seguito che la fuga del suo amante, a cagione del nuovo ordinamento che dovea prendere lo Stato pel trattato di Campoformio, scaldava il sangue greco nelle sue vene giovanili e le faceva trascendere in qualche schiamazzata. Il giorno prima ell'era stata in procinto di ammazzarsi, e suo fratello avea impedito questo atto violento gettandole in canale un'ampolletta d'arsenico già bell'e preparato: perciò lo guardava in cagnesco; ma dentro di sé, fors'anco a riguardo della madre, non era malcontenta che l'avesse trattenuta. E cosí, se maturava ancora fieri propositi pel capo, quello almeno di uccidersi non la molestava piú. Quando fu mezzanotte io presi commiato dagli Apostulos, e mi tornai verso casa rivolgendo in capo e Spiro e l'Aglaura, e il Leggendario dei santi; tutto insomma meno la deliberazione che pur doveva prendere quanto alla mia sorte futura. Scrissi intanto a coloro che esulavano in Toscana e nella Cisalpina il terribile caso di Leopardo che mi scusasse del ritardo. Quando anni dopo lessi le Ultime lettere di Jacopo Ortis nessuno mi sconficcò dal capo l'opinione che Ugo Foscolo avesse preso dalla storia luttuosa del mio amico qualche colore, qualche disegno fors'anco del cupo suo quadro. Del resto mi sovviene che in quella notte mi sognai piú della Pisana che di Leopardo; e ciò serva a smascherare l'astuzia. CAPITOLO DECIMOQUARTO Nel quale si scopre che Armida non è una favola e che Rinaldo può vivere anche molti secoli dopo le crociate. La sbirraglia mi rimette sulla via maestra della coscienza; ma nel viaggio incappo in un'altra maga. Cosa sarà? Il giorno appresso, non mi vergogna il dirlo, ronzai tutta mattina nelle vicinanze di Santa Maria Zobenigo, ma mi dava non poco pensiero il vedere affatto chiuse le finestre del palazzo Navagero. Mi scontrai, è vero, un paio di volte nel tenente d'Ajaccio che pareva in grandi faccende; ma questo non era il conforto che cercava, per quanto l'inquietudine e il malumore che dimostrava il signor Minato fossero per me buoni pronostici. Tuttavia tornai alla mia tana col maggior grugno del mondo, pensando che se anche i Francesi partivano, non partiva perciò né isteriliva la semenza dei vaghi officiali; e che, per giunta all'ostacolo del marito, ci avrei avuto contro anche quest'altra mostruosità della Pisana. In quel momento né la lettura degli Enciclopedisti né la frenesia della libertà me la scusavano di quel subito invagarsi d'uno sbarbatello in assisa. Mi chiusi in casa e poi in camera a rosicchiare come la vigilia un tozzo di pane ammuffito; in tre giorni era diventato magro come un chiodo, ma neppur la fame mi induceva a capitolare. Cosí alla superficie del mio cervello era un pelago di sdegni patriottici, d'elegie funerarie, e di aerei disegni; a guardar sotto si sarebbe trovato il mio pensieruccio di sedici anni addietro vigile e tenace come una sentinella. Quell'allontanarmi dalla Pisana, Dio sa per quanto tempo, senza vederla, senza parlarle, senza aiutarla del mio consiglio contro i pericoli che la circondavano, mi dava uno sgomento cosí grande, che piuttosto avrei arrischiato il collo per rimanere. E questi rischi che io correva infatti, rimanendo anche dopo lo sloggio dei Francesi, servivano a puntellarmi contro la coscienza che di tanto in tanto mi faceva memore di coloro che m'attendevano a Milano. Peraltro cominciava nell'animo qualche avvisaglia d'un prossimo conflitto. Le parole di mio padre m'intronavano le orecchie, vedeva lontano lontano quell'occhiata severa e fulminante di Lucilio... Oimè! credo che soltanto il timore di questa mi facesse correre pel baule; ma nel mentre appunto ch'io lo spolverava, ed aveva acceso un lume per vedere in un camerone buio e profondo, ecco scrollarsi una gran tirata di campanello. "Chi può essere?" pensai. E i buli degli Inquisitori, e le guardie di sicurezza francesi, e gli scorridori tedeschi mi si ingarbugliarono dinanzi la fantasia. Volli piuttosto scender la scala che tirare la corda, e per le fessure dell'uscio diedi uno strepitoso: - Chi va là? Mi rispose una voce tremante di donna: - Son io; apri, Carlino! Ma perché ella fosse tremante non la conobbi meno, e mi precipitai ad aprire col petto in angoscia cosí profonda che appena bastava a frenarmi. La Pisana vestita a nero, coi suoi begli occhi rossi di sdegno e di lagrime, coi capelli disciolti e il solo zendado sul capo mi si gettò fra le braccia gridando che la salvassi. Credendo che l'avessero insultata per istrada, io feci per balzar fuori della porta a vendicarla contro chi che si fosse, ma ella mi fermò per un braccio, e appoggiandovisi sopra mi menò verso la scala e su per essa fino alla stanza di ricevimento, come se appunto la conoscesse tutti i buchi della casa; e sí che a mio credere non la ci era mai stata. Quando fummo seduti l'un vicino all'altra sul divano turchesco di mio padre, e si fu sedato in lei il respiro affannoso che le affaticava il petto, non potei ristare dal chiederle tosto cosa significasse quello smarrimento, quel tremore e quella subitanea apparizione. - Cosa significa? - rispose la Pisana con una vocina rabbiosa che si arrotava contro i denti prima di uscir dalle labbra. - Te lo spiego ora io cosa significa! Ho piantato mio marito, sono stanca di mia madre, fui respinta dai miei parenti. Vengo a stare con te!... - Misericordia! Fu proprio questa la mia esclamazione: me la ricordo come fosse ora; del pari mi ricordo che la Pisana non se ne adontò per nulla, e non si ritrasse d'un atomo dalla sua risoluzione. Quanto a me non mi maraviglio punto che il precipizio d'un cotal cambiamento di scena mi fosse cagione d'una penosa confusione, maggiore pel momento d'ogni gioia e d'ogni paura. Comunque fosse, mi sentii sbalzato tanto fuori dall'aria solita a respirarsi, ch'ebbi alla gola una specie di strozzamento; e soltanto dopo qualche istante mi venne fatto di rinsennare e di chiedere alla Pisana qual fosse la ventura che me le rendeva utile in qualche modo. - Ecco - soggiunse ella - già sai che a sbalzi io sono anche troppo sincera, come son bugiarda alcune altre volte, e chiusa e riservata per costume. Oggi non posso tacerti nulla: ho tutta l'anima sulla punta della lingua, e buon per te che imparerai a conoscermi a fondo. Io mi maritai per far dispetto a te e piacere a mia madre, ma son vendette e sacrifizi che presto vengono a noia, e col mio temperamento non si può voler bene ventiquattr'ore ad un marito decrepito, magagnato, e geloso. Dal signor Giulio io avea sofferto qualche omaggio per tua intercessione, ma era stizzita contro di te; figurati poi col tuo raccomandato!... Per giunta io aveva l'anima riboccante d'amor di patria e di smania di libertà; mentre mio marito veniva colla tosse a predicarmi la calma, la moderazione; ché non sapeva mai come potessero volger le cose. Figurati se andavamo d'accordo ogni giorno meglio!... Io m'accontentava sulle prime di veder mia madre gustare saporitamente i manicaretti di casa Navagero, e perdere alla bassetta i zecchini del genero; ma poco stante mi vergognai di quello che innanzi mi appagava, e allora tra mio marito, mia madre e tutti gli altri vecchi, mediconzoli e barbassori che mi si stringevano alle coste, mi parve proprio di essere la pecora in mezzo ai lupi. Mi annoiava, Carlino, mi annoiava tanto, che fui le cento volte per iscriverti una lettera, buttando via ogni superbia; ma mi tratteneva... mi tratteneva per paura di un rifiuto. - Oh che ti pensi ora? - io sclamai. - Un rifiuto da me?... Non è cosa neppur possibile all'immaginazione! Come si vede, durante il discorso della Pisana io aveva cercato e trovato il filo per uscire dal laberinto; questo era di amarla, di amarla sopratutto, senza cercare il pelo nell'uovo, e senza passare al lambicco della ragione il voto eterno del mio cuore. - Sí, temeva un rifiuto, perché non ti aveva dato caparra di condotta molto esemplare; - ella soggiunse - ed ora voglio dartene una col mettere a nudo tutte le mie piaghette, e stomacartene, se posso. Io feci un gesto negativo, sorridendo di questa sua nuova paura; ella racconciandosi i capelli sulle tempie, e puntandosi qualche spillo malfermo nel corsetto, continuò a parlare. - In quel torno fu alloggiato in casa di mio marito un officiale francese, un certo Ascanio Minato... - Lo conosco - diss'io. - Ah! lo conosci?... Bene! non potrai dire che non sia un bel giovine, d'aspetto maschio e generoso, benché lo abbia poi trovato al cimento un perfido, uno spergiuro, un disleale, un vero capo d'oca col cuore di lepre... Io ascoltai con molto malgarbo questa infilzata d'improperi che, secondo me, chiariva anche troppo la verità di quanto Giulio Del Ponte mi avea raccontato il giorno delle feste per la Beauharnais. E la Pisana non si vergognava di confessare sfacciatamente la propria scostumatezza; e non si accorgeva del dolore che mi avrebbe recato la sua importuna sincerità. Io mi mordeva le labbra, mi rosicchiava le unghie, e rimproverava la Provvidenza che non mi avesse fatto sordo come Martino. - Sí - tirava innanzi ella - mi pento e mi vergogno di quel poco di fede che aveva riposto in lui. Credeva che i Còrsi fossero animosi e gagliardi, ma vedo che Rousseau aveva torto di aspettarsi dalla loro schiatta qualche grande esempio di fortezza e di sapienza civile!... "Rousseau, Rousseau!" pensava io. Queste filippiche e queste citazioni m'infastidivano; avrei voluto giungere alla fine e saperla tutta senza tante virgole; laonde mi dimenava sui cuscini e pestava un po' i piedi, presso a poco alla maniera d'un ragazzo ch'è stufo della predica. - Cosa gli chiedeva io? cosa pretendeva da lui? - riprese con maggior impeto la Pisana - forse cose soprannaturali, o impossibili, o vili?... Non gli chiedeva altro che di farsi il benefattore dell'umanità, il Timoleone della mia patria!... Voleva renderlo l'idolo il padre salvatore d'un popolo intero; e in aggiunta a questo dono gli prometteva anche il mio cuore, tutto quello ch'egli avrebbe voluto da me!... Codardo, scellerato!... E mi si inginocchiava dinanzi, e giurava e spergiurava d'amarmi piú della sua vita, piú del suo Dio!... Oh cosa credeva? ch'io volessi offrirmi al primo capitano pei suoi begli occhi, pei suoi lucenti spallini?... S'accontenti allora di portar impressi sul viso i segni d'uno schiaffo di donna. Già dove non ci sono uomini, tocca proprio alle donne. - Calmati, Pisana, calmati! - le andava dicendo dubbioso ancora di non aver capito a dovere - racconta le cose per ordine: dimmi da che nacquero queste tue ire col signor Minato... cosa egli chiedeva da te, e cosa tu di rimando pretendevi da lui? - Cosa egli mi chiedeva?... Che facessimo all'amore insieme, sotto gli occhi del geloso che avrebbero finto di dormire per troppo rispetto alla furia francese!... Cosa pretendeva io da lui?... Pretendeva che egli persuadesse, che egli eccitasse i suoi commilitoni a un atto di solenne giustizia, a contrapporsi concordi alle spergiure concessioni del Direttorio e di Bonaparte, ad unirsi con noi, e a difendere Venezia contro chi domani ne diverrà impunemente il padrone!... Tuttociò ognuno di essi anche il piú imbecille anche il piú pusillanime sarebbe tenuto a farlo senz'altra persuasiva che la rettitudine della coscienza, e l'abborrimento di comandi ingiusti e sleali!... Ma uno che amasse una donna, e si udisse profferta da lei questa nobile impresa, non dovrebbe anzi fare di piú?... Non dovrebbe adottare la patria di quella donna e ripudiare la propria vergognosamente colpevole d'un tanto misfatto?... Ogni francese che udisse simili esortazioni dalla bocca di colei ch'egli giura di amare, non dovrebbe alzar la visiera come Coriolano, e dichiarare un odio eterno e avventarsi furibondo contro questa Medea che divora i propri parti? Che resta la patria senza umanità e senza onore?... Manlio condannò a morte i figliuoli, Bruto uccise il proprio padre! Ecco gli esempi per chi ha cuore e polsi da imitarli!... Vi confesso ch'io non avrei avuto né cuore né polsi da sfoderare una tirata cosí violenta come questa della Pisana; ma aveva cuore e intendimento bastevole per comprenderla, onde ammirando piucché altro quei fieri moti d'un'indole ardente e generosa, mi pentii di averla assai mal giudicata dalle prime parole. Gli epiteti con cui ella infamava il repubblicano tiepido e neghittoso, io li avea creduti rivolti all'amante malfermo o infedele. Cosí alle volte si pigliano de' grossi granchi trascurando l'osservazione generale d'un temperamento per metterne in conto solamente una parte. - E dimmi, dimmi - soggiunsi - come sei venuta a questo scoppio vulcanico contro di esso e contro tutti? - Ci son venuta perché il tempo stringeva, perché da un pezzo egli mi menava d'oggi in domani con certi sorrisi, con certi attucci che non mi assicuravano punto, credendo forse ch'io mi drappeggiassi alla romana per innamorarlo meglio, e che da ultimo poi gli avrei tutto concesso per le sue sdolcerie!... Oh l'ha veduta ora! e son proprio contenta che quest'italiano bastardo abbia imparato a conoscere una vera italiana!... Sai già che ieri i Commissari imperiali vennero a trattare per le forme della consegna; io dunque mi vidi alle strette, e mi affrettai a stringere, tanto piú che egli si incaloriva piucchemai, e figurati cosa ha avuto l'audacia di propormi!... Mi invitava ad abbandonare Sua Eccellenza Navagero ed a partire con lui quando la guarnigione francese si sarebbe ritirata da Venezia! "Sí" gli risposi "io verrò con voi quando voi avrete proclamata in piazza la libertà della mia patria, quando guiderete i vostri commilitoni a sorprendere a vincere a sgominare coloro che si credettero d'impadronirsene senza colpo ferire!... Allora sarò con voi sposa amante serva, quello che vorrete!..." E quello che diceva lo avrei fatto; me ne sento capace. L'amor mio non so, ma ben tutta me stessa io darei a chi tentasse questa illustre vendetta!... Tutta me gli darei col cieco entusiasmo d'una martire, se non colla voluttà di un'amante!... Vuoi invece sapere com'egli mi rispose?... S'attorcigliò dispettosamente il labbro superiore; poi si rimise alla buona e stendendomi la mano per una carezza ch'io rifiutai, balbettò a mezza voce: "Sei un'incantevole pazzerella!" Oh se mi avessi veduta allora!... Tutte le mie forze si condensarono in queste cinque dita, e gli stampai sulla guancia uno schiaffo cosí strepitoso che mia madre mio marito i servi e le cameriere accorsero al romore dalle stanze vicine... Il bell'ufficiale ruggí come un leone. Bugiardo!... con quel cuore di coniglio!... Egli corse colla mano alla spada ma si ravvide tosto vedendosi ritto coraggiosamente dinanzi il mio petto di donna: allora si precipitò fuori della stanza movendo intorno occhiate di furore e gesti di sfida. - "Che hai mai fatto?... Per carità! Guarda! Sei la rovina della casa! Bisogna tollerar il male per fuggir il peggio...". Ecco le parole con cui mia madre e mio marito mi ricompensarono; ma mio marito sopratutto mi moveva a schifo... Dire ch'egli era geloso!... "Ah io sono il cattivo augurio della casa?" io gridai. "Or bene cambierò casa e vi lascerò in pace!" E tosto uscii correndo senzaché alcuno mi trattenesse, e preso un zendado all'infretta nella mia camera, andai in traccia di mio fratello. Non sapevano dove fosse, lo credevano partito! Chiesi allora degli zii Frumier al loro palazzo. Dormivano tutti, aveano comandato che nessuno entrasse, né uomo né donna né parente né amico. Che mi rimaneva da ultimo?... Carlino, non mi restava che tu!... - (Grazie del complimento.) - Mi pentii di non essere ricorsa a te pel primo. - (Meno male!) - Seppi alla porta dei Frumier che tu eri ancora a Venezia e dove abitavi; ed adesso eccomi in tua balía senza paura e senza riguardo, perché a dirla schietta io ho voluto proprio bene a te solo e se tu non me ne vuoi piú per le stranezze e per le scioccaggini che commisi, la colpa il danno il dispiacere sarà tutto mio. Una buona parte peraltro ne toccherà anche a te, perché ad ogni modo, in virtù della nostra antica amicizia, commoda o incommoda, piacevole o noiosa, io mi ti pianto alle coste e non mi movo piú. Se tuo padre volesse darti ancora la Contarini, ch'egli te la dia pure in santa pace; ma le converrà alla sposina sopportar con pazienza questa pillola amara d'avere almeno almeno una cognata fra i piedi... Ciò dicendo la Pisana si diede a saltacchiare sul divano quasi per confermarvi la sua parte di padronanza; e ad averla udita due minuti prima e ad osservarla allora, non sembrava piú certamente la stessa persona. La repubblicana spiritata, la filosofessa greca e romana erasi convertita in una donnetta spensierata e burbanzosa, tantoché lo schiaffo del povero Ascanio poteva anche credersi non meritato. Tuttavia quelle due persone cosí diverse e compenetrate in una sola pensavano, parlavano, operavano coll'uguale sincerità, cadauna nel suo giro di tempo. La prima, ne son sicuro, avrebbe disprezzato la seconda, come la seconda non si ricordava guari della prima; e cosí vivevano fra loro in buonissima armonia come il sole e la luna. Ma il caso piú strano si era il mio, che mi trovava innamorato di tutte due non sapendo a cui dare la preferenza. L'una per copia di vita, per altezza di sentimenti, per facondia di parola, l'altra per tenerezza, per confidenza, per avvenenza mi portava via il cuore: insomma, o a dritto o a ragione era innamorato fradicio; ma ognuno de' miei lettori trovandosi nei miei panni sarebbe stato altrettanto. Soltanto quelle due brune pupille che mi guardavano tra supplici pietose e spaventate di mezzo alle sopracciglia, lasciando arieggiare sotto esse il bianco azzurrognolo dell'occhio, avrebbero vinto la causa. Senza contare il resto, che ce n'era da far belle una dozzina di morlacche. D'altronde, se quella parte tragica sostenuta con tanta veemenza dalla Pisana mi dava soggezione, ci aveva anche argomenti da consolarmene. Era effetto di troppe letture abborracciate avidamente in un cervello volubile e impetuoso; quel fuoco di paglia si sarebbe svampato; sarebbe rimasta quella scintilla di generosità che l'aveva acceso, e con essa io vivrei di buonissimo accordo, come una mia antica conoscenza che la era. Di piú la sfogata eloquenza e la pompa classica di quelle parlate mi assicuravano ch'ella sarebbe stata un bel pezzo senza batter becco. Cosí si argomentava durante la sua infanzia; e sovente la Faustina, per consolarsi d'una domenica irrequieta e rabbiosa, diceva fra sé: "Oggi la signorina ha la lingua fuori dei denti, e il pepe nel sangue! Buon per noi che ci lascerà in pace per tutto il resto della settimana!" Infatti cosí avveniva. Né io ebbi a sbagliar mai anche piú tardi, mettendo in opera il ragionamento della Faustina. Io risposi adunque di tutto cuore alla Pisana che la era la benvenuta in mia casa; e fattole prima osservare il grave passo che la arrischiava, ed il danno che massime nella riputazione le ne poteva derivare, vedendola ciononostante ferma nel suo proposito, mi limitai a dirle che la era dessa la padrona di sé, di me, e delle cose mie. La conosceva troppo per credere che ella si sarebbe ritratta dalle sue idee per le mie obbiezioni; fors'anco l'amava troppo per tentarlo, ma questo è null'altro che un dubbio, non già una confessione. Accettato ch'io ebbi cosí all'ingrosso e senza tanti scrupoli il suo disegno, si venne a metterlo in pratica; allora nel minuto mi si opposero parecchie difficoltà. Prima di tutto poteva io assumere una specie di tutela sopra di lei, incerto com'era di fermarmi a Venezia, anzi sicuro per le date promesse e per legge d'onore di dovermene allontanare? E cosa ne avrebbe detto la sua famiglia, e Sua Eccellenza Navagero piú di tutti, il marito vecchio e geloso? Non si avrebbe trovato a mezzo loro qualche pretesto per darmi il bando? E a me si stava di farmi complice dell'ingiuria che la Pisana scagliava sopra di loro? E non bastava; c'era l'ultimo scrupolo, l'impiccio piú grosso, la difficoltà capitale. Come doveva io coonestare agli occhi del mondo e alla lunga alla lunga anche alla mia coscienza quella vita intrinseca e comune con una bella giovane che amava, e dalla quale aveva tutte le ragioni per credermi amato? - Doveva io dire che aspettavamo cosí meno noiosamente la morte del marito? - Peggiore la rappezzatura che il buco, si dice da noi. - E tutti questi impicci mi saltavano agli occhi, mi affaticavano inutilmente la mente, intantoché la Pisana si consolava, cantando e ballando, della racquistata libertà, e non si dava un fastidio al mondo di quello che potrebbe mormorarne la gente. Ella si fece condurre per tutta la casa dalla cantina alla soffitta, trovò di suo grado i tappeti i divani e perfino le pipe; m'assicurò che noi staremmo là dentro come due principi, e non si prendeva cura né delle apparenze né della modestia. Sapete bene che quando una donna non si sgomenta di certe coserelle, sgomentirsene non tocca a noi; piú che ridicolaggine di chietineria, sarebbe un'offesa alla sua delicatezza, e non vanno lodati quei confessori che suggeriscono i peccati alle penitenti. Tutto ad un tratto mentr'io ammirava l'allegra e sfrontata spensieratezza della Pisana, non sapendo se dovessi ascriverla a sincero amore per me, a scioltezza di costumi, o a pura levità di cervello, ella si fermò colle braccia in croce nel mezzo della sala: levò gli occhi un po' turbata nei miei dicendo: - E tuo padre? Allora solo mi saltò in mente ch'ella non sapea nulla della sua partenza; e mi maravigliai a tre doppi della sua franchezza nel venirsi a stabilire presso di me, mentreché ci vedeva nello stesso tempo meno trascurato il pudor femminile. Quando c'è un padre di mezzo, due giovani son piú sicuri dalle tentazioni, e dalle chiacchiere dei vicini. Insieme a questo pensiero me ne balenò alla mente un altro, ch'ella si spaventasse di trovarmi solo e si ritraesse dalla sua eccessiva confidenza. Poco prima mi doleva di doverla credere noncurante del proprio onore e delle convenienze sociali, allora avrei voluto che la fosse anche piú svergognata d'una sgualdrina purché la stesse contenta della mia compagnia. Guardate come siam fatti! Peraltro il desiderio grandissimo che nutriva di averla meco non andò tant'oltre da mettermi in bocca delle menzogne. Le raccontai dunque schiettamente la partenza di mio padre, e come io abitassi soletto quella casa senza neppure una serva che scopasse i ragnateli. - Meglio, meglio! - gridò ella con un salto battendo le mani. - Tuo padre mi dava soggezione, e chi sa se mi avrebbe veduto di buon occhio. Ma dopo questo scoppio di giocondità s'impensierí tutto d'un colpo, e non ebbe fiato di andar innanzi. Le si strinsero le labbra come per voglia di piangere, e le sue belle guance si scolorarono. - Che hai, Pisana? - le chiesi - che hai ora che t'ingrugni tanto? Hai paura di me, o di trovarti con me solo? - Non ho nulla - rispose ella un po' stizzita, ma piú contro sé stessa, mi parve, che contro nessuno. E poi fece un paio di giri per la stanza guardandosi le punte dei piedi. Io aspettava la mia sentenza col tremito d'un innocente che ha una discreta paura di esser condannato; ma la sospensione della Pisana mi blandiva soavemente il cuore, come quella che mi dava a conoscere che io era proprio amato come voleva io. Finallora quella sua sicurezza a tutta prova e quella soverchia confidenza mi avevano un sapore affatto fraterno che non mi solleticava punto il palato. - Dove mi metterai a dormire? - uscí ella a chiedere di sbalzo con un tal tremito di voce e un cosí vago rossore sul volto che la rabbellí cento volte. Mi ricordo ch'ella mi guardò in faccia sulla prima di quelle quattro parole, ma le altre le pronunciò piú sommesse, e cogli occhi erranti qua e là. "Sul mio cuore!" io ebbi volontà di risponderle "sul mio cuore ove hai dormito tante volte essendo bambina e non hai avuto a lagnartene!". Ma la Pisana s'era fatta tanto leggiadra in quel movimento mescolato d'amore e di vergogna, di sfacciataggine e di riservatezza, ch'io fui costretto a rispettare una sí bella opera di virtù, e trattenni persino il soffio del desiderio per non appannarne la purezza. Giunsi financo a dimenticare la dimestichezza in altri tempi avuta con lei, e a credere che se avessi osato toccarla allora, sarebbe stato proprio la prima volta. Somigliava un valente sonatore di violino che si propone le piú ardue difficoltà per aver il piacere di superarle; ed egli è certo del fatto suo, ma se ne compiace sempre come d'altrettante sorprese. - Pisana - le risposi con voce assai calma e una modestia esemplarissima - qui tu sei la padrona, te l'ho detto fin da principio. Tu mi onori della tua confidenza, e si spetta a me il mostrarmene degno. Ogni camera ha solidi catenacci e questa è la chiave di casa; tu puoi serrarmi fuori sulla calle, se vuoi, che non me ne lamenterò. Ella per sola risposta mi buttò le braccia al collo, e riconobbi in quel subito trasporto la mia Pisana d'una volta. Tuttavia ebbi la delicatezza e l'accorgimento di non prevalermene, e le diedi tempo a riaversi e a correggere colla parola la soverchia ingenuità del cuore. - Siamo come fratelli, n'è vero? - soggiunse ella imbrogliandosi colla lingua in queste parole, e rassettando l'imbroglio con un colpo di tosse. - N'è vero che staremo bene insieme, come ai nostri giorni beati di Fratta? Si stette allora a me di scrollarmi tutto per un brivido che corse per tutte le vene; e la Pisana stoglieva lo sguardo e non sapeva cosa aggiungere, e alla fine io m'addiedi in tempo che per la prima sera eravamo iti anche troppo innanzi e che conveniva separarsi. - Ecco - ripresi io facendo forza a me stesso e conducendola nella camera di mio padre - qui tu starai secura, e libera a tuo grado; il letto te lo acconcerò io in quattro salti... - Figurati se lascerò fare il letto a te!... È faccenda che s'appartiene alle donne per diritto; anzi io voglio fare anche il tuo, e domattina, giacché c'è qui la caffettiera - (ve n'avea una per ogni canto nella stanza di mio padre) - voglio portarti il caffè. Allora ci fu una piccola gara di cortesie che ci svagò dalle prime tentazioni; e contento di essermi fermato lí, io m'affrettai a ritirarmi beato di dormire o di non dormire ancora una notte in compagnia dei desiderii: compagnia molestissima quando non si ha speranza di esserne abbandonati, ma che è piena di delicati piaceri e di poetiche gioie per chi si crede vicino a perderla. Io mi credeva a torto o a ragione in quest'ultimo caso; ma bestia che sono! ci aveva anzi tutte le ragioni, e me lo provò la notte seguente. Qui poi sarebbe il luogo da rispondere a una dilicata domanda che poche lettrici ma molti lettori sarebbero audaci di farmi. A che punto era a quel tempo la virtù della Pisana? - In verità io ho parlato finora di lei con pochissimo rispetto, mettendone in piena luce i difetti, e affermando le cento volte che la era piú disposta al male che al bene. Ma le disposizioni non son tutto. In realtà, di quanti gradini era ella scesa per questa scala del male? E infatti s'era ella calata giù con tutta la persona mano a mano che vi scendeva l'immaginazione, fors'anco il desiderio? - Non parrà forse, ma dal fiutare una rosa allo spiccarla e al mettersela in seno ci corre un bel tratto. Ogni giardiniere per quanto sia geloso non vi proibirà mai di odorar un fiore; ma se fate motto di volerlo toccare, oh allora sí ch'egli si fa brutto, e si affretta a condurvi fuori della stufa!... La domanda è dilicata; ma dilicatissimo è l'obbligo di rispondere. Come potete credere, una piena malleveria io non vorrei farla per nessuno; ma in quanto alla Pisana io credo fermamente che suo marito l'ebbe se non casta certo vergine sposa, e tale la lasciò per la necessaria ritenutezza dell'età canuta. Sia stato merito suo o della precoce malizia che la illuminava, ci sia entrata la fortuna o la Provvidenza, il fatto sta che per le mie ottime ragioni io credo cosí. E con quel temperamento, con quegli esempi, con quella libertà, con quella educazione, colla compagnia della signora Veronica e della Faustina non fu piccolo miracolo. È inutile il negarlo. La religione è per le donne il freno piú potente; come quella che domina il sentimento con un sentimento piú forte ed elevato. Anche l'onore non è freno bastevole, perché affatto nell'arbitrio nostro, e imposto a noi soltanto da noi stessi. La religione invece ha il momento della sua forza in un luogo inaccessibile agli umani giudizi. Essa ci comanda di non fare perché cosí vuole chi può tutto, chi vede tutto, chi punisce e premia le azioni degli uomini secondo il loro intimo valore. Non c'è scampo dalla sua giustizia, né sotterfugi contro i suoi decreti: non v'hanno rispetti umani, né doveri né circostanze che rendano lecito ciò ch'ella ha proibito assolutamente e per sempre. La Pisana sprovveduta di questo aiuto, con un'opinione molto imperfetta dell'onore, fu assai fortunata di arrestarsi alla premeditazione del peccato, senza consumarlo. Non voglio inferirne per lei un gran merito, poiché, lo ripeto, mi sembra ancora piuttosto miracolo che altro: ma debbo stabilire un fatto, e soddisfare anche di ciò la curiosità dei lettori. Mi si perdoni di trattare un po' alla distesa questa materia, perché racconto di tempi assai diversi dai nostri in tale argomento. Gli è vero che la differenza potrebbe essere piú nella vernice che nella cosa. La mattina dopo, non erano ancora le otto che la Pisana mi capitò in camera col caffè. Ella voleva, mi disse, fin dal primo giorno prendere le costumanze d'una buona e diligente massaia. I sogni innamorati della notte nei quali aveva perduto la memoria di tutte le mie afflizioni, la mezza oscurità della stanza protetta contro il sole già alto da cortine azzurre di seta all'orientale, le rimembranze nostre che ci sprizzavano fuori da ogni sguardo, da ogni parola, da ogni atto, la bellezza incantevole del suo visino sorridente, dove le rose si rincoloravano appena allora di sotto ai madori del sonno, tutto mi eccitava a rappiccar un anello di quella catena che era rimasta per tanto tempo sospesa. Presi dalle sue labbra un solo bacio; ve lo giuro; un bacio solo dalle sua labbra, ed anco ne mescolai la dolcezza coll'amaro del caffè. Si dirà poi che al secolo passato non c'era virtù!... Ce n'era sí; ma la costava doppia fatica per la nessuna cura che si davano di educarla in abitudine. Vi assicuro che sant'Antonio non ebbe tanto merito di resistere nel deserto alle tentazioni del demonio, quanto io di ritirare le labbra dalla coppa, prima di avermi levata la sete. Cionullameno io era certo e deliberato a levarmela un giorno o l'altro; questo potrebbe mutare la mia virtù in un raffinamento di ghiottornia. Allora, appena fui alzato, ci convenne pensare a vivere: cioè ad ire in traccia d'una donna che attendesse alla cucina e ai fatti piú grossolani della casa. Non si potea campare di solo caffè, massime coll'amore che ci divorava. Io stesso per la prima volta in mia vita mi occupai con tutto il piacere di queste minute faccenduole. Conosceva qualche comare nel Campo vicino, mi raccomandai a questa e a quella, e mi accomodarono d'una serva che almeno a vederla dovea bastare di per sé a guardare una casa contro i Turchi e gli Uscocchi. Brutta come l'accidente, ed alta e scarnata che pareva un granatiere dopo quattro mesi di campagna; con occhi e capelli grigi e un fazzoletto rosso attorcigliato intorno al capo alla foggia dei serpenti di Medusa. Era un pochettino losca, e discretamente barbuta, con una vociaccia sonata pel naso che non parlava né veneziano, né schiavone, ma un certo gergo imbastardito a mezza strada. Costei aveva ricevuto da madre natura tutte le piú brutte impronte della fedeltà: perché io ho sempre osservato che fedeltà ed avvenenza litigano sovente fra loro e s'acconciano assai di rado a una vita tranquilla e comune. Di piú era certo che chi volesse entrare in casa e s'affacciasse a quello spettacolo, sarebbe ito piuttosto a casa del diavolo che avanzar un passo oltre la soglia; tanto era graziosa e piacevole. S'intende che io le diedi precetto assoluto di dir sempre ed a tutti che i padroni eran fuori di Venezia; e di restar nascosto ci aveva molti buoni perché. Sarebbe bastato quello della felicità; che già appena gli altri uomini se n'accorgono, non possono fare a meno di saltarvi addosso per guastarvela. Or dunque appostato questo mio Cerbero alla cucina, e provveduto che ebbi alla sicurezza ed al vitto, tornai alla Pisana e mi dimenticai di tutto il resto. Forse quello non era il miglior punto; forse, Dio mel perdoni, altri doveri allora m'incombevano, e non era tempo da svagarsi come Rinaldo nel giardino d'Armida; ma badate che io non dissi di avermi fatto violenza per dimenticare il resto; me ne dimenticai anzi cosí spontaneamente, che quando ulteriori circostanze mi richiamarono alla vita pubblica, mi parve tutto un mondo nuovo. Se furono mai scuse ai delirii dell'amore, e all'ubbriachezza dei piaceri, io certo le aveva tutte. Peraltro non voglio nascondere le mie colpe, e me ne confesserò sempre peccatore. Quel mese smemorato di beatitudine e di voluttà, vissuto durante l'avvilimento della mia patria, e rubato alla decorosa miseria dell'esilio, mi lasciò nell'anima un eterno rimorso. Oh quanta distanza ci corre dal meschino accattonaggio delle scuse alla superba indipendenza dell'innocenza! Con quante bugie non fui io costretto a nascondere agli occhi degli altri quella mia felicità clandestina e codarda! No, io non sarò mai indulgente verso di me né d'un momento solo di smemorataggine, quando l'onore ci comanda di ricordarsi robustamente e sempre. La Pisana, poveretta, pianse assai quando vide da ultimo che tutti i suoi sforzi per rendermi felice non riuscivano ad altro che a interrompere con qualche lampo di spensieratezza un malcontento che sempre cresceva e mi faceva vergognar di me stesso. Oh, perché non si volse ella a me con quell'amore inspirato e robusto che aveva sgomentito l'animetta galante di Ascanio Minato? Perché invece di domandarmi baci, carezze, piaceri, non m'impose ella qualche grande sacrifizio, qualche impresa disperata e sublime? - Sarei morto da eroe, mentre vissi da porco. - Pur troppo i sentimenti nostri ubbidiscono ad una legge che li guida sempre per quella strada ove sono incamminati da principio. Quella bizzarra passione per l'ufficiale d'Ajaccio, nata piú che da amore da rabbia, e nudrita dai maschi pensieri che guardavano alla rovina della patria e al pericolo della libertà, fu in procinto di diventar grande pel santo ardore che la infiammava. L'amor mio, antico di molti anni, ricco di sentimenti e di memorie, ma sprovveduto affatto di pensiero era dannato a poltrire su quel letto di voluttà che l'avea veduto nascere. Io sentiva la vergogna di non poter ispirare alla Pisana quello che le aveva ispirato un vagheggino di dozzina: scoperto il peccato originale dell'amor nostro, m'era impossibile goderne cosí pienamente com'ella avrebbe voluto. Tuttavia le giornate passavano, brevi, ignare, deliranti: io non ci vedeva scampo da uscirne, e non ne sentiva né la volontà né il coraggio. Avrei bensí potuto tentare sulla Pisana il miracolo ch'ella avea tentato sul giovane còrso, e sollevar l'animo suo a quell'altezza dove l'amore diventa cagione di opere grandi e di nobili imprese. Ma non mi dava il cuore di pensar solamente ad una separazione; e quanto al farla compagna della mia vita, del mio esiglio, della mia povertà, non credeva averne il diritto. Soprastava dunque ad ogni deliberazione aspettando consiglio dagli avvenimenti, e compensato abbastanza delle mie interne torture dalla felicità che risplendeva bella e raggiante sulle sembianze di lei. A vedere come il suo umore s'era cambiato, e ammorbidito in quei pochi giorni beati, io non potea ristare dalle grandi maraviglie; mai un rimpianto, mai uno sguardo bieco, mai un atto di stizza o un movimento di vanità. Pareva si fosse prefissa di ravvedermi dal tristo giudizio altre volte fatto di lei. Una fanciulla uscita allor allora di convento e affidata alle cure d'una madre amorosa non sarebbe stata piú serena piú allegra ed ingenua. Tutto ciò che era fuori dell'amor nostro o che in qualche modo non si rappiccava ad esso non la occupava punto. I racconti che la mi faceva della sua vita passata ad altro non tendevano che a persuadermi dell'amor suo continuo e fervoroso benché vario e bizzarro per me. Mi narrava degli eccitamenti di sua madre a far bel viso a questo o a quello de' suoi corteggiatori, per accalappiarne un buon partito. - E cosa vuoi? - soggiungeva. - Piú erano splendidi belli graziosi, piú mi venivano in uggia; laonde se mai dava segno di qualche gentilezza o di aggradimento, l'era sempre verso i piú brutti e sparuti, con gran maraviglia mia e di quelli che mi circondavano; e credevano quella stranezza un'arte squisita di civetteria. In verità io lusingava quelli che mi parevano troppo sgraziati per lusingarsi alla lor volta; e se quelle mie gentilezze erano insulti, Dio mel perdoni, ma non potea fare altrimenti!... Mi scoperse poi certi segreti di casa che avrei amato meglio ignorare tanto mi stomacarono. La Contessa sua madre giocava disperatamente e non volea saperne di miseria, tantoché l'era sempre in sul chieder quattrini a questo ed a quello; quando si trovava proprio alle strette, macchinavano qualche gherminella tra lei e la Rosa, quella sua antica cameriera, per cavarne di tasca ai conoscenti e agli amici. Siccome poi costoro s'erano stancati d'un tale spillamento, la Rosa avea proposto di metter in ballo la Pisana, e d'impietosire col racconto delle sue strettezze quelli che sembravano piú devoti adoratori della sua bellezza. Cosí, senza saperlo, ella viveva di turpi e spregevoli elemosine. Ma finalmente la se n'era accorta, e in onta alla silenziosa indifferenza della Contessa, ella sui due piedi avea cacciato la Rosa fuori di casa. Questo anche era stato un motivo che l'aveva indotta ad accettar la mano del Navagero, perché si vergognava di vedersi esposta dalla stessa sua madre a tali infamie. Io le chiesi allora perché non ricorresse piuttosto alla generosità dei Frumier; ma la mi rispose che anche i Frumier si trovavano in male acque, e che se qualche sacrifizio lo avrebbero potuto fare per salvarle dall'inedia, non intendevano poi rovinarsi affatto per pascere il vizio insaziabile della Contessa. Io allora mi maravigliava che questa passione del gioco fosse in lei andata tanto innanzi. - Oh non me ne maraviglio io! - mi rispose la Pisana. - Ella è sempre tanto sicura di vincere, che le parrebbe di far un torto a non giocare; e quello poi che è piú bello, ella pretende di averci sempre guadagnato e che fummo noi, io e mio fratello, a consumarle mano a mano tutti quegli immensi guadagni! Figurati! Per me non ebbi mai indosso che un vestitello di tela, e ho sempre lasciato nelle sue mani i frutti degli ottomila ducati. Mio fratello poi mangia e veste come un frate e per quattro soldi il giorno io torrei di mantenerlo. Ma la è tanto persuasa delle sue ragioni che non giova parlarne, ed io la compatisco, poveretta, perché l'era avvezza a mangiare la pappa fatta, e non tenendo conto di ciò che si riscuote e di ciò che si spende, è impossibile saperne una di schietta. Del resto la sua passione non è un caso strano, e tutte le dame di Venezia ne sono adesso invasate, tantoché le migliori casate si rovinano alle tavole di gioco. Non ci capisco nulla!... tutte si rovinano e nessuna si ristora! - Gli è - soggiunsi io - per quell'antico proverbio, che farina del diavolo non dà buon pane. Chi arrischia al faraone la fortuna dei proprii figliuoli, non diverrà certo cosí previdente domani da investire i guadagni al cinque per cento. Si consumano tutti in vani dispendi, e resta netto solo il guadagno delle perdite. Ma tua madre fu piú inescusabile delle altre quando per accontentare i proprii capricci non si vergognò del metter a repentaglio la fama della figlia!... - Oh cosa dici mai! - sclamò la Pisana - io la compatisco anche di questo! Era quella ghiotta di Rosa che le ne dava ad intendere, e per me credo che si mangiasse ella la buona metà dei regali... Eppoi giacché l'avea prima chiesto a suo nome, la poteva pur chiedere anche al mio. Non l'è poi mia madre per niente! - Sai, Pisana, che la tua bontà trascende in eccesso!... Non voglio che tu ti avvezzi a ragionare in questo modo, se no tutto si scusa, tutto si perdona, e tra il male ed il bene scompariscono i confini. L'indulgenza è un'ottima cosa, ma sia verso sé che verso gli altri bisogna ch'ella vada innanzi cogli occhi in testa. Perdoniamo le colpe sí, quando sono perdonabili; ma chiamiamole colpe. Se le si mettono a mazzo coi meriti, si perde affatto ogni regola! La Pisana sorrise, dicendo ch'io era troppo severo, e scherzando soggiunse che se scusava tutto, gli era appunto perché altri scusasse lei dei suoi difettucci. Per allora non la ne aveva neppure uno, se non forse quello di farsi amar troppo, il quale era piú difetto mio che suo; ed io le misi la mano sulla bocca sclamando: - Taci, non vendicarti ora della mia ingiusta severità d'una volta!... Dopo qualche settimana di vita tutta casa ed amore, pensai che fosse tempo di andare dagli Apostulos a prendervi notizie di mio padre. Mi rimordeva di averlo dimenticato anche troppo, e voleva compensare questa dimenticanza con una premura che, attesa la strettezza del tempo, doveva certo riuscir inutile. Ma quando vogliamo persuaderci di non aver fallato non si bada a ragionevolezza. Giacché usciva, la Pisana mi pregò di volerla condurre fino al monastero di Santa Teresa per visitarvi sua sorella. Io acconsentii, e andammo fuori a braccetto: io col cappello sugli occhi, ella col velo fin sotto il mento, guardandoci attorno sospettosamente per ischivare, se era possibile, le fermate dei conoscenti. Infatti io vidi alla lontana Raimondo Venchieredo e il Partistagno ma mi riuscí di scantonare a tempo, e lasciai la mia compagna alla porta del convento; indi mi volsi alla casa dei banchieri greci. Come ben potete immaginarvi, in cosí breve tempo mio padre non poteva esser giunto a Costantinopoli e aver mandato notizia di colà. Si maravigliarono tutti, massimamente Spiro, di vedermi ancora a Venezia; laonde io risposi arrossendo che non era partito per alcuni gravissimi negozi che mi trattenevano, e che del resto mi conveniva sfidare moltissimi rischi a rimanere, pei sospetti che si avevano di me. Non arrischiai nemmeno di aggiungere chi poteva avere questi cotali sospetti, perché ignorava quali fossero di certo i padroni di Venezia, e mi immaginava che i Francesi fossero partiti, ma non ne aveva prove sicure. L'Aglaura mi domandò allora ove contassi rivolgermi quando fossero terminati questi miei negozi, ed io risposi balbettando che probabilmente a Milano. La giovinetta chinò gli occhi rabbrividendo, e suo fratello le mandò di traverso un'occhiata fulminante. Io avea ben altro pel capo che di badare al significato di questa pantomima, e presi congedo assicurandoli che ci saremmo veduti prima della partenza. Tornai indi in istrada, ma aveva piú paura di prima di esser veduto; anzi ci aveva vergogna per giunta alla paura. Mi importava moltissimo di non esser osservato, perché la perfetta libertà da ogni molestia nella quale eravamo rimasti fin'allora io e la Pisana mi persuadeva che i suoi parenti ignorassero la mia presenza in Venezia. Se fosse stato altrimenti, oh non era facile l'immaginarsi che ella si fosse rifuggita presso di me? Non mi figurava allora che la scena della Pisana col tenente Minato avesse fatto gran chiasso e che soltanto per timore di compromettersi il Navagero e la Contessa non ne chiedessero conto. Allo svoltar d'una calle mi trovai faccia a faccia con Agostino Frumier piú fresco e rubicondo del solito. Ambidue per scambievole consenso finsimo di non ci riconoscere: ma egli si maravigliò di me piú ch'io non mi maravigliassi di lui, e la vergogna fu maggiore dal mio canto. Finalmente giunsi al convento che le pietre mi scottavano sotto i piedi e mi pentiva ad ogni passo di non aver aspettato la notte per quella passeggiata. Ben mi prefiggeva fra me di aprir l'animo mio alla Pisana alla prima occasione e di dimostrarle come la felicità di cui ella m'inebbriava fosse tutta a carico dell'onor mio, e come il rispetto alla patria, la fede agli amici, l'osservanza dei giuramenti mi stringessero a partire. In cotali pensieri entrai nel parlatorio senza pensare che la reverenda poteva maravigliarsi di veder sua sorella in mia compagnia; ma non ci avea pensato la Pisana ed io pure non ci badai. Era la prima volta che vedeva la Clara dopo i suoi voti. La trovai pallida e consunta da far pietà, colla trasparenza di quei vasi d'alabastro nei quali si mette ad ardere un lumicino: un po' anche incurvata quasi per lunga abitudine d'ubbidienza e d'orazione. Sulle sue labbra, all'indulgente sorriso d'una volta era succeduta la fredda rigidità monastica: oramai si vedeva che l'isolamento dalle cose terrene, tanto sospirato dalla madre Redenta, lo aveva anch'essa raggiunto; non solo disprezzava e dimenticava, ma non comprendeva piú il mondo. Infatti la non si maravigliò punto della mia dimestichezza colla Pisana, come io aveva temuto: diede a me ed a lei saggi consigli in buon dato; non nominò mai il passato se non per raccapricciarne, ed una sola volta vidi rammollirsi la piega ritta e sottile delle sue labbra quand'io le nominai la sua ottima nonna. Quanti pensieri in quel mezzo sorriso!... Ma se ne pentí tosto, e riprese la solita freddezza che era il vestimento forzato dell'anima sua, come la nera tonaca dovea vestirle invariabilmente le membra. Io credetti che in quel momento anche Lucilio le balenasse al pensiero; ma che fuggisse spaventata da quella memoria. Dov'era infatti allora Lucilio? Che faceva egli? - Questa terribile incertezza doveva entrarle talora nell'anima col succhiello invisibile ma profondo del rimorso. Ella durò infatti qualche fatica a tornar marmorea e severa come prima; le sue pupille non erano piú tanto immobili, né la sua voce cosí tranquilla e monotona. - Ohimè! - diss'ella ad un tratto - io promisi alla buon'anima di mia nonna di suffragarla con cento messe, e non fui ancora in grado di compiere il voto. Ecco l'unica spina che ho adesso nel cuore!... La Pisana si affrettò a rispondere colla solita bontà spensierata che quello spino poteva cavarselo dal cuore a sua posta, e che l'avrebbe aiutata a ciò, e che avrebbe fatto celebrar quelle messe ella stessa secondo le intenzioni di lei. - Oh grazie! grazie, sorella mia in Cristo! - sclamò la reverenda. - Portami la scheda del sacerdote che le avrà celebrate e tu avrai acquisito un diritto grandissimo alle mie orazioni ed un merito ancor maggiore presso Dio. Io non mi trovava bene in cotali discorsi, e mi sorprendeva fra me della facilità con cui la Pisana intonava i proprii sentimenti sopra il tenore degli altrui. Ma buona come la era, e maestra finitissima di bugie, doveva anzi maravigliarmi se l'avesse adoperato altrimenti. Intanto, salutata ch'ebbimo la Clara, e tornati in istrada, mi riprese la paura che fossimo veduti assieme e proposi alla Pisana di andarcene a casa scompagnati, ognuno per una strada diversa. Infatti cosí fecimo, ed ebbi campo a rallegrarmene, perché mossi cento passi mi scontrai ancora nel Venchieredo e nel Partistagno, che questa volta mi si misero alla calcagna e non m'abbandonarono piú. I giri che feci loro fare per quegli inestricabili laberinti di Venezia non saprei ripeterli ora; ma io mi stancai prima di loro, perché mi doleva di lasciar sola tanto tempo la Pisana. Mi decisi dunque a volgermi verso casa, ma qual fu il mio stupore quando sulla porta mi scontrai nella Pisana, la quale doveva esser arrivata da un pezzo e pur si stava lí chiacchierando amichevolmente con quella tal Rosa, con quella cameriera che le faceva questuar l'elemosina dai suoi adoratori? Ella non parve turbata per nulla della mia presenza; salutò la Rosa di buonissimo garbo, invitandola a visitarla e si fece poi entro l'uscio insieme con me sgridandomi perché aveva tardato. Colla coda dell'occhi vidi Raimondo e il Partistagno che ci osservavano ancora da un canto vicino, onde chiusi con qualche impeto la porta e salii le scale un po' musonato. Di sopra che fui non sapeva da qual banda principiare per far accorta la Pisana della sconvenienza del suo procedere; mi decisi alla fine di affrontarla direttamente, tanto piú che mi vi incitava anche un certo umore turbolento di stizza. Le dissi adunque che mi era stupito assai di vederla in istretto colloquio con una svergognata di quella natura, dalla quale avea ricevuto offese imperdonabili; e che non ci vedeva il perché la si fosse fermata a cinguettare sull'uscio di casa con tutto l'interesse che avevamo a non farci osservare. Ella mi rispose che si era fermata senza pensarci e che in quanto alla Rosa le avea fatto compassione il vederla coperta di cenci e intristita in viso per la miseria. Anzi l'avea pregata di venirla a trovare appunto per questo, che sperava in qualche modo di sollevarla, e del resto se l'era pentita de' suoi torti, ell'era obbligata a perdonarle; e le perdonava in fatti, anche perché dessa le avea protestato di non aver mai inteso di ingiuriarla, e che avea sempre adoperato a fin di bene e dietro istigazione della signora Contessa. La Pisana pareva tanto persuasa di quest'ultimo argomento, che le rimordeva quasi d'aver cacciato la Rosa, e pigliava sulla propria coscienza tutte le incommodità che costei diceva aver sofferto per la sua sdegnosa severità. Indarno io me le contrapposi dimostrandole che certi torti non si possono mai scusare, e che l'onore è forse la sola cosa che si abbia diritto e dovere di difendere anche a costo della vita propria e dell'altrui. La Pisana soggiunse che non la pensava cosí, che in cotali materie bisogna badare al sentimento, e che il sentimento suo le consigliava di riparare i mali involontariamente cagionati a quella poveretta. Pertanto mi pregò di darle mano in questa buona opera, concedendo per primo punto alla Rosa una camera della casa per abitarvi. Sopra questa domanda io mi diedi a gridare, ed essa a gridare ed a piangere. Si finí con questo accordo, che io avrei pagato la pigione della Rosa ove la dimorava allora, e soltanto dopo questa promessa la Pisana fu contenta di non tirarmela in casa. Fu quella la prima volta che si dimenticò l'amore, e tornarono i nostri temperamenti a trovarsi un po' ruvidi assieme. Mi coricai con molti cattivi presentimenti, ed anche quelle occhiate beffarde e curiose di Raimondo mi rimasero tutta notte traverso alla gola. Il mattino altra scaramuccia. La Pisana mi pregò che volessi uscire per disporre la celebrazione delle cento messe per conto di sua sorella. Figuratevi quanto mi andava a sangue questo bel grillo colla carestia di denari che cominciava a stringermi!... Per uno scrupolo evidente di delicatezza, io avea tralasciato di significarle come mio padre era partito con ogni sua ricchezza non altro lasciandomi che un moderatissimo peculio. Tra le spese occorrenti alla casa, il salario della serva, e qualche compera fatta dalla Pisana che si era ricoverata presso di me poco meno che in camicia, m'era già scivolato d'infra le dita buona parte di quello che dovea bastarmi per tutto l'anno. Tuttavia io stentava a discoprirle questa mia miseria, e studiavami d'impedire con altre cento ragioni quella generosità delle messe. La Pisana non mi voleva ascoltare ad alcun patto. Essa aveva promesso, ci andava della quiete di sua sorella, e se le voleva bene nulla nulla, doveva soddisfarla. Allora le dichiarai netta e tonda la cosa come stava. - Non c'è altra difficoltà? - rispos'ella colla miglior cera del mondo. - È facile accomodarsi. Prima di tutto adempiremo agli obblighi assunti, e poi si digiunerà se non ne resta per noi. - Hai un bel dire col tuo digiunare! - soggiunsi io. - Vorrei un po' vederti al fatto come te la caveresti per non reggerti in piedi! - Cascherò se non potrò reggermi: ma non sarà mai detto che io m'ingrassi con quello che può servire al bene degli altri. - Pensa che dopo le cento messe poche lire mi resteranno! - Ah sí! è vero, Carlino! non è giusto ch'io sacrifichi te per un mio capriccio. È meglio ch'io me ne vada... andrò a stare colla Rosa... lavorerò di cucito e di ricamo... - Cosa ti salta ora? - gridai tutto sdegnato. - Piuttosto mi caverei anche la pelle che lasciarti cosí a mal partito!... - Allora, Carlino, siamo intesi. Fammi contenta di tutto quello che ti domando, e dopo pensi la Provvidenza, che tocca a lei. - Sai, Pisana, che mi fai proprio stupire! Io non ti vidi mai cosí rassegnata e fiduciosa nella Provvidenza come ora che la Provvidenza non sembra darsi il benché minimo pensiero di te. - Che sia vero? ne godrei molto che questa virtù mi crescesse a seconda del bisogno. Tuttavia ti dirò che se comincio ad aver fede nella Provvidenza, gli è che me ne sento il coraggio e la forza. In fondo al cuore di noi altre donne un po' di devozione ci resta sempre; or bene! io mi abbandono nelle braccia di Dio! Ti assicuro che se rimanessimo nudi di tutto, non troveresti due braccia che lavorassero piú valorosamente delle mie acontinua |
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Creato da: Astalalista - Ultima modifica: 25/Apr/2004 alle 12:38 | Etichettato con ICRA | |
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