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PICCININI Daniele

 I Mille, Bologna, Cappelli, 1933, pag. 27. 

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Piccinini Daniele
di Luigi Tironi
Daniele Piccinini è una figura caratteristica e nobilissima che spicca nel mondo del volontarismo, cosi ricco di caratteri tanto diversi pur nel comune tipo garibaldino, per doti sue peculiari che, del resto, colpirono simpaticamente sia quelli che lo conobbero e lo amarono sia quelli che di lui scrissero o di lui parlarono anche solo per una conoscenza superficiale o indiretta.
Si potrebbe, sintetizzando epigrammaticamente le sue qualità, dire di lui che fu l'Eroe forte e buono. Forte nel senso più completo della parola, dalla forza fìsica a quella morale, ricca di sopportazione e serenità.
Tollerante di disagi fisici, di un coraggio derivante da una serena sicurezza inferiore, sapeva anche, e non gli costava sforzo, dominare se stesso, oltre alle circostanze esteriori.
Nessuno potè notare in lui scatti di intemperanza se pur generosa, quali invece conosciamo piuttosto numerosi in altri coraggiosi personaggi della stessa epoca e della stessa epopea.
Buono poi era, potremmo quasi dire, all'eccesso. Di una generosità estrema; amava intensamente la Patria, la famiglia e tutti gli uomini. Non gli si conoscono nemici. Fu uno di quei rari uomini che pare abbiano la segreta virtù, quasi magica, di suscitare intorno a sé solo amici.

1. - La famiglia - I primi anni.
Nacque egli il 3 giugno 1830 da un'antica e facoltosa famiglia a Pradalunga, nella bassa Val Seriana.
La sua terra si stende sulla riva sinistra del Serio, su un lembo di piano allungato, da cui forse il nome di Prata Longa (Prati lunghi), tra il fiume e le pendici del Monte Misma, dai fianchi del quale si traggono da secoli per non dire da millenni, le famose pietre coti.
Il nome dei Piccinini è da secoli legato alla sua terra e all'industria delle pietre coti. Il Cugini ( 1 ) ricorda infatti « una scrittura d'ordine privato » in data 11 maggio 1497, interessante i fratelli de Gavazis e Martino detto Croti Piccinini de Gavazis, ambi di' Pradalunga, stipulata « in terra de Pratalonga », riguardante la compravendita del diritto di estrarre coti. Le stesso autore cita anche un documento dell'anno 1587 intestato « Libro de li Ordini e Decreti del Comune di Pratalunga » nel quale è citato, tra i principali cittadini del Comune, un Francesco de Andrea Picinino, annoveraito tra i quattro « Consiglieri o Credendori di esso Comune ».
Antica dunque da secoli e « radicata tra le rocce e ricca e forte ivi come una volta quelle dei feudatari, ma però tutta di virtù patriarcali » ( 2 ) era la famiglia dei Piccinini, e nei primi decenni dell'800 gestiva ancora l'industria dell'estrazione ed il commercio delle pietre coti. Capo famiglia era allora Vincenzo, nato nell'ultimo decennio del secolo precedente, che morirà poi nel 1865 a 73 anni d'età.
Tradizioni di ardente amor di Patria non mancavano nella famiglia: « Due zii paterni. Luigi e Francesco, furono prodi ufficiali della Grande Armata e si segnalarono in valore al passaggio della Beresina » ( 3 ), e anzi Francesco, rimasto nascosto in un castello polacco per sfuggire alla prigionia durante la ritirata napoleonica, era diventato abile ricamatore in oro ed argento per cui, tornato in Patria, fattosi sacerdote e diventato Canonico della Cattedrale di Bergamo, diresse i lavori per la fattura di un pallio del Duomo.
Vincenzo sposò giovanissima la figlia dell'amministratore di casa Piccinini, Teresa Broglia, di Pavia, e ne ebbe ben tredici figli,. di cui dieci giunsero alla maturità ( 4 ).
Daniele era uno dei primi e nacque dalla madre ventenne.
Questa, donna di elette virtù, morì ancor giovane nel 1853 a soli 43 anni. Nella famiglia materna il giovane ebbe altri esempi di virtù patrie. Anche il nonno Broglia, infatti, era stato ufficiale napoleonico e fu sempre « fervente patriota e odiatore del Governo austriaci » ( 5 ) e a tale spirito educò, insieme agli altri nipoti, anche Daniele.
Dal padre ebbe l'esempio dell'onestà e della probità, dalla madre la prima educazione all'amore e alla generosità. « Se non son riuscito un cattivo soggetto, lo devo unicamente a mia madre, che era un angelo », soleva dire egli stesso alla famiglia dell'amico Tironi, il trombettiere dei Mille, quando fu suo ospite a Portici ( 6 ).
Di famiglia molto facoltosa iniziò gli studi quali si addicevano alla più distinta borghesia.
Frequentò i primi anni di « grammatica » nella Casa di Educazione Grismondi di Redona e sostenne gli esami di I, II e III grammatica, corrispondenti alle attuali tré classi della scuola media, presso l'I. R. Ginnasio di Bergamo (l'attuale Ginnasio-Liceo P. Sarpi) presentandosi come privatista negli anni 1841, 1842 e 1843 sempre con esito favorevole.
Continuò poi gli studi presso l'I. R. Ginnasio di Pavia, probabilmente vivendo presso la famiglia materna, ma il suo temperamento e la sua educazione patriottica lo fecero riprendere più volte dai superiori per manifestazioni di patriottismo finché non fu espulso da tutti gli Istituti dell'Imperial Regio Governo Austriaco per essersi rifiutato di cantare in una ricorrenza solenne l'inno ufficiale: « Dio salvi l'imperatore ». Un suo anonimo biografo ( 7 ) ricorda che meritò il carcere austriaco per essersi rifiutato di cantare l'inno, ma non è possibile confermare ne smentire tale notizia con documenti sicuri. Di per sé probabile, la notizia potrebbe anche essere fondata su un arresto di pochi giorni o di poche ore per il giovane studente irrequieto e caparbio. Comunque dovette interrompere gli studi.
Tornato alla sua quieta casa di Pradalunga, più che interessarsi all'azienda del padre, poiché non era un temperamento adatto al commercio, preferiva impiegarsi come garzone od aiutante presso la salumeria Bontempelli, del suo paese, e anche in seguito conti nuò ad interessarsi della gestione di tale negozio. Sono singolare documento di questa sua attività, nonché dell'estrosità del suo carattere, i biglietti da visita di cui si servì e due dei quali sono ancora conservati al Museo del Risorgimento di Bergamo. Il nome suo, sormontato da una burlesca corona di cotechini, specialità di Pradalunga, è seguito, quasi titolo nobiliare ed accademico, dalla qualifica: « Salsicciaio novus », in cui l'aggettivo latino « novus » ha un valore quasi araldico di eccezionale, straordinario, di un salsicciaio dotto di latino, classicamente educato ad apprezzare anche le raffinatezze del gusto dei popolari ma elaborati prodotti della gastronomia nostrana.

2. - Volontario nel 1848.
E venne l'anno dei portenti, il Quarantotto. Daniele aveva 18 anni, l'età degli entusiasmi e degli slanci generosi. Un giorno del marzo, mentre stava pescando sulle rive del Serio col padre, gli fu detto che a Bergamo c'era la rivoluzione. Ed egli volle partire.
L'eroica madre lo condusse nella sua stanza e, dopo avergli chiesto se avesse ben considerate le difficoltà da superare e i pericoli cui andava incontro, gli disse: « Allora, figlio mio, va' dove il tuo cuore di italiano ti conduce; pensa che oggi mi dai il più gran dolore che io mi abbia mai avuto, potresti però darmene un altro che mi farebbe morire di angoscia maledicendoti. Non essere vigliacco; ricordati che i Piccinini muoiono, ma non fuggono. Ed ora il cielo ti benedica, io pregherò per tè ». E lo baciò in fronte, poi scappò via a dare sfogo al suo dolore di madre ( 8 ).
Accorse così in città giungendo in tempo a partecipare alla presa dei quartieri di S. Marta e di S. Agostino ( 9 ). Che cosa abbia fatto in seguita non è dato sapere. Sul suo congedo del 1859 egli stesso annotò « feci la Campagna del 1848 » ( 10 ). Conoscendo la sua natura contraria ad ogni ostentazione e forse eccessivamente modesta, occorre senz'altro dare il massimo credito a tale notizia. Che abbia poi fatto parte di qualche colonna di volontari partiti alla volta di Milano o del Trentino è probabile, ma del tutto arbitrario affermarlo come negarlo ( 11 ).
Il Sylva , che pur dovette conoscerlo personalmente, dice che « il 1848 lo colse come di sorpresa, impreparato, e passò attraverso di lui a guisa di una meteora, il cui balenio valse a meglio illuminarlo e scuoterlo » ( 12 ).
Tali parole stanno a testimoniare che la partecipazione del Piccinini agli eventi del 1848 fu il frutto di una spontanea, improvvisa adesione, non derivata cioè da precedente partecipazione a trame o cospirazioni liberali, poco probabili d'altronde data la sua giovane età e la tranquilla, patriarcale vita del suo paese.
Per quanto riguarda poi la partecipazione del nostro eroe alla difesa di Roma nel 1848 altrettanto, se non più grave, è il problema. Il Sylva ( 13 ) riferisce nella sua opera: « Egli cominciò a dare il suo valoroso braccio a la Patria nella difesa di Roma del 1849, diciannovenne, prendendovi cospicua parte. Nella celebre ritirata di Garibaldi , ne seguì la colonna fino a San Marino, donde se ne staccò con Bernardo Rota e certo Traini, pure bergamaschi ».
Continua poi narrando che riuscirono, attraverso a mille pericoli ed avversità, a giungere a Bologna estenuati e laceri. Ivi furono tanto fortunati da incontrare dei patrioti che li soccorsero e guidarono per vie sicure, tanto da poter scampare a Bergamo.
Nessun altro storico o biografo però da notizia della partecipazione del Piccinini alla difesa di Roma. Sul suo congedo non risulta, a dire di chi l'ha visto, tale campagna, ed anche su una scheda biografica compilata il 7 febbraio 1906 dalla nipote Irma per l'Archivio Storico dei Mille ( 14 ), tra le campagne fatte non è ricordato il 1849. Anche recentemente, in occasione di studi e ricerche accurate sulle vicende romane del 1849 e su chi vi partecipò, si è visto che il nome del Piccinini non compare mai in alcun documento ufficiale o privato.
Infine dalle carte private consultate, dai ricordi di amici e famigliari, non risulta mai l'avvenuta partecipazione alla gloriosa e sfortunata vicenda della Repubblica romana. Pur considerando l'estrema ritrosia dell'eroe a parlare di se, appare per lo meno strano tale completo silenzio. D'altronde il Sylva da delle notizie abbastanza precise e circostanziate, ma ha il grave torto di non riferirne le fonti. Che siano ricordi di commilitoni? Che la memoria abbia giocato qualche scherzo, facendo nascere confusioni di persona, non improbabili in tali circostanze?
Sappiamo tuttavia che il Sylva era un ricercatore molto accurato, che non si accontentava di voci, di ricordi vaghi e imprecisi, per cui prima di pubblicare tali circostanze e tali notizie siamo indotti a credere che si sia accertato della loro fondatezza.
Concludendo non possiamo che ricordare obiettivamente quanto finora è risultato ed augurarci che nuovi elementi o nuovi documenti giacenti presso famiglie o raccolte private, biblioteche o musei, vengano pubblicati e valgano a confermare o a smentire autorevolmente la partecipazione del nostro eroe all'epopea romana del 1849.

3. - Cacciatore delle Alpi (1859).
Nei dieci anni successivi, tornato a Pradalunga e avuta l'esenzione dal servizio militare sotto l'Austria, dietro pagamento, visse la sua tranquilla vita tra la famiglia, la caccia, sua passione vivissima, ma anche interessandosi alle vicende della Patria che, vinta dopo la gloriosa e infelice fiammata della I guerra d'Indipendenza, ma non doma, andava preparandosi, per vie diverse ma con l'unico obiettivo della libertà e unità, alla riscossa. Dice ancora il Negrisoli ( 15 ): « Durante il decennio di silenzioso raccoglimento e di tenace preparazione egli fremeva nell'attesa della riscossa, raccoglieva ansioso le voci che venivano dal Piemonte, ascoltava commosso l'eco dei canti patriottici che su per le valli si ripercuotevano come squilli di guerra e di libertà ». E partecipò anche a trame rivoluzionarie, a diffondere proclami, a scrivere sui muri motti sovversivi, validamente aiutato dalla sorella
Giuditta la quale, temperamento vivacissimo e virilmente coraggiosa, si travestiva da contadina per poter più facilmente eludere l'attenta polizia austriaca e tenere i contatti tra i generosi che attendevano impazienti l'ora della riscossa liberatrice.
Possiamo pensare che le amicizie che si manifestarono in seguito con gli altri bergamaschi dei Mille, Nullo , Cucchi , Dall'Ovo , Tasca , Isnenghi , Sacchi, Lurà e tanti altri, si siano intrecciate in questi anni di trepida attesa.
Abbastanza frequenti dovevano essere le gite a Bergamo di Daniele o dei fratelli e uno dei loro ritrovi con gli amici era l'osteria Carini in contrada di Broseta; a questo proposito è interessante il famoso telegramma del 1860, citato più avanti, dal quale si ha conferma del fatto che Luigi Carini rappresentava, con la sua osteria, il punto di convergenza e di ritrovo degli amici liberali ( 16 ).
Finalmente, nel marzo del 1859, Daniele prese la decisione di partire per il Piemonte per arruolarsi tra i volontari lombardi.
Dato un addio ai suoi cari, ai suoi monti, ricevuta la benedizione del padre che egli sempre amò di un intenso reverente amore, affettuosamente ricambiato, si allontanò dalla sua terra con la sicura speranza di farvi ritorno impugnando le armi vittoriose e liberatrici. Giunto felicemente in Piemonte, attraverso la Svizzera, passando per valichi montani, facili e congeniali a lui, forte camminatore di stirpe montanara, lo troviamo arruolato a Savigliano il 28 marzo, quale soldato volontario nella 5ª Compagnia del 2° Reggimento del Corpo Cacciatori delle Alpi , che erano armati ed equipaggiati come le truppe piemontesi.
Seguì poi le vicende gloriose del Corpo, agli ordini di Garibaldi , partecipando alle battaglie di Varese, San Fermo, Seriale e Treponti, distinguendosi per coraggio e fermezza, tanto da suscitare l'ammirazione di commilitoni e superiori. Con Garibaldi sarà sicuramente entrato in Bergamo e possiamo ben immaginare la gioia, la commozione e l'orgoglio di rientrare da vittorioso nella sua terra che aveva dovuto abbandonare pochi mesi prima di nascosto e in odio allo straniero che la teneva schiava.
Il 27 maggio, presumibilmente durante la dura e vittoriosa battaglia di San Fermo, alle porte di Como, era stato ferito alla mano sinistra. Lo annotò egli stesso nel suo congedo. Documento del suo valoroso comportamento sono le promozioni a caporale prima ed a sergente poi, grado col quale fu congedato. Durante la campagna ebbe anche la menzione onorevole ( 17 ).
Dopo l'armistizio di Villafranca, deluso e addolorato come gli altri generosi volontari restò al Corpo fino al 16 ottobre, data nella quale venne congedato dal 51° Reggimento, col grado di sergente.
Tornato alla serena vita di tutti i giorni, lieto naturalmente di aver partecipato alla liberazione della sua terra e di essere ora cittadino italiano, era però amareggiato dalla brusca interruzione della campagna che realizzava così solo in parte gli ideali dei patrioti. Desiderava e sognava una ripresa della guerra e si teneva pronto.
Era solito dire infatti: « Noi non poseremo mai le armi, finché la grande opera non sia compiuta, finché dall'estremo Lilibeo insino ai gioghi delle Alpi ed ai recessi dell'Adriatico l'Italia nostra non sia tutta libera » ( 18 ).

4. - Uno dei Mille (1860).
La chiamata venne dalla Sicilia e da Garibaldi . A fine di aprile riceveva una lettera del 27 di Aiace Sacchi, indirizzata a Pradalunga con tanto di « urgentissimo », nella quale l'amico « avendo a cuore il non comune suo coraggio e principio di indipendenza italiana » si faceva premura di informarlo della sua immediata partenza per Genova « onde prestar l'opra di suo debol coraggio a prò de' fratelli Napoletani ». E aggiungeva: « La cosa è certissima stante che a Milano trovasi di già aperto regolare arruolamento ». Nel poscritto l'amico Carini lo incitava a non perdersi di coraggio « che l'ora della Riscossa è suonata ». Giunse anche, non sappiamo se prima o dopo, poiché è senza data, il telegramma ( 19 ) dello stesso Sacchi firmato semplicemente Aiace, diretto al Carini, che dice: « Avverti fratello Eugenio che resti Pradalunga sino nuovo avviso Piccinini Daniele. Notizie politiche. Scarsezza spinaci. Aiace ». Da tale testo si deduce che gli amici facenti capo al Carini avevano forse più facilità di contatti con Eugenio Piccinini per cui lo utilizzavano come intermediario per comunicare con Daniele. La telegrafica notizia politica sulla scarsezza di spinaci significava poi, evidentemente, in linguaggio convenzionale, scarsezza di fucili e poteva essere un invito a portare o a procurare armi; e questo fa inoltre pensare che gli amici fossero legati già in precedenza, forse dagli anni dell'oppressione austriaca, a intese segrete ed a linguaggi convenzionali.
Non sappiamo se ebbe altri inviti, ma certo è che corse a Bergamo e fu tra gli organizzatori e gli arruolatori dei volontari. Il Sylva ( 20 ) ricorda che, insieme al Tasca , al Nullo e al Dall'Ovo , il Piccinini, nel teatrino dei filodrammatici in fondo a via Borfuro, aveva stabilito un ufficio per gli arruolamenti e la selezione dei volontari per la Sicilia, scartando quanti fossero ritenuti non idonei.
L'importanza e l'autorità di arruolare e selezionare i volontari gli venivano evidentemente dall'età, trent'anni, e dal fatto di essere un veterano del 1848 e soprattutto del 1859, nonché dal grado di sergente ottenuto l'anno innanzi.
Partito col gruppo dei più che duecento bergamaschi, la sera del 3 maggio, mentre il treno, giunto ormai a Milano, stava spostandosi tra la stazione di Porta Tosa e quella di Porta Nuova, cooperò ancora col Nullo , il Cucchi e il Tasca a selezionare i volontari e a snidare, per rispedirli a Bergamo, quei ragazzi tra i 12 e i 14 anni che erano riusciti a nascondersi sotto i sedili.
Giunto a Genova, s'imbarcò a Quarlo sul « Lombardo » per passare a Talamone, col gruppo dei Bergamaschi, sul « Piemonte ».
Ancora il Sylva dice che il Piccinini soffrì più di altri il mal di mare, almeno durante la prima fase della traversata. Garibaldi invece ricorda nel suo romanzo storico « I Mille » un alterco tra « il pacato maggiore Bassini ed il focoso tenente Piccinini. Il primo di Pavia ed il secondo figlio delle valli bergamasche, ambi valorosi.
E ciocché prova non esser essi affetti dal mal di mare, si è che la disputa proveniva dalla distribuzione del rancio. Era proprio curioso, veder l'eccellente Bassini inarcar le ciglia, con un'aria di autorità che gli dava il grado, ma non sentiva in fondo, essendo di natura amorevole ed affettuoso anche coi minimi suoi subordinati. Il Piccinini, più nerboruto ed ardente del suo superiore, avea tutt'altro che intenzione di perdergli di rispetto, ma iniziata la controversia e credendo aver ragione, repugnava di cedere in presenza de' compagni affollati a contemplarli » ( 21 ). La disputa venne poi interrotta da un incidente, e il ricordo di Garibaldi starebbe a significare che il mal di mare dovette essere solo dei primi giorni, poiché l'episodio narrato si riferisce alla seconda parte della traversata, cioè fra Talamone e Marsala, durante la quale il suo gagliardo appetito di vigoroso montanaro non soffrì per la presenza del mare.
Durante la sosta a Talamone, tra il 7 e l'8 maggio, nel primo ordinamento dei suoi volontari fatto dal Generale, il nostro eroe ebbe il comando della 2ª Squadra dell'8ª Compagnia dei Bergamaschi, comandata dal Bassini. Per ciò Garibaldi nell'episodio citato lo chiama tenente.
Nei giorni successivi non sono ricordati altri particolari episodi. Da Marsala a Calatafimi visse nell'ombra, seguendo le vicende della Compagnia dei Bergamaschi, che ebbe poi l'onore di essere chiamata da Garibaldi la « Compagnia di ferro ».
Anch'egli come la maggior parte dei volontari, ad eccezione cioè dei Carabinieri Genovesi in possesso di carabine più moderne e perfezionate, era armato di un vecchio fucile di scarsissime capacità balistiche e per di più guasto. Scrive egli stesso in una lettera all'amico Bertacchi ( 22 ):
« Il fucile di cui mi servii a Calatafimi era un vecchio catenaccio; aveva la molla dell'acciarino guasta, e dovetti incastrarvi un pezzo di legno perché il cane battesse con bastante forza sulla capsula onde ottenerne lo scoppio.
Ma anche con questa grande riparazione non era sicuro che il colpo partisse ». Tanto più stupefacente perciò appare l'impresa delle camicie rosse quando si tenga presente l'assoluta inadeguatezza dell'armamento e tanto più ammirabile l'eroismo di tutti e in particolare dei comandanti maggiori e minori.
Sulle balze del Pianto dei Romani, nell'epica battaglia che decise le sorti, si può ben dire, dell'impresa siciliana, Daniele Piccinini compi gesta che lo posero nel numero degli eroi della Patria. L' Abba ( 23 ) ricorda che « in uno dei momenti che la battaglia parea volgere a male, egli tenne alto l'animo dei suoi vicini, gridando parole potenti come d'arcangelo ». Famosissimo poi divenne l'episodio, citato dagli storici e memoralisti della spedizione ( 24 ), riguardante il gesto audace e generoso del Piccinini che, vedendo Garibaldi esporsi in mezzo all'infuriare del fuoco con suprema indifferenza, gli si fece innanzi e coprendolo col suo ampio torace, quasi in tono di rimprovero gli disse: a Generale, la camicia rossa vi espone maggiormente ai tiri nemici, e ciò non va bene » ( 25 ), e gli gettò sulle spalle un suo ampio mantello di incerai;» per coprire il rosso troppo pericoloso delia gloriosa camicia. E Garibaldi , stupito e ammirato di tale atto, lasciò fare pur tristemente protestando: « Ma non è forse bello morire per il proprio Paese? ».
Profondamente significativi l'atto e le parole dei due eroi. Nel momento più critico della battaglia, quando anche il cuore intrepido di Nino Bixio dubitò e il secondo dei Mille pensò alla necessità di ritirarsi, quando
Garibaldi si esponeva ancora più audacemente del solito, quasi nella disperata speranza di morire per il suo Paese », ecco farglisi avanti quel a capo Squadra dall'abito e dall'aspetto rozzo e robusto del montanaro » ( 26 ) che, senza tante parole di esteriore ossequio, senza porsi il problema dell'opportunità della bella morte romantica, pensando che occorreva semplicemente combattere e vincere, e per far ciò era necessaria la presenza e la vita del Generale, copriva audacemente il suo Capo e gli faceva notare che non era bene per Garibaldi esporsi troppo temerariamente e osava gettargli sulle spalle il suo mantello.
Atto veramente epico e gruppo scultoreo come quello poco successivo che vide impegnati sull'ultimo spalto, in difesa disperata della bandiera della Legione, l'eroico alfiere Simone Schiaffino, Menotti Garibaldi , Gian Maria Damiani, Augusto Elia e il
Fu questo l'ultimo atto decisivo della battaglia. Vista la bandiera impegnata e in pericolo, le camicie rosse, esauste ma indomite, raggiunsero la vetta e diedero l'ultimo crollo alla tenace difesa borbonica.
Premio e riconoscimento del suo comportamento veramente eroico, che seppe distinguersi tra tanti coraggiosi e forti, furono il riconoscimento di Garibaldi che « non se ne scordò più » ( 27 ) e la promozione sul campo ad ufficiale.
Testimonianza dei rischi mortali corsi sia dal Piccinini che dal Generale fu il mantello, sul quale egli potè contare, dopo la vittoria, ben quattordici fori di pallottole che dovettero sfiorare, senza toccarle, le due camicie rosse, quasi fossero stati due degli omerici invulnerabili eroi.
Ed anche a lui pensava Garibaldi quando, nelle sue Memorie, scriveva: « Come potrò scordare quel gruppo di giovani, che, temendo di vedermi ferito, mi attorniavano facendomi del loro prezioso corpo un baluardo impenetrabile? » ( 28 ).
Eppure la sua modestia era tanta che, quando il 20 giugno mandava al padre, per mezzo del cugino Enrico che ritornava a casa perché inabile al servizio militare, insieme ad alcuni suoi oggetti personali, anche il famoso mantello, scriveva semplicemente « il resto di un mantello di tela incerata memoria della battaglia di Calatafimi ».
Il suo coraggio, la sua fermezza, la sua audacia ebbero modo di manifestarsi ancora nelle terribili giornate di Palermo. « A la presa di Palermo la condotta del Piccinini è qualcosa di straordinario. Egli è infaticabile, è dappertutto, meraviglioso esempio di audacia » ( 29 ), ricorda ancora il Sylva . Partecipò sicuramente alle dure azioni sostenute dalla Compagnia dei Bergamaschi, citata dal Guerzoni ( 30 ) e dal Macauley ( 31 ), oltre che dal Sylva , per la conquista della cattedrale. Il 27 maggio, a Porta Termini, fu ferito da una palla alla gamba destra, ma non per questo desistette dal combattere e, poiché la ferita piuttosto leggera gli impediva tuttavia i movimenti, sali su una casa e dall'alto di essa continuò a tirare sui borbonici con la micidiale efficacia del suo occhio sicuro e del suo polso fermo di appassionato cacciatore. Dopo tre giorni di aspri combattimenti il generale Lanza propose l'armistizio. Palermitani, picciotti e garibaldini si rallegrarono per tale vittoria, meno serenamente ne gioirono invece Garibaldi e i più responsabili dei volontari che erano a conoscenza della loro situazione quasi disperata: poche migliaia di volontari male armati, senza artiglierie e giunti all'esaurimento delle loro scarse munizioni, contro un nemico sproporzionatamente superiore per numero di uomini, di armi e di munizioni. Solo lo scoramento dei borbonici, l'incapacità e la viltà dei loro capi, atterriti e letteralmente storditi dall'audacia delle camicie rosse, oltre naturalmente la genialità, il coraggio e l'abnegazione di tutti i volontari avevano reso possibile tale miracolo. Documento di questo stato d'animo di stupefatta ammirazione per il fatto quasi incredibile e di preoccupazione per l'immediato futuro e una lettera del Nullo all'amico Enrico Tavola da Palermo. La data non è segnata, ma si deduce essere il 2 giugno. Dice, Ira l'altro: « Non mi trattengo a raccontarti i diversi contrattempi felici e sgraziati che vi susseguirono (intende dopo Calatafimi), perché di nessuna importanza a fronte della miracolosa nostra entrata in Palermo. La città che prometteva poco sembra si scuota, e ci voglia prestare mano. Siamo pochi; arditi si... ma pochi. Essendo continuamente presso il Generale non ho potuto fare una nota esatta dei nostri feriti » ( 32 ).
Fu poi ricoverato in ospedale per la ferita ma successivamente, bombardato l'ospedale dai borbonici, dovette uscirne e trovare alloggio presso famiglie private dove spese gli ultimi soldi.
In una lettera al padre del 14 giugno, dice: « Io mi trovo ancora a letto, ma in stato di guarigione e spero, in 7 o 8 giorni, di poter sortire da casa perfettamente guarito e senza danno alla gamba. Ieri venni nominato capitano. Ma mi rincresce di dirti che sono in bolletta e questo in causa di quelle maledette bombe che caddero nell'ospitale dove mi trovavo e fu forza abbandonarlo e zoppicando portarmi in una casa privata dove spesi quel poco che avevo. Ora mi abbisognerebbe qualche po' di danaro per vestirmi decentemente per non presentarmi alla Compagnia stracciato come un ladro: perché è ben vero che il vestito non fa il monaco ma fa bisogno anche questo per esserlo ».
A proposito di divisa è interessante leggere quanto scriveva a distanza di anni, nel 1884 ( 1), parlando di sé come capitano: « Mi bastava essere capitano (allora) perché a molti non garbava ch'io portassi spada, e che spada!!!! ( 2) io la conservo ancora, è uno spadotto che usavano i portinai del Palazzo reale di Palermo. La grande uniforme consisteva in berretto d'ufficiale del Borbone, capotto di soldato comune, pantaloni di un panno qualunque, e due scarpane che non videro mai lucido e grasso ».
Promosso dunque capitano ( 3) per la sua condotta alla presa di Palermo, ebbe il comando di una Compagnia del 5° Battaglione Cossovich nella V Brigata Eber, Divisione Türr , e fu decorato di medaglia d'argento ( 4).
Il 27 giugno il colonnello Eber prese il comando della 2ª Brigata (s) e la condusse per Rocca Palumba, Caltanissetta. Castro Giovanni, fino a Catania dove giunse il 25 luglio. adempiendo con successo alla missione, più politica che militare, di ristabilire l'ordine nell'interno dell'isola e trascinarsi dietro con la forza dell'entusiasmo una massa di volontari per le successive azioni sul continente.
Durante questa missione il Piccinini fu scelto, il 20 luglio, a presiedere una Commissione straordinaria per reprimere reati verificatisi in vari Comuni e assolse il suo compito tanto delicato con equanimità e generale soddisfazione (6). Ne comunicò la notizia al padre scherzosamente dicendo: «
Tu riderai a sentirmi Presidente... è il tempo di veder Gioppino rè! ».
E nuovamente scriveva al padre, in data 19 agosto: «Mi si disse d'essere proposto maggiore; ma io  sarò sempre pronto a rifiutare questo grado, perché troppa è la responsabilità e io sacrificherò a questa benedetta Italia la vita, ma non la quiete della
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In una lettera dell'11-11-1884 diretta a Mauro Bertacchi, ora in possesso del Dott. Romelli Gervasoni di Clusone, che l'ha gentilmente favorita in visione.
Ora al nostro Museo di Storia del Risorgimento, ceduta dal pronipote Alessandro Piccinini di Nembro. Si tratta di una bellissima e affilatissima sciabola di foggia quasi moresca.
Con anzianità 11 giugno 1860. La nomina fu poi confermata con decreto dittatoriale del 1° ottobre 1860.
Gli fu conferita con R. D. 12 giugno 1861 (4° elenco) per « i combattimenti di Calatafimi e Palermo ».
(5) Il Piccinini aveva allora il comando della 4ª Compagnia del VII Battaglione in tale Brigata. Secondo un ruolino del luglio 1860 questa Compagnia era composta di due ufficiali, oltre al capitano, 8 tra sottufficiali e graduati, una tromba e 54 cacciatori, costituiti da volontari bergamaschi, veterani di Marsala, e « picciotti » siciliani arruolati di recente.
(7) IPPOLITO NEGRISOLI: Daniele Piccinini in Bergamo e i Mille, Bergamo, 1932, ag. 115. Vedasi anche la lettera di nomina in data 20 luglio 1860, firmata dal Col. Eber.
coscienza. E poi un grado voglio meritarlo sempre in mezzo alle fucilate, dopo d'aver provato che so fare il mio dovere come capitano e ti assicuro che saprò farlo » (1). Queste parole valgono ancora una volta a rivelare con la loro cristallina semplicità la dirittura morale, la modestia e l'alto senso di responsabilità del nuovo capitano. E il padre, che aveva avuto notizie più precise sul comportamento del suo valoroso figliuolo dalla viva voce del cugino
Enrico che era ritornato a casa da Palermo perché inabile, cosi gioiosamente e orgogliosamente si congratulava in una lettera in data 25 agosto: « Bravo Daniele, continua a farti onore... Null'altro aggiungo perché credo torni inutile dire a tè: di portarti bene, da valoroso, ama l'Italia etc., dopo le prove che di tutto mi hai dato. I tuoi fratelli, gli amici,
specialmente Papa sono entusiasmati per te, t'ammirano, e ti salutano con tutto l'affetto ».
Sarà probabilmente questa la lettera che più di un mese dopo
stava leggendo nel convento di Santa Lucia quando lo vide l' Abba che descrive l'incontro con mano felicissima e commosso lirismo:
« Lo trovai sotto quell'ulivo, allegro e raggiante tanto, che mi parve d'indovinare la visione che aveva dinanzi agli occhi. Egli leggeva una lettera a mezza voce, e appena mi vide mi venne incontro dicendo: " Le mie montagne ridono, mio padre le riempie della sua gioia. Sa che suo figliuolo Daniele è capitano ! " E allora la voce gli si fece soavissima, e negli occhi lucenti gli si disfecero due lacrime. Poi mi abbracciò. E contro quel petto mi sentii come un'ombra. Che respiro largo e che colpi di cuore! Per essere puri e prodi come lui, bisognerebbe avere quel petto » (2).
Intanto, sempre seguendo, al comando della sua Compagnia, inquadrata nel 2° Reggimento, la V Brigata Eber della 15ª Divisione Türr , il 25 agosto passò lo Stretto di Messina, e giunse il 9 settembre a Paola. Qui la Brigata aiutò il Bixio a trarsi da gravi difficoltà; giunse poi a Napoli, via mare, il 17 e fu mandata sulla linea S. Angelo e S. Maria, dove prese
parte alla ricognizione offensiva del 19. Giunto l'intero Esercito di Garibaldi presso il Volturno, la Brigata Eber fece parte della riserva generale, agli ordini del generale Türr . Il 1° ottobre,
data dell'ultima, asperrima battaglia garibaldina del Volturno, la Brigata Eber fu impegnata al pomeriggio; giunse infatti verso le 3 e un quarto sulle posizioni di S. Maria e la sua azione fu determinante nel salvare le posizioni di S. Maria e di S. Angelo (3).
E' proprio durante questa fase della battaglia che, con altri tre ufficiali bergamaschi, il Bettinelli , l' Isnenghi e il Parpani , tre volte il Piccinini sostenne e respinse l'urto della cavalleria nemica (4).
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IPPOLITO NEGRISOLI: Daniele Piccinini in Bergamo e i Mille, Bergamo, 1932, pag.116.
GIUSEPPE CESARE ABBA - Da Quarto al Volturno, Bologna, Zanichelli, 1943, pag. 219.
(3) Vedasi il Dizionario del Risorgimento Nazionale, Milano, Vallardi, 1931, alla voce Eber.
(4) GUIDO SYLVA - L'VIII Compagnia dei Mille, Bergamo, 1959, pag. 123.
Stabilizzale poi le posizioni, egli rimase, col suo reparto, a Caserta, nel convento di Santa Lucia, dove stava volentieri perché lontano da Napoli dove c'è troppa gente che briga a come diceva all' Abba , aggiungendo: « Non andare a farti levar la poesia; sta qui, filibustiere; per noi son buone queste celle di frati; cosa vuoi di più? ». E ispirava sentimenti di grande rispetto allo stesso Abba che continua: « Io do molto retta al capitano Piccinini, sebbene se fosse il gran Nicolo in persona.
Ieri, a Caserta, era da Garibaldi , mentre alcuni ufficiali della marineria americana entravano a visitare il Washington d'Italia. - Ecco il modello dei miei ufficiali! – disse il Generale, mostrando il Piccinini a quei marinai.
Non si darebbe la vita per una mezza parola di queste, dette da Lui? Eppure il Piccinini quasi quasi usciva mortificato. Ma già; egli non sa d'essere quello che tra tutti somiglia di più a Garibaldi . Semplice come Lui, bello, buono e fiero come Lui: saprebbe anch'egli vivere nel deserto, crearsi un mondo e dimenticare questo degli uomini. Mi pare già di vederlo. Quando tutto sarà finito, egli tornerà alle sue Alpi, nella solitudine della sua Pradalunga.
E se gli diranno: "Ebbene?", egli risponderà come se venisse da far una passeggiata. Ma a suo padre, oh! a suo padre narrerà tutto » (1).
E infatti lo stesso episodio è confermato dallo stesso Daniele al padre in una lettera del 24 ottobre: «L'altro ieri ebbi l'occasione di parlare al Generale
Garibaldi il quale in presenza del suo Stato Maggiore fece i miei elogi, tu poi immaginare qual avessi bisogno di qualche cosa mi portassi da lui ch'egli mi sarà sempre Amico ». Subito dopo nella stessa lettera, quasi per ritornare alla sua naturale modestia dopo aver parlato degli elogi avuti, aggiunge: e Notizie di guerra non tè ne do poiché meglio di me tu saprai come stanno già le cose. Ti parlerò di uccelli », ed espone al padre come facilmente si possano cacciare allodole tender reti per uccellare agli avamposti « in faccia al nemico a e conclude: «era un capriccio e l'avrei soddisfatto volentieri ».
Alla vigilia delle dimissioni, a campagna finita, ebbe un foglio dell'Esercito Meridionale col quale il capitano Daniele Piccinini era promosso Maggiore. Egli non si curò di rettificare l'errore e cosi rimase capitano. Chiese le dimissioni in data 15 dicembre e tornò ai suoi monti, alla sua caccia, ai suoi cari, alla sua tranquilla vita, schivo di onori e di clamori.
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GIUSEPPE CESARE ABBA - Da Quarto al Volturno, Bologna, Zanichelli, 1943, pagg. 249-250.

5. - La spada spezzata (1862).
Tornò ad incontrare Garibaldi nel maggio di due anni dopo, quando il Generale si trovava alla cura balneare di Trescore e stava studiando la possibilità di un'azione verso il Trentino. Piccinini si recò, con altri garibaldini bergamaschi, il suo omaggio e l’offerta del suo « cuor
fido ». Agostino Lurà, bergamasco dei Mille e fornito di cospicuo patrimonio, fece ritrarre dal pittore Maironi la scena alla fonte di Calvarola, in un quadro conservato oggi nella sala del Consiglio Municipale di Trescore, nel quale campeggia Daniele in atteggiamento oratorio, in piedi, col suo tipico cappello a larghe tese, mentre Garibaldi lo ascolta attento, seduto, e circondato da Cristotoli , Isnenghi , Comi , Lurà e Muro (1).
Dall'altro lato, seduta, appare anche la sorella di Daniele, Giuseppina Piccinini maritata Gavazzi, alla quale l'Eroe dei due mondi regalò un grande fazzoletto di seta rossa con le sue iniziali G. G. che potevano anche servire a lei come Giuseppina Gavazzi.
In seguito a tale incontro prese parte ai moti di Sarnico ma senza subirne conseguenze. Nello stesso anno fu dei fedeli che seguirono il Generale ad Aspromonte. Prima di raggiungere Garibaldi dovette però superare notevoli difficoltà. Giunto infatti a Palermo non fu lascialo sbarcare e rimandato a Napoli in arresto per essere poi ricondotto a Genova. Ma non era tipo egli, come i suoi ardimentosi compagni, di arrendersi alle prime difficolta, e riuscì a fuggire raggiungendo gli altri volontari. Racconta egli stesso in una lettera al padre in data 9 agosto da Napoli: « Io spero che tu non sarai in collera con me ».
(Possiamo da questa frase dedurre che questa volta Daniele dovette partire contro la volontà del padre che forse vedeva nell'impresa progettata quegli elementi di contraddizione che l’avrebbe condannata all’insuccesso, e che invece il figlio, tutto preso dall'incanto del suo Eroe, non vedeva o non voleva vedere). Continua poi la lettera: « Io mi trovo a Napoli, perche a Palermo non mi si permise di sbarcare e veniva rimandato qui a Napoli per essere rispedito a Genova. Qui a Napoli trovandomi col Marchetti ed alcuni compagni in arresto a bordo di un vapore che doveva ricondurci a Genova, si riuscì a fuggire calando giù da prora per mezzo d'una scala di corda approfittando del disordine che c'era a bordo per rimbarco che si faceva di soldati; cosi, ora mi trovo libero per fare un nuovo tentativo di poter sbarcare in Sicilia. Qui fa un caldo terribile negli animi di tutti. Roma, o morte ».
Raggiunse poi, non sappiamo come, Garibaldi e fu con lui nella dolorosa vicenda di Aspromonte.
Il Sylva (2) ricorda che
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IPPOLITO NEGRISOLI: Daniele Piccinini in Bergamo e i Mille, Bergamo, 1932, pag.117.
(2) GUIDO SYLVA - L'VIII Compagnia dei Mille, Bergamo, 1959, pag. 124.
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NOTE
(1) DAVIDE CUGINI: Le pietre coti delle valli bergamasche, Bergamo, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, 1953.
(2) GIUSEPPE CESARE ABBA - Storia dei Mille, Firenze, Bemporad, 1904, p. 62..
(3) IPPOLITO NEGRISOLI: Daniele Piccinini in Bergamo e i Mille, Bergamo, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, 1932, pag. 113.
(4) Si ricordano tra costoro: Giovanni, cantante; Ferdinando, che fu anche Sindaco di Pradalunga e fu ai funerali di Daniele a Tagliacozzo; Emilio, che seguì come volontario Daniele nella Campagna del 1866; Eugenio e Cesare, l'ultimo, che continuò la gestione dell'azienda paterna ed in casa del quale visse Daniele, oltre alle due sorelle Giuseppina e Giuditta.
(5) IPPOLITO NEGBISOLI: Davide Piccinini in Bergamo e i Mille, Bergamo, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, 1932, pag. 113.
(6) Vedasi l'articolo Un ricordo poco noto di Daniele Piccinini di GIANNI GERVASONI in « Bergomum », 1933, pag. 55, nel quale sono ricordati alcuni episodi tratti dal libro Fiabe e Racconti (Portici - Napoli - 1896) di ADELAIDE TIRONI SPAMPANATO, figlia di Giuseppe Tironi, il trombettiere dei Mille.
(7) Vedasi « Gazzetta Provinciale » di Bergamo del 10 agosto 1889.
(8) L'episodio è ricordato da ADELAIDE TIRONI SPAMPANATO nell'opera già citata. L'autrice conclude poi ricordando che il Piccinini aggiungeva: « Vedete che se ho fatto qualche cosa di buono io non ho merito alcuno, l'ha tutto mia madre, che non solo mi diede la vita, ma fece di me un uomo. Che sia benedetta la sua memoria!».
(9) IPPOLITO NEGRISOLI: Daniele Piccinini in Bergamo e i Mille, Bergamo, 1932, pag. 114.
(10) Notizia tratta dalla citata biografia del NEGRISOLI (pag. 114). Oggi purtroppo il congedo è irreperibile sia nei Musei che presso gli eredi. Forse sarà giunto in mano di qualche privato che farebbe atto indubbiamente meritevole a farlo avere al nostro Museo di Storia del Risorgimento o, almeno, a darne copia fotografica o diplomatica.
(11) Anche dal suo stato di servizio militare, presso l'Archivio di Stato di Torino, risulta: « Nei Cacciatori Bergamaschi », 1848.
(12) GUIDO SYLVA - La VIII Compagnia dei Mille, S.E.S.A., Bergamo, 1959, pag. 121.
(13) GUIDO SYLVA - La VIII Compagnia dei Mille, S.E.S.A., Bergamo, 1959, pag. 121.
(14) Tale scheda è ora al Museo di Storia del Risorgimento di Milano.
(15) IPPOLITO NEGRISOI.I: Daniele Piccinini in Bergamo e i Mille, Bergamo, 1932, pag. 114.
(16) Che il caffè Carini rappresentasse un ritrovo di liberali e cospiratori è documentato anche da due articoli di giornale (« L'Unione » del 21 marzo 1895 e « L'Eco di Bergamo » del 16 settembre 1923) in occasione della morte di Luigi Carini (1895) e del figlio Arturo (1923), gentilmente favoriti dalla signora Adriana Pelandi Carini. In tali articoli si ricordano le vicende del noto locale che era chiamato « Il Caffè dei Garibaldini », nelle cantine del quale si riunivano i cospiratori, favoriti dal fatto di poter rapidamente e facilmente sfuggire ad incursioni della polizia austriaca, uscendo da una porticina posteriore che dava sulla roggia che essi attraversavano dileguandosi poi per la strada di S. Lazzaro.
(17) Vedasi I Cacciatori delle Alpi di FRANCESCO CARRANO (Torino, UTET, 1860). A pag. 504 tra gli insigniti di menzione onorevole è citato il caporale Daniele Piccinini.
(18) SANTO CASARI: Ricordi su Daniele Piccinini in « Unione », anno V, n. 214.
(19) Ora al Museo di Storia del Risorgimento di Bergamo, ceduto da Cesare Gavazzi, pronipote dell'eroe.
(20) GUIDO SYL.VA: L'VIII Compagnia dei Mille, Bergamo, 1959, pag.
(21) GIUSEPPE GARIBALDI
I Mille, Bologna, Cappelli, 1933, pag. 27.
(22) La lettera i del 18-11-1384 ed è stata favorita in visione dal Dottor Romelli Gervasoni di Clusone, che ne è in posseso.
(23)

GIUSEPPE CESARE ABBA - Da Quarto al Volturno, Bologna, Zanichelli, 1943, pag. 161.
(24) GUIDO SYLVA - L'VIII Compagnia dei Mille, Bergamo, 1959, pag. 187. L'Epopea italiana del 1860, Roma, Casa Editrice Italiana, 1910, pag. 31. GIUSEPPE CESARE ABBA , Da Quarto al Volturno, Bologna, Zanichelli, 1943, pag. 161. GIUSEPPE CESARE ABBA - Storia dei Mille, Firenze, Bemporad, 1904, pag. 60. GUALTIERO CASTELLINI: Eroi Garibaldini, Bologna, Zanichelli; pag. 234. CARLO AGRATI: I Mille, Milano, Mondadori, 1933, pag. 318.
(25) GUIDO SYLVA - L’VIII Compagnia dei Mille, Bergamo, 1959, pag. 187.
(26) CARLO AGRATI I Mille, Milano, Mondadori, 1933, pag. 318.
(27) GUIDO SYLVA - L'VIII Compagnia dei Mille, Bergamo, 1959, pag. 189. L'Epopea italiana del 1860, Roma, Casa Editrice Italiana, 1910, pag. 30.
(28) GIUSEPPE CESARE ABBA - Storia dei Mille, Firenze, Bemporad, 1904,
(29) GIUSEPPE GARIBALDI - Memorie autobiografiche, Firenze, Bemporad, pag. 347.
(30) GUIDO SYLVA , L'VIII Compagnia dei Mille, Bergamo, 1959, pag. 122.
(31) GIUSEPPE GUERZONI: Garibaldi , Firenze, Barbera, 1882, pag. 99.
(32) GEORGE MACAULEY TREVELIAN: Garibaldi e i Mille, Bologna, Zanichelli, 1910, pag. 405.
(33) Copia di questa lettera è
acclusa ad un gruppo di lettere del Piccinini, già in posseso degli eredi, ed ora al Museo di Bergamo. La copia parrebbe di mano dello stesso Piccinini, per cui si è indotti a pensare che essa interessasse
particolarmente il nostro eroe, sia per l’elenco dei morti e feriti, sia come manifestazione di sentimenti analoghi in quei giorni tanta drammatici e decisivi
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continua

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