OSSERVATORIO LETTERARIO 

*** Ferrara e l'Altrove ***

 

ANNO VII/VIII – NN. 35/36    NOVEMBRE-DICEMBRE/GENNAIO-FEBBRAIO 2003/2004     FERRARA

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Sándor Antal (Sándor Adler, 1882-1944)

 

 

GARABONCIÁS ÉNEK

 

Legtöbben, ha féltek is attól,

hogy jöttöm vihart hoz,

és veszedelmek rejteke vén felleghajtóm;

ha hírem és figurám

először sokat megijesztett;

és némely anyák, babonából

(hogy meg ne ronthassam szememmel)

köténnyel takarták a gyermek fejét;

vizet, miben szén is már ázott, ha elhíntet-

[tek,

keresztet vetettek,

és minden ajtót, ablakot zártak,

hogy messzebbre menjek, arra vártak:

 

Néhányan énfelém mégis csak közeledtek!

 

Előbb tétován szegődtek el hozzám,

igazodva a hangom után.

Majd énekes szómba fogódzva, idáig kísér-

[tek.

Azt itták és ették, amim volt: bor és kenyér,

miben véremet s’ gondolat-testemet

vették magukhoz,

és megmelegedtek lázas szívemnél.

Néhányan tanultak a számtól beszélni,

annak szemére, ki fáradt, álmot lehelni,

sok, nyitott sebeket irral is bekenni.

 

Tudva van mostan előttük valóm.

 

A vihar, mit jelentek, csak énbennem dúl,

és csak az én búzámat verte a jég el.

Vérzivatarban

nem a más csontja lúgozódott ki,

csak az enyém!

És földindulásban

nem a más teste hullt szakadékba,

csak az enyém!

És égi zengésben,

elhárítója minden vilámnak,

nem más lett, csak egyedül én!

 

Tudva van mostan előttük valóm.

 

Mert pandurkézen is voltam,

a jóházbólvalók talán meg is vetnek.

Elgörbült számhoz nem nagyon illik az ének,

hogy fogaimból egy párat bizony kiverének,

tilosba mert jártam és rajta is értek.

De inget és gondolatot,

mit másnak a teste már hordott,

mesztelen ha járok, még akkor se hordok.

És nincsen oly büntetés, törvény

el amely üthet attól a jusstól:

ha látok nagyképü embert,

rajta illetlen jót ne nevessek.

 

Tudva van mostan előttük valóm.

 

Megértik, hogy legtöbben, mások,

(a golyvások és diplomások,

a botfülüek és egyletesek;

az ipszilon végzetűek;

akiknél a megtöltött bendő a fő,

akiknél ezüst a dió-törő;

a templom legelső padjába ki űl,

és mondva naponta a hosszú imát

biztosan fogja kezében

az Isten lábát:)

ezek a karok és ezek a rendek

engem nem szeretnek.

 

Tudva van mostan előttük valóm.

 

Mert, ha izzadva mind egybegyűlnek,

éjjel téglákat vetnek és ásnak,

egész nap hajrázva vakolnak:

Azért ők nem tudnak mégse

emelni tornyosra, szépre

egy új palotát.

Míg ez a jött-ment vándordeák,

kisujja mozdulatával, játszva felépít

boltíves templomot, tornyos csudát.

Színekből örömet, beteljesült vágyat

varázsol szobája falára egy másnak.

Kifundál, kovácsol

ajtókra szépmívű zárat.

És maga, éjjel

különbejáratu árokban hálhat.

 

Tudva van mostan előttük valóm.

 

Velem is jöhetnek, vissza is mehetnek,

nem fordúlok hátra.

És más nem lehetek, mint aki most vagyok:

magános magamnak Garabonciása.

 

 

 

 

 

CANTO DEL GARABONCIÁS

 

I piů, anche se temevano

che la mia venuta portasse tempesta

e che il mio vecchio mantello nascondesse pericoli;

anche se la mia fama e la mia figura

li impressionava tanto;

e qualche madre per superstizione

(perché io non lo rovinassi con i miei occhi)

col grembiule copriva la testa del figlio;

e se spargevano l’acqua che inzuppava pure il  [carbone

facendosi il segno della croce,

e chiudevano ogni porta e finestra

aspettando che io m’allontanassi:

 

Qualcuno mi si č pure avvicinato tuttavia!

 

Vennero a me titubanti dapprima,

uniformandosi alla mia voce.

Poi, aggrappandosi ai miei canti, mi han seguito fin qui. Hanno  poi mangiato e bevuto quel che era mio: pane e vino, in cui il mio sangue e il corpo delle

[mie idee

han preso,

e si sono riscaldati presso il mio cuore ardente.

Alcuni hanno imparato a parlare dalla mia bocca,

a soffiare il sonno sugli occhi di chi era stanco,

a spalmare unguento su tante ferite aperte.

 

Č nota ora ad essi la mia realtŕ.

  

Il temporale che annuncio imperversa solo dentro 

[di me,

e la grandine ha battuto solo il mio grano.

Nella tempesta di sangue

non le ossa d’altri si son lisciviate,

ma solo le mie!

E nel terremoto

non il corpo d’altri cadde nel baratro,

ma solo il mio!

E nell’armonia celeste,

ad allontanar le folgori

non altri v’erano, ma solo io!

 

Č nota ora ad essi la mia realtŕ.

 

Perché sono stato anche in mano agli sbirri,

chi č di buona famiglia forse mi disprezza pure.

Alla mia bocca storta il canto non proprio s’addice,

ché dei miei denti un paio li han fatti cadere,

perché andavo dove non m’era permesso e m’han preso. Ma camicia e pensieri,

che altri han giŕ portato,

non l’indosso neppur se nudo devo andare.

che mi possa privare di questo diritto:

se vedo un presuntuoso

schernirlo ben bene.

 

Č nota ora ad essi la mia realtŕ.

 

Si capisce che i piů, gli altri,

(i gozzuti e i laureati,

i sordi e i soci di club;

i nobili con i cognomi che finiscono per ipsilon;

chi ha importante lo stomaco pieno,

chi ha d’argento lo schiaccianoci;

chi in chiesa siede al primo banco,

e recitando ogni giorno la lunga preghiera

certo prende in mano

il piede di Dio:)

si capisce che questi ordini

non m’amano.

 

Č nota ora ad essi la mia realtŕ.

 

Ché, se madidi s’adunan di sudore,

e di notte fan mattoni, scavano,

e tutto il giorno s’incitano ad intonacare:

non per questo sanno

innalzare una torre,

o un nuovo palazzo.

Questo goliardo vagabondo invece,

muovendo il mignolo, giocando costruisce

una chiesa a volte, un portento turrito.

Con magia di colori crea la gioia, il desiderio avvera

sulla parete della stanza altrui.

Architetta, fabbrica

per le porte una serratura ben fatta.

E lui di notte

puň dormire in un fosso ad entrata libera.

 

Č nota ora ad essi la mia realtŕ.

 

Possono venir con me, possono andar via,

indietro non mi volto.

E altro non posso esser da quel che sono ora:

il solingo Garabonciás di me stesso.

 

Traduzione Ó di Amedeo Di Francesco

 

Chi conosce la letteratura e l’antropologia culturale d’Ungheria sa che il garabonciás diák (grabancijaš dijak nella variante croata)ą č un particolarissimo chierico vagante che solo in parte corrisponde al negromante di ambito occidentale. Sino a qualche anno fa, tuttavia, si conosceva solo in minima parte la varia utilizzazione simbolico-allegorica delle sue fantasmagoriche attitudini performative, né s’immaginava quanto fosse stata rapida e brillante la straordinaria carriera letteraria di questo simpatico cialtrone che č mito e al contempo archetipo della condizione umana. Le sue doti di autorappresentazione sono straordinarie: credenza popolare e superstizione in qualche raro testo tardomedievale, banale imbroglione e imbonitore scherzoso nei drammi scolastici ungaro-croati del XVIII secolo e nel vaudeville ottocentesco (népszínmű), simbolo di irrequietezza e alter ego del poeta giramondo fra Otto e Novecento. Tutto questo per dire, preliminarmente, che il garabonciás di Sándor Antal č tutt’altra cosa, inaspettata, inusuale, inusitata: che egli non č piů figura del mito, ma simbolo dell’alteritŕ˛. Qualcosa – in fatto di rappresentazione del “diverso” -  lo si poteva sospettare giŕ in Ajándok mátkasága (1922, Il fidanzamento di Ajándok), un racconto breve di Antal Szerb che, permeato di finissimo lirismo e di virgineo candore, stordisce e inquieta con il suo profumo intenso di campagna, con la sua rappresentazione vigorosa e delicata di un’umanitŕ incorrotta e indifesa. E perň l’idillio non ha ospitalitŕ nei versi concitati di Antal, ché l’alteritŕ non č piů dettata da un ordine arcano voluto magari da leggi sovrannaturali e misteriose, ma č costruita diabolicamente da uomini impazziti che vivono per discriminare e annientare chi in qualche modo puň essere additato come diverso. Ed allora il garabonciás aiuta ad esprimere ciň che dovrebbe essere assurdo ed inesprimibile, a mostrare ciň che dovrebbe essere inconcepibile e indimostrabile. E perň non mi sembra sufficiente qui dar forza e rilievo alla rabbia che pur traspira da ogni verso: fare ciň significherebbe procedere lungo un percorso interpretativo scontato, prevedibile, ripetitivo. Antal al suo personalissimo garabonciás fa dire altre cose, assegna un compito piů arduo e piů gratificante, riserva un ruolo decisivo e definitivo: egli, allora, non č piů l’ingannevole risolutore di situazioni intricate o l’assurdo semidio che fa roteare l’immaginazione del popolino credulo e idolatra, ma l’”ultimo” degli uomini che con il proprio atto sacrificale mette in piedi una cristologia tutta sua, fors’anche discutibile, ma certamente efficace, convincente, credibile. Da tanta amarezza lasciar nascere la speranza; dalla crudeltŕ dell’odio lasciar sorgere e scorgere la tenerezza di un amore che riscatta; dalla solitudine lasciar crescere la fiducia in un possibile abbraccio: non č poco, tutto ciň, per un personaggio troppo spesso e quasi esclusivamente evocato, sinora, per il suo atteggiamento clownesco e che ora invece, pensoso, assume su di sé un fardello stracarico di motivazioni problematiche e di condizioni umane assolutamente inquietanti. Il garabonciás č ormai un severo interrogatore delle coscienze.

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ą La tradizione popolare del mito e le sue rielaborazioni letterarie appartengono infatti tanto all’Ungheria quanto alla Croazia. Per un’informazione articolata e pressoché esaustiva cfr. Amedeo Di Francesco – Arianna Quarantotto, Preti e negromanti. Il mito del  garabonciás – grabancijaš in Ungheria e in Croazia, M. D'Auria Editore, Napoli 2003, cui si rimanda anche per una completa informazione bibliografica sull'argomento. Nuove proposte di ricerca sono contenute nel mio Il garabonciás nelle pagine di «Nyugat», in «Annali Universitŕ degli Studi di Napoli ’L’Orientale’ – Studi Finno-Ugrici», 1999-2001, [Napoli 2003], pp. 249-255.

˛ Ho citato e tradotto da Garabonciás ének. Vagy inkább öreges tempójú beszédek ezek olyan kényes belsővilági dolgokról, istenes, asszonyos nyugtalanságokról, amikről a mostani nagybecsületű költők átallanak énekelni. Irta Isten nagyobb dicsőségére és enmaga vígasztalására, magyar nyelven, a Judeából régen elszármazott, de oda mindig visszavágyó, derék nyírbátori Lajosnak meg hitestársának, a szép szalárdi Jozefának elsőszülött, békétlen, deák fia, a kevés marháju Antal Sándor [Canto del garabonciás. O piuttosto discorsi dal ritmo arcaizzante su quegli aspetti spinosi della vita interiore, su quelle femminee inquietudini spirituali che i pregiati poeti di oggi si vergognano di cantare. Composto da Sándor Antal di scarsa fortuna, figlio di persona istruita, irrequieto, primogenito del bravo Lajos di Nyírbátor e della legittima moglie la bella Jozefa di Szalárd, da tempo originario della Giudea ma sempre desideroso di farvi ritorno, per la maggior gloria di Dio e a proprio conforto, in lingua ungherese], Bratislava-Pozsony 1924.

 

Traduzione e note critiche © di Amedeo Di Francesco

- Cassino (Fr)/Napoli -

 

 

 

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