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ESPERIENZA DI INCONTRI SULLA MORTE E IL LUTTO PER OPERATORI SANITARI A TREVISO
Intervento di Grazia Giuffrida
(1)

Motivazioni personali e professionali dell’adesione ad un gruppo a.m.a. per il lutto

Alcuni anni fa, arrivata ad un punto della vita in cui si era fatto sempre più prepotente il bisogno di prendermi cura della mia parte spirituale, è stato inevitabile interrogarmi non solo sulla vita ma anche sulla morte. Non soltanto per il semplice fatto di venire spesso a contatto con la malattia e le sue conseguenze nel mio ruolo di infermiera, ma proprio per un percorso molto personale di VALORE e VALORI che dessero senso e spessore alla mia individualità “qui e adesso” nel mondo sensibile, e non solo in questo.
Con il tempo mi sono resa conto che questo bisogno aveva iniziato il suo percorso parecchi anni prima quando, essendo ormai morti entrambi i miei genitori, io avevo perso, per non riacquistarlo mai più, il mio ruolo di figlia. Di solito è poco frequente che qualcuno lo noti o parli di questo perché viene considerato un lutto naturale ma, nella mia esperienza personale la perdita di questo “ruolo” o “compito” aveva lasciato un gran vuoto e tanti rimpianti.
Sarebbe troppo lungo, adesso, raccontarvi tutte le tappe del viaggio che mi hanno illuminata sulla realtà che, in verità, non avevo perso né i miei genitori né l’unico vero Padre che mi aveva generata nello Spirito e che in esso mi mantiene e mi attende, perciò vi dico soltanto che oggi, la gioiosa accettazione di tutto quanto avviene nella mia vita va di pari passo con l’idea di aver compreso, maturato ed accettato l’evento morte, sia nella mia vita che in quella degli altri (senza che questo faccia di me un’eroina o un essere particolare).
Ma anche questa evoluzione, non è stata un punto di arrivo, perché da quel momento è iniziato un nuovo percorso per approfondire entrambi i significati - del vivere e del morire - così indissolubilmente legati tra loro. In poche parole, e non sono certo io l’unica ad affermarlo, accettare veramente e compiutamente la morte in noi e nei nostri simili (negli affetti naturali, negli amici, nei nostri pazienti) è ciò che ci permette di dare un senso di immensità, eppure di lievità, alla nostra vita; nello stesso tempo, riuscire a vivere la propria vita consapevoli del miracolo continuo e gratuito che essa rappresenta, è ciò che può farci accettare la vicinanza e la familiarità della morte.
Se si entra in questo circolo virtuoso come persona, ancora più facile e spontaneo sarà trasporlo nella professione e nella quotidianità del reparto o del servizio in cui operiamo.
Spero che queste poche parole siano state sufficienti a farvi capire perché ho desiderato e mi sono preparata a far parte di un gruppo di auto-mutuo-aiuto per persone colpite da lutto.
Ma, sia chiaro che, tutto quello che vi ho detto finora, non protegge e non anestetizza del tutto rispetto al sentimento, molto umano e condivisibile, del dolore affettivo (o morale) che fa parte del nostro DNA mentale (paura, rabbia, piacere, dolore). A meno che non ci si addentri in ulteriori percorsi che non fanno parte di quanto stiamo trattando. Sul dolore quindi ho poco da dirvi perché sto ancora imparando. Le cose che emergono e si elaborano nel gruppo, persino illuminanti rispetto a questo, valgono qualcosa ma più per chi è stato colpito che per chi è in ascolto.
Conta di più il fatto di esserci, non una o due volte, ma dieci, cinquanta, cento volte, e ogni volta riuscire ad <accogliere> il dolore dell’altro, degli altri. L’osmosi emozionale che si crea tra tutti i presenti (colpiti da lutto oppure no) e la comprensione dei vari livelli di sofferenza (c’è chi è più avanti e chi è agli inizi del percorso) rende nuova ogni volta la situazione, anche se i presenti sono i medesimi.
Al di là di ogni retorica moraleggiante o religiosa, il mio vissuto è attualmente questo: “è nel vivere e superare il dolore affettivo che gli esseri umani danno il meglio di sé, soprattutto se sono accompagnati da qualcuno pronto a condividere, a confortare, ad avere compassione genuina e sincera per chi è stato colpito”.
Questo vale, più che mai, per chi, come noi, ha scelto una professione di servizio che presuppone una scelta d’amore verso i propri simili. E vale, ovviamente, per chi è stato colpito negli affetti e, nonostante la sofferenza, la perdita, la lacerazione subita, riesce ancora a desiderare di rinnovarsi, di liberarsi di tutte le inutili parvenze sociali, materiali, relazionali e ricominciare da lì, da dove tutto si era fermato.
E’ una grande impresa che richiede energia, progettualità, amore. Ma è, soprattutto, una degna impresa, per ogni essere umano. Degna di noi, di chi ci sta accanto con affetto, di chi amiamo e ci ama.
La prima parola del titolo di questo Convegno <CONDIVIDERE> è quanto mai adatta ed ispiratrice per dire qualcosa dell’esperienza che abbiamo recentemente vissuto.
Come attivatori e testimoni di “Rimanere Insieme” ci siamo trovati infatti, io e Gigi Colusso, a condividere con altre persone intervenute nella loro veste di operatori sanitari e sociali o volontari, l’esperienza nuova di un “gruppo di lavoro” che si è interrogato sui temi di questo convegno che poi, all’interno del gruppo a.m.a. dei cordoglio, sono usuali e letteralmente vissuti da chi si incontra in essi.
Le occasioni sono state anzi due: la prima si è svolta nel distretto di Mogliano Veneto, con 3 incontri, alla fine del 2002; la seconda, più recente, di altri 3 incontri all’Ospedale Regionale di Treviso “Cà Foncello”.
Entrambe le esperienze, pur nella loro diversità, ci hanno confermato una serie di disagi che, essendo noi stessi professionisti sanitari, avevamo già avuto modo di notare all’interno delle strutture. Val la pena di elencare le più importanti:
a) non ci sono spazi appositi per gli operatori, né di tempo né di luogo, per parlare di certi argomenti considerati: delicati-difficili-imbarazzanti-spinosi...
b) oltre alla mancanza di spazi (anche e soprattutto mentali) non c’è, o si è persa negli ospedali, quella cultura umanistica che favorisce il rapporto empatico tra donatore e ricevente di un servizio (quello sanitario appunto), mentre si assiste, quasi ipnotizzati ed impotenti, all’esaltazione della prestazione tecnica, dell’efficacia-efficienza e della quantità-qualità del prodotto/salute erogato.
c) anche i pochi professionisti che vorrebbero, almeno nelle intenzioni, stabilire tra loro stessi e con le persone ricoverate, relazioni più naturali rispetto alla sofferenza, al dolore, alla morte incombente o temuta, si trovano a dover fare i conti con le esigenze imperanti delle strutture, dei turni, delle attività, ecc.
d) i pochissimi operatori che si rendono più disponibili di altri a voler affrontare certi aspetti importanti e profondi della relazione umana, che sono parte intrinseca delle professioni d’aiuto (diagnosi infauste, morte o stato terminale di un ricoverato, comunicazione ai familiari del decesso di un congiunto, sostegno ai familiari che arrivano in cerca del loro congiunto morto in incidenti o suicida...), si rendono conto di non possedere le parole, i gesti, le modalità consone - e neanche i silenzi - per aiutare veramente gli altri in momenti di così forte disvelamento della fragile condizione umana e di non riuscire a garantire, a se stessi, l’autentica partecipazione caritatevole senza perdere però il mandato della professione stessa.
Negli incontri in piccoli gruppi e nelle discussioni assembleari è apparso evidente che tutto questo accade perché, oggi, l’ospedale è diventato il luogo dove, essendo stata sfrattata dalle case e dalle famiglie, la morte di chi è gravemente ammalato o in fin di vita viene dirottata e deve essere necessariamente accolta, in qualche modo, in quello spazio improprio. Ma, nello stesso momento, l’ospedale è anche il luogo dove di morte si parla il meno possibile e, meno che mai, c’è il tempo per pensarci poiché, in un luogo deputato al raggiungimento e alla restituzione della salute, la morte di un ammalato è, quanto meno, uno spiacevole incidente di percorso. Questo presupposto, che è anche il vissuto dell’immaginario collettivo, non permette quindi di accogliere la morte e tutti i suoi stati di prima e dopo, negandole di fatto il rispetto e la dignità che le sono dovuti quale condizione finale della vita stessa che tanto amiamo.
C’è quindi questa rimozione (o tentativo di rimozione) di un evento a cui non si vuol dare senso, voce e presenza, come se si potesse scegliere veramente di ignorarlo e di non interessarsene.
Per questo l’adesione al percorso che abbiamo proposto agli operatori sanitari su Il lutto e la morte ci ha molto stupiti; le iscrizioni sono state così numerose (oltre 50) che alcuni operatori dovranno aspettare il prossimo corso, previsto per il prossimo maggio.
Tornando ora al precedente corso svoltosi a Mogliano Veneto, c’è da dire che è stato più discorsivo e tradizionale. Gli aderenti, pur sollecitati dallo stesso Direttore del distretto, hanno partecipato in numero non elevato (circa 12) e durante l’orario di servizio. Questa seconda variabile, che poteva sembrare appetibile, ha inciso negativamente sulla continuità delle presenze perché gli operatori facevano turni per garantire il servizio al pubblico.
I più interessati alle tematiche - il lutto anticipatorio, la rete sociale e familiare, i gruppi per l’elaborazione del cordoglio - sono stati, ovviamente, gli operatori del territorio; cioè quelli più a contatto con le famiglie e con esperienza diretta dei casi di decesso e lutto. Per non limitarci alla teoria e alle lezioni tematiche abbiamo chiesto anche l’intervento e la testimonianza di due infermiere che assistono le persone per conto dell’ADVAR. Inoltre è stata distribuita apposita bibliografia.
L’iniziativa, la prima di questo tipo in quel distretto, ha avuto un certo gradimento e, per noi, è stata utile per ascoltare, capire e rielaborare a nostra volta le cose dette ed ascoltate. L’esperienza è stata preziosa anche per impostare il corso successivo all’ospedale Cà Foncello di Treviso. Qui c’è stato l’apporto prezioso di un operatore interno, segretario dell’Associazione A.C.O.S., che aveva già presagito l’interesse per l’iniziativa.
Effettivamente, nonostante le locandine siano apparse in pieno clima natalizio, le richieste hanno superato subito ogni previsione, anche se la frequenza non era retribuita e non erano previsti crediti formativi. I temi proposti:
1) La morte e il lutto oggi; problemi antropologici, riflessi sulla qualità e rischi per la salute.
2) Il lutto anticipatorio; il vissuto del ricoverato, dei familiari e dell’operatore sanitario. Le diverse possibilità d’intervento.
3) La storia naturale delle persone e delle famiglie e la rete di sostegno per promuovere una corretta elaborazione del cordoglio.

Anche in questa occasione gli incontri sono stati arricchiti da testimonianze dirette, sia delle due infermiere ADVAR, già citate, sia da una persona in fase di cordoglio che frequenta il gruppo Rimanere Insieme, sia da alcune riflessioni scritte di familiari colpiti da lutto.
Gli intervenuti hanno partecipato con modalità interattive di lavoro verbale e scritto in piccoli gruppi — role-play e discussione —rielaborazione verbale e scritta dei vissuti suscitati dal corso.
Nella conclusione finale i tre gruppi di lavoro si sono trovati concordi su alcune dichiarazioni:
a) Gli operatori, allo stato attuale delle cose, non si sentono preparati bene per affrontare con competenza e disponibilità i temi di cui sopra
b) Per contro, si rendono conto che questa preparazione e disponibilità dovrebbe far parte proprio del bagaglio culturale e formativo della loro professione d’aiuto
e) E’ stata particolarmente apprezzata la possibilità di dar voce alle loro paure, preoccupazioni ed atteggiamenti riflettendo ed elaborando i temi nei gruppi di discussione.
d) Sentono il bisogno di riflettere ancora sull’esperienza, sedimentarla e rincontrarsi ancora con noi tra qualche tempo.
e) In tale data verrà stilato un breve ma significativo documento, perché l’esperienza non vada perduta e si possa segnalare, anche informalmente, ciò che è emerso alla competente Direzione strategica della Azienda LLSS di Treviso.

(1) Infermiera di I livello del Centro di salute mentale di Treviso e attivatrice del Gruppo “Rimanere insieme”





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