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Comunicazioni preordinate
FUNERALI LAICI E “SALE CIVICHE DEL COMMIATO”
di Angela Trevisin e Alessandro Casellato


L'Associazione La Ginestra, che noi oggi qui rappresentiamo, è nata la primavera scorsa a Treviso. Uno degli obiettivi su cui si fonda l'attività dell'Associazione è far si che la nostra città si doti di una sala civica del commiato, vale a dire di uno spazio in cui sia possibile celebrare funerali non confessionali. La ragione per cui un gruppo di cittadini si sono riuniti per conseguire questo scopo risale a due anni fa. La morte improvvisa di mio cognato, un insegnante, un ricercatore noto in città ci aveva messi di fronte alle difficoltà concrete di celebrare il suo ultimo saluto in forma non religiosa. Per rispetto infatti di quello che era stata la sua traiettoria di vita, decidemmo di affidarne la memoria alle parole e ai pensieri di colleghi di lavoro, amici, parenti. Sentivamo l'esigenza di un ultimo saluto, un semplice modo per mettere un po' di ordine nel disordine che una morte, e in modo particolare una morte improvvisa, crea. Ci è bastato un microfono, delle letture, ma ci è mancata una sala, uno spazio in cui poterci riunire.
Le difficoltà in cui ci siamo imbattuti sono state legate al fatto che non esiste a Treviso, e ben presto ci siamo resi conto che è una sorte comune ad altre città d'Italia, un luogo in cui gli individui siano liberi, pur nel rispetto delle leggi che regolano il nostro paese, liberi di celebrare l'ultimo saluto secondo i gesti, le parole, o i simboli che ritengono rispettosi del percorso di vita che ognuno ha fatto. Ci trovammo così costretti a ritagliarci uno spazio nel parcheggio dell'obitorio, all'aperto, sotto un caldo sole estivo e in piedi, tra le auto che andavano e venivano.
Ci è sembrato che questo non fosse giusto: né per chi parte ed ha il diritto di essere degnamente ricordato, né per chi resta ed ha la necessità e il diritto di trovare conforto secondo i modi che ritiene più opportuni in un momento così doloroso. Pensiamo che non sia accettabile che vi siano elementi di discriminazione in una circostanza, quella legata alla morte di una persona cara, in cui va massimamente garantito il rispetto per l’essere umano.

In base al DPR 285 del 10 settembre 1990 Regolamento di Polizia Mortuaria, è previsto un percorso molto rigido della salma dal luogo del decesso, sia esso l'ospedale o l'abitazione, al cimitero e brevi soste sono consentite solo in chiesa. Questo, come è giusto che sia per rispetto a norme di igiene e pubblica sicurezza. La normativa lascia però ampia libertà alle amministrazioni locali, nella figura del sindaco, di individuare altri spazi per la commemorazione.
E' proprio a partire da questo presupposto che l'associazione La Ginestra si è resa interlocutrice diretta nei confronti dell'amministrazione comunale di Treviso perché la città si doti di tale spazio civico.
Volevamo però cercare di capire se la nostra richiesta, dettata da un'esperienza personale molto forte, fosse condivisa anche da altri cittadini. Abbiamo attivato una raccolta di firme e in un mese più di duemiladuecento persone ci hanno dato il loro sostegno, tra questi anche molti cattolici praticanti. E' stato un risultato significativo perché non è facile per la strada o in piazza di domenica pomeriggio invitare le persone a riflettere su un tema tanto delicato quanto lo è il tema della morte. Ci siamo resi conto che molti non ci avevano mai pensato, molti pensavano solo ai riti funebri propri di altre grandi religioni. Altri ancora hanno invece sostenuto l'importanza di fornire una possibilità, un'alternativa a chi non si identifica nelle scelte confessionali maggioritarie. Il sentire che questa richiesta da noi avanzata coinvolgeva un'ampia parte di cittadini ci ha convinti a perseverare nel nostro intento.
Nel frattempo, nostro malgrado, altri funerali non religiosi sono stati celebrati, sempre nelle stesse condizioni, facendoci rivivere il disagio e la rabbia per un ultimo saluto sotto la pioggia, tra le auto. In un caso per espressa volontà della persona che ci ha lasciati, la commemorazione è diventata anche un vero e proprio atto di denuncia nei confronti dell'amministrazione comunale. Si è sollevato così un dibattito che ci ha visti presenti nella stampa e nelle radio locali, ma che ultimamente trova riscontro anche a livello nazionale attraverso lettere e interventi proprio su questo tema.
Attualmente sono in corso delle trattative più concrete con l'amministrazione comunale e con la dirigenza delle ULSS locali, sulla base di una bozza di progetto da noi presentata per l'allestimento di una sala civica presso l'obitorio di Treviso. In attesa infatti che l'amministrazione provveda all'espletamento delle procedure che porteranno alla realizzazione di un altro spazio di tal tipo nell'erigendo tempio crematorio, ci sembra importante ottenere in tempi brevi quanto richiesto.
L'individuazione di questo spazio è per noi tanto significativa proprio perché in essa si concretizza e si salvaguarda il diritto fondamentale di libertà e rispetto per l'individuo, chiunque esso sia. Ci sembra che questo elemento sia sempre più rilevante soprattutto tenendo in considerazione le prospettive multiculturali verso cui evolve la nostra società.
Abbiamo quindi pensato di sensibilizzare la cittadinanza su tali aspetti e in autunno è stata organizzata da noi una tavola rotonda sul tema "Tanti modi di dire addio. Persone e culture diverse di fronte alla morte". Non avevamo grandi canali pubblicitari per dare comunicazione dell'incontro, ma il passaparola ha riunito in una sera di novembre circa un centinaio di persone a discutere e riflettere, confrontandosi su tale argomento con un esponente della cultura buddista, con un appartenente ad una comunità islamica, un membro di una famiglia ebraica, un'esperta della società per la cremazione.
E' stata una delle nostre prime uscite pubbliche e ci ha fatto cogliere come ci sia necessità tra le persone di comunicare su questi temi: è stato possibile e naturale che persone di culture e religioni diverse si siano trovate attorno ad una tavolo per pensare e anche sorridere insieme persino della morte.

***
Kalaf è iracheno. È in Italia da vent’anni, dice di non riconoscersi più nel suo paese d’origine. Se cercasse una moglie la troverebbe italiana. Non va in moschea, non prega cinque volte al giorno. Si definisce un laico di cultura islamica.
Quando gli abbiamo chiesto di partecipare alla tavola rotonda sui “Tanti modi di dire addio”, per raccontarci come si tiene il funerale di un musulmano che vive in Italia, era appena stato celebrato il primo anniversario dell’11 settembre. Pochi giorni prima, il nostro sindaco aveva tuonato contro i musulmani e la loro civiltà di sabbia che inquinerebbe la nostra. E proprio allora cominciava a girare anche l’idea che fosse probabile una nuova guerra contro l’Iraq.
Kalaf ci fece capire che per lui non era aria per venire a parlare in pubblico. E non facemmo fatica a credergli. Poi, però, ci fece una confidenza, detta tra le righe, che ci colse del tutto impreparati.
La richiesta di venire a parlare dei riti del commiato lo aveva messo in crisi, personalmente: non sapeva più a quale mondo appartenesse, non sapeva più quale rito avrebbe seguito, non sapeva più a chi avrebbe chiesto di occuparsi del suo corpo spoglio di vita. A chi lo avrebbe affidato? Non a un mullah, neppure certo ad un sacerdote. A chi, allora?
La storia di Kalaf ci ha fatto capire che in realtà oggi siamo tutti migranti, anche quando non ci spostiamo fisicamente da casa. Anche noi sentiamo come tramontate molte delle appartenenze tradizionali. Ci teniamo, anzi, a valorizzare le sfumature, la ricchezza e la pluralità di esperienze e di insegnamenti che abbiamo avuto nel corso della nostra vita, e che ci sono arrivati dalle provenienze più disparate: vicine e lontane, laiche e religiose, da un incontro personale e dalla lettura di un libro, da una nonna cattolica e da un amico comunista, da un padre italiano e da una madre algerina, da una moglie o da un marito di chissà dove.

Poter essere se stessi prima e dopo la morte
Quella del “chi siamo” è una domanda grossa. Non ci basta tutta la nostra vita a trovare una risposta. Anche perché noi stessi cambiamo ogni giorno, ed ogni giorno la risposta su chi siamo diventa forse un po’ diversa.
La morte, invece, sembra pretendere la risposta: una risposta sola, scelta tra poche che la società considera legittime, e per di più definitiva.
La morte, ma qui intendiamo dire i riti sociali legati alla morte (il funerale, la sepoltura), impone il riallineamento postumo degli individui dentro una e una sola comunità, dentro una e una sola identità di riferimento. Molto spesso è una identità di tipo etnico o religioso. In questo modo, non si riconosce la possibilità di percorsi individuali, di sconfinamenti, non si consentono ibridazioni.
A prescindere da quello che sei stato in vita, uomo o donna dalle mille esperienze e curiosità, dalle fedeltà plurime e dalle molte feconde infedeltà, quando morirai dovrai schierarti, dentro o fuori, con noi o con gli altri, o di qua o di là.
Dopo la morte, gli individui sembrano contare solo in quanto possono essere assegnati all’uno o all’altro degli schieramenti. Come nei cimiteri di guerra: tante tombe, tutte uguali e allineate. Come oggi nei cimiteri etnici, che sono i luoghi simbolici delle identità univoche, delle richieste di fedeltà estreme e totalizzanti: il massimo dell’omogeneità al proprio interno, il massimo della separazione rispetto a ciò che sta fuori.
La morte è uno dei momenti rituali più esposti ad usi “cattivi”, perversi: gli stati nazionali hanno cercato di appropriarsene, ad esempio dopo le guerre. I soldati mandati a morire furono chiamati martiri, e si disse che erano morti per la patria. Così, nel momento in cui li celebravano, gli stati si appropriavano una seconda volta della vita di quegli individui, del suo significato, della memoria di quelle esistenze personali.
Sono atti di potere che fanno gli stati, che fanno le chiese, spesso anzi le hanno fatte insieme, tenendosi a braccetto, sostenendosi l’un l’altra. Sono cose che fanno cioè tutti quei centri di potere, tutti i professionisti del sacro che si arrogano il diritto – che spesso è un diritto esclusivo – di dire chi una persona sia stata. In che cosa abbia creduto, che idee abbia avuto, che speranze, quali affetti, quali desideri la abbiano attraversata quando era in vita.
"Della mia morte possono parlare solo gli altri", dice, sfiorando l’ovvietà, Norberto Bobbio.
Eppure c’è un nesso molto stretto tra parola, memoria e potere. C’è un potere tremendo nel definire, nel ricordare un individuo, e nel farlo proprio nel momento in cui egli non avrà più la possibilità di rispondere, di replicare, di correggere, di integrare il discorso altrui. Il funerale è – anche – l’esercizio di un potere. L’orazione funebre distingue una persona che ha il diritto di parlare, da un’altra persona (morta) che è parlata, e da una moltitudine che può solo ascoltare e non è ammessa a proferir parola.
Quello che noi intendiamo quando parliamo di “funerale laico” ha a che fare con queste riflessioni. Il rito funebre è un momento che risponde ad un’esigenza profonda, forse imprescindibile in qualsiasi tipo di società e cultura umana: il bisogno di trovare una forma ritualizzata che accompagni l’estremo passaggio, e che aiuti a mettere ordine nel disordine che un lutto introduce nella vita di chi rimane.
Ma “funerale laico” per noi vuol dire anche tenere conto della libertà degli individui, vuol dire cercare di maneggiare con delicatezza quello che di sacro ogni persona lascia di sé dopo che se ne è andata: la memoria, il ricordo, il significato della sua esistenza. Ai nostri occhi, anche un buon cristiano potrebbe e forse dovrebbe avere un funerale laico.
Un funerale laico non ha un protocollo predefinito, così come non ha un unico celebrante. Nella nostra esperienza, è stato realizzato grazie alla partecipazione di amici e parenti che liberamente si sono alternati ad un microfono. Ognuno ha portato il proprio ricordo della persona cara, dedicandole un breve discorso, una poesia o una canzone.
Anche questi, nella loro semplicità, sono momenti di grande emozione, che servono soprattutto a chi rimane, per cominciare ad elaborare il lutto e la memoria dell’amico o del congiunto che non c’è più.
Manca però, per ora, un luogo adeguato. La legge italiana non consente che una salma sia spostata. La legge non prevede spazi e modalità di gestione di una salma organizzati “dal basso”, da gruppi familiari o amicali, dal reticolo della società civile. Noi non vogliamo cambiare la legge – che in realtà ha altre buone ragioni per essere così.
Vorremmo che esistesse però un luogo, nelle città dove abitiamo, un luogo dove i cittadini di qualsiasi idea, fede e provenienza avessero la possibilità di dare l’estremo saluto ad un amico, e avessero la possibilità di farlo nei modi, nelle forme e con le parole con cui essi riterranno di farlo.
Quel luogo che non c’è, l’abbiamo chiamato “Sala civica del commiato”.








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