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LE RISORSE SPIRITUALI NEL LUTTO

Intervento di Gianluigi Peruggia
(1)

(Sono anche intervenuti: Valentina e Giancarlo MIGLIAVACCA del gruppo “Famiglie in cammino”)

La fede è una medicina speciale, che aiuta a guarire soprattutto nelle situazioni di sofferenza spirituale. E’ questo il primo messaggio che io e mio marito ci sentiamo di dare ripercorrendo la nostra esperienza di dolore: la perdita dell’unico figlio di 22 anni, avvenuta 14 anni fa.
Nella “Salvifici doloris”, lettera apostolica sul senso della sofferenza di Papa Giovanni Paolo II, uno dei punti cardine su cui si impernia la catechesi è che “Gesù Cristo stesso ha scritto il Vangelo della Sofferenza con il suo sacrificio vissuto per amore”.
E’ proprio qui la grandezza della nostra fede cristiana. L’amore di Dio per ciascuno di noi è talmente grande che ha scelto, per ridare dignità alla storia dell’uomo così carica di dolori e di pene, e per riscattarla dal male, di porre al centro di tale storia, proprio la croce redentrice di Cristo.
Dio, donando sé stesso, ha voluto rivelarci che non è l'Assoluto che sta fuori dal mondo e al quale è indifferente il dolore. E' un Dio d'amore, è l'Emmanuele, il Dio-con-noi, il Dio che continua a condividere la sorte dell'uomo e a partecipare al suo destino. Non è facile però comprendere e assimilare questo concetto rivoluzionario dell'amore, che si contrappone ad una logica umana tutta tesa a rincorrere la felicità allontanando il più possibile il dolore. Certo, anche per chi è sorretto dalla fede cristiana, la sofferenza è in sé un martirio da combattere con ogni mezzo. Tuttavia senza l'esperienza del dolore è quasi impossibile crescere spiritualmente, fare esperienza vera di Dio. La sofferenza, si potrebbe dire, è la pedagogia di Dio.
Quando il nostro Alessandro, dopo una brevissima malattia, è uscito dal tempo per entrare nell'eternità, non eravamo certo preparati a questo epilogo. Speravamo nella medicina, nella chirurgia, nella giovinezza e nella voglia di vivere del nostro amatissimo figlio. Ma, tutto purtroppo si è rivelato vano. E' scontato che i primi tempi siano stati vissuti nel vuoto, nello stordimento, nella lacerazione di una assenza che ancora appariva irreale. Tuttavia, alla luce della nostra personale esperienza, possiamo testimoniare che dietro un dolore così disumano c'è per ogni genitore la possibilità di una rinascita a vita rinnovata.
Abbiamo detto rinascita perché quando muore un figlio è come se ogni mamma e ogni papà morissero idealmente con lui. Sì, perché in effetti una morte così insensata ci spoglia di ogni nostra sicurezza, ci mostra tutta la precarietà del nostro essere, ci fa nudi come mai avremmo immaginato. Ma, proprio questa estrema povertà interiore provoca la nostra sensibilità, ci stimola a cercare quei valori spirituali che prima avevamo trascurato, ci dà la possibilità di tirare fuori il meglio di noi stessi, di valorizzare quei talenti che Dio ci ha donato e che noi tenevamo nascosti.
Nella ferita, invece, prendiamo coscienza della nostra debolezza, della nostra impotenza, impariamo a pregare e a piangere, e, pregando e piangendo impariamo a capire di più gli altri, incominciamo in un certo senso a sperimentare la beatitudine dell’umiltà, che è quella che apre le porte all’amore verso il prossimo. Sembrerà strano, ma il primo bagliore di speranza, che riesce a squarciare una prospettiva tremendamente buia, ci viene offerto da un piccolo vecchio libro che inaspettatamente ci capita tra le mani: il suo titolo è “Saper soffrire”. Già dalle prime pagine intuiamo che l’esperienza di dolore che stiamo vivendo va educata, va elaborata, va curata come fosse una malattia. Il suo contenuto, di una spiritualità insospettata, è come rugiada su una piaga che brucia.
Appare subito chiaro che soffrire soltanto è diventare prigionieri di una gabbia soffocante senza possibilità di sbocchi, è lasciarsi consumare da una pena estenuante fine a sé stessa; saper soffrire invece è lottare per ritrovare nuovi stimoli spirituali, è dimenticare il proprio io, è impegnarsi per dare significato a una realtà (nel nostro caso la perdita di un figlio) che tutti direbbero unicamente negativa, è cercare di aprirsi al dolore degli altri, è scoprire che il dolore può assumere valore di purificazione, può diventare occasione di cambiamento della tua visione della vita.
Con fatica, ma con determinazione, io e mio marito cominciamo così ad addentrarci in questo percorso; la nostra mente abbandona gli interrogativi, i perché, a poco a poco accetta il cammino che il Signore ha previsto per la nostra famiglia. La preghiera, alla quale ci aggrappiamo con sempre maggior insistenza, scuote nel frattempo il nostro modo tiepido di essere cristiani, finalmente ci fa capire che vivere da credenti il mistero del dolore vuol dire viverlo dentro un progetto di fede, vuol dire credere nell’amore di Dio, nonostante tutto lasciarsi confortare dal pensiero che il Padre celeste sta ora amando nostro figlio più di quanto avremmo potuto amarlo noi. Il nostro cuore intanto si lascia sempre più avvolgere dalla forza redentrice della croce, dietro la croce vede la luce della resurrezione, e, se pur con grandissima nostalgia per il nostro Alessandro, la cui presenza fisica sappiamo irrecuperabile, e inizia a ringraziare il Signore per avercelo dato per 22 bellissimi anni, a lodarlo per la grazia che ci fa rinsaldare, proprio nella prova, la nostra fede dalla quale nasce la spinta che consente di dare significato nuovo al nostro vissuto.

“Signore, fa che invece di essere consolato io possa consolare”
Ci rendiamo finalmente conto che la vera dignità della vita è quella di saper dare un senso ad un evento passato, ma che mai passerà. La nostra rinascita da genitori praticamente sepolti col loro figlio inizia proprio da qui, inizia quando riusciamo a poco a poco a trasfigurare la nostra sofferenza, a renderla feconda, quando cioè cominciamo ad andare incontro al dolore degli altri, a cercare di mettere in pratica le parole di San Francesco: “Signore, fa che invece di essere consolato io possa consolare”.
Nostro figlio, l’evento della sua morte, se per noi è fonte di un più autentico cammino di conversione, per le persone a noi più vicine, ma. anche per quelle che incontriamo occasionalmente, diventa addirittura strumento di evangelizzazione, perché quando diciamo che Gesù guarisce il cuore sofferente di chi crede in Lui e a Lui si affida, siamo quasi sempre credibili. E questo lo abbiamo sperimentato fin dall’inizio del nostro lutto, quando abbiamo deciso noi stessi di andare incontro a chi non aveva più il coraggio di parlarci.
Siamo stati noi ad abbracciare loro, ad incoraggiarli a non temere le tribolazioni della vita, a dire loro di posare sulle nostre spalle le eventuali pene che tenevano nascoste nel loro intimo per condividerle e offrire insieme al Signore, a convincerli che è di grande consolazione sapere che proprio nella sofferenza Dio Padre ci è vicino più che mai con la sua tenerezza, certi che Egli non permette nulla al di sopra delle nostre forze. Ogni avversità che incontriamo sulla nostra strada, grande o piccola che sia, è sempre finalizzata a favorire la nostra crescita interiore.
La morte, si sa, fa parte della vita stessa tuttavia la cultura moderna tende ad esorcizzarne il solo pensiero. Ecco perché quando questa realtà siamo costretti a sperimentarla sulla nostra pelle si corre il rischio di farsi travolgere dal dolore che essa comporta. Chi, come noi, è sorretto però dalla fede, è anche consapevole che il dolore fa parte del mistero d’amore di Dio, pertanto non va rifiutato ma vissuto come compagno di viaggio, oseremmo dire, quasi necessario per approfondire il nostro rapporto con Dio, per dare fecondità al difficile cammino sul quale il lutto ci ha spinti, cammino che, se ci fidiamo ciecamente della sua Parola, può illuminarsi al di là di ogni aspettativa. Ciò che ha profondamente ferito il nostro cuore, che l’ha fatto sanguinare, ormai è scritto. Il problema ora è come valutare ciò che è successo nella nostra storia, come soprattutto reagire. E’ solo un fatto da cancellare dalla nostra mente il più presto possibile (ammesso che sia possibile), o questa che stiamo vivendo può essere un’esperienza che nasconde addirittura un valore?

Memoria affettiva e memoria biblica
Come abbiamo già avuto modo di sostenere, solo la fede, una volta incontrata, o riaccesa, ci può aiutare ad immetterci su di una via nuova di speranza, come se il dolore che stiamo vivendo generasse una logica fino ad allora latente. Più che l’intelligenza è la memoria che ci consente di credere, che ci rende possibile l’atto di fede. E’ il momento in cui la nostra memoria affettiva (cioè l’avvenimento che ha sconvolto la nostra vita di genitori) comincia a diventare memoria biblica (Dio ha agito nella nostra esistenza così come ha agito con i padri di Israele). E’ il momento in cui cominciamo ad evangelizzare la nostra memoria, a leggere nella nostra storia lo stesso travaglio con cui Dio ha messo alla prova il suo popolo eletto per educarlo al suo amore (come è scritto nel Vecchio Testamento), ma anche a scoprirne la stessa provvidenza con la quale lo ha guidato alla Terra promessa. Se si riesce a leggere in questa ottica ciò che ci è accaduto, anche la nostra storia diventa sacra. Noi non possiamo dirci credenti se leggiamo senza senso gli eventi che ci circondano. Non stiamo cercando una qualsiasi rassegnazione per giustificare il nostro dolore. Stiamo cercando di farci permeare da quella fede autentica, l’unica che può rivitalizzare il futuro che ci aspetta, trasformandolo, o meglio ancora, trasfigurandolo.
Questo processo di identificazione della nostra storia con quella sacra, la capacità di saper scoprire dietro ed oltre ogni avvenimento la presenza di Dio, ci consente di trasfigurare anche un dolore così carico di irrazionalità, dove i buchi neri del nostro passato possono diventare buchi illuminanti del cammino che ancora ci aspetta. Se veramente crediamo, come dice il Vangelo, che Gesù Cristo stesso è presente in ogni sofferente, non è possibile quindi vivere la nostra sofferenza con un atteggiamento di passività. Allora dobbiamo assolutamente uscire dalla nostra struggente pena e dal mistero che essa nasconde, per cercare di vivere la memoria dei nostri cari condividendo il più possibile le sofferenze di chi ha chiesto aiuto, dando affetto, dando conforto, dando speranza.

Nascita dell’associazione “Famiglie in cammino”
A questo proposito dobbiamo riconoscere che il Signore è stato benevolo nei nostri confronti perché ci ha fatto la grazia di saper elaborare, per fortuna non molto tempo dopo la perdita del nostro Alessandro e prima che gli altri ci venissero in aiuto, il senso del dolore alla luce di questa propensione verso il prossimo, facendoci trovare stimoli di fraternità e di condivisione che prima non pensavamo di possedere. Nasce così, frequentando una mamma ed un papà che come noi avevano perso il loro unico figlio, la prima intuizione di dar vita ad una associazione di genitori orfani di un figlio (che poi si concretizzerà prendendo il nome di “Famiglie in cammino” per seminare speranza nel solco delle ferite e per testimoniare che solo l’amore di Dio può abbattere la barriera di quella morte che ci ha privato materialmente dell’affetto più caro. Il peso della croce è difficilmente sopportabile se lo si porta da soli. Ecco perché la nostra comunità di famiglie segnate dalla stessa esperienza di dolore, l’amicizia e la condivisione diventano il cardine sulla quale costruire le fondamenta di una nuova vita, completamente rivoluzionata nei suoi valori. Prove ed afflizioni hanno sempre avuto un effetto "livellante", perché al culmine del calvario ci sentiamo tutti indistintamente piccoli, piccoli. Quali che siano le ricchezze, la condizione sociale o il potere di cui si gode, siamo tutti uguali nella necessità che abbiamo di un vero Consolatore, di un autentico Salvatore.
La sofferenza, se vissuta quindi nella fede, rende i fratelli più vicini gli uni altri ed allontana ogni subdola autosufficienza. Tuttavia non pochi genitori all’inizio del loro percorso di elaborazione del lutto non riescono a superare il loro stato di ribellione e giungono al punto di incolpare Dio della morte del loro figlio. Anche per loro però la fase integrativa dal male al bene, per quanto ardua, non è mai impossibile e passa attraverso la riconciliazione con il fatto accaduto.

Riconciliazione con l’accaduto e attribuzione di senso
Riconciliarsi vuol dire iniziare il processo di attribuzione di senso, vuol dire che io comincio a capire che ciò che è accaduto nella mia vita può assumere un significato diverso da quello che appare, che Dio non c'entra nella fine di mio figlio, ma che Dio attraverso questa avversità, sta lavorando nella mia coscienza per farmi crescere interiormente, per farmi entrare in intimità con Lui, per trasfigurare quel passato che continua ad opprimermi.
Quando si riesce finalmente ad entrare in questa ottica divina si realizza non solo la trasfigurazione del nostro dolore, che sarebbe già tantissimo, ma si può giungere addirittura alla trasfigurazione del figlio stesso. “Io vado a prepararvi un posto perché siate anche voi dove sono io”…..dice Gesù agli apostoli nel Vangelo di Giovanni, prima di iniziare la sua passione. Se veramente crediamo in queste parole, che più consolatorie e misericordiose è impossibile trovare, anche nostro figlio, che pensavamo perduto per sempre, si trasfigura, perché ora lo possiamo pensare in una dimensione diversa, perché ora sappiamo che vive in un’altra realtà, quella trascendente, dove la luce soave di Dio lo sta avvolgendo. Anche se lontano dai nostri occhi, dà serenità al nostro cuore sapere che nostro figlio è ora al sicuro tra le braccia del Padre celeste e che la sua lontananza non è definitiva. E’ questo il miracolo grande che Dio ha operato nel nostro lutto, ma che continua a dispensare anche in altre situazioni drammatiche dove è estremamente difficile recuperare l vero senso della vita.
Scoprire che Cristo ci ama immensamente soprattutto nella prova e che nella prova ci viene offerta la possibilità di sperimentare la grandezza del suo amore è fortemente terapeutico.
Dio non si compiace delle nostre sofferenze, benché le sofferenze siano in molti casi la corsia preferenziale per arrivare a Lui.
Dio non risponde mai direttamente al senso del dolore, tuttavia il suo silenzio nasconde sempre una chiamata e al cuore dell’uomo sussurra: “Vieni, seguimi! Prendi parte con le tue pene alla mia opera salvifica che ha nella croce il suo simbolo vittorioso”. E’ qui, allora, che il credente trova nell’offerta della sua sofferenza trasfigurata la pace interiore e persino, come è accaduto a noi, una sensazione di gioia spirituale.
Quando ci capita di ripensare alla nostra storia, di ripercorrere le tappe della nostra vita, ancor oggi io e mia moglie ci chiediamo a che punto sarebbe il nostro cammino di fede senza la prova che abbiamo vissuto. Sicuramente in una fase molto più tiepida, senza slanci, forse come prima staremmo vivendo la fede in modo molto più circoscritto e finalizzato solo al bene del nostro nucleo famigliare. Come a dire una fede un po’ egoistica, che va di moda ai giorni nostri.
Se il nostro stato d’animo ora è sereno, libero da dubbi ed inquietudini, è perché cercando di medicare le ferite degli altri abbiamo medicato anche le nostre ferite, è perché cercando di portare luce nelle tenebre di chi è smarrito, abbiamo illuminato anche il nostro buio.

(1) Assistente spirituale in cure palliative domiciliari e in Hospice a Vimercate – Monza e assistente del gruppo Famiglie in cammino. Autore di libri: Saluti cari (2000), L’abbraccio del mantello (Ed. Monti, Saronno 2002)






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